Abbiamo intervistato Leonardo Di Costanzo, regista di Ariaferma. Con lui abbiamo parlato di carcere e di cinema, di pena e di umanità.


L’equilibrio che cerca di raccontare nel suo film è quello che produce “aria ferma”, invece che movimento. Cosa l’ha guidata nella rappresentazione di questo conflitto tra uomini, prima che tra carcerieri e carcerati?

Avevo molta paura di fare un film sul carcere, il concetto di colpa e di risarcimento è molto complicato. Ad oggi continua a non essermi chiaro e non riesco ad essere chiaro con me stesso, faccio difficoltà ad avvicinarmene. Ho sempre fatto film su personaggi che, per condizioni personali o vocazione religiosa, erano vicini alle parti “difficili” della società. Persone a cavallo fra il dentro ed il fuori, costrette, con il tema di Antigone che ritorna, a ricercare la ragione di Stato e la ragione del sentimento. Il mio non sapere mi ha accompagnato anche in questa ricerca che ha avuto inizio tramite il dialogo con gli agenti e con i detenuti. Per la loro contiguità di estrazione sociale e culturale, ciascuno poteva trovarsi da una parte o dall’altra delle sbarre a causa di una serie di accidenti della vita. Ho pensato ad un film che mantenesse quest’equilibrio e, volendomi allontanare dalla vasta cinematografia sul carcere già esistente, ho pensato che la soluzione adatta fosse trovare un punto di vista mediano fra i due gruppi, stando al centro ed ascoltando sia l’uno che l’altro. Questa è stata la decisione di testa, spinta dal sentimento che ho provato nelle prigioni.

Lei si è documentato sulle carceri, sulle tipologie di detenuti e sui comportamenti delle guardie. Racconta, però, di un carcere quasi modello, l‘equilibrio nel film è palpabile; la narrazione più comune e drammatica delle carceri non emerge. Anche l’espediente narrativo che utilizza, il trasferimento dei detenuti e la rimanenza di poche persone nel carcere dismesso, favorisce determinati rapporti e facilita le relazioni. È un carcere definibile “normale” nel sistema penitenziario, a suo parere?

Non è un carcere, è il carcere. Il carcere è un’idea: una persona che chiude un’altra in gabbia. Dopo la scena della cena, un momento di unione di persone che costituiscono una micro-comunità, c’è la chiusura delle gabbie. Al di là dei delitti commessi, questo è un atto di violenza inaudita, sia per chi lo subisce che per chi lo opera. Il fatto di essere qualcuno che chiude in gabbia qualcun altro fa scaturire la violenza che va poi sviluppandosi sui detenuti. Un atto insopportabile per qualsiasi essere umano, un gesto violento a cui si può reagire in due modi: con convinzioni ideologiche o religiose che portano ad immaginare soluzioni altre; oppure assumendo pienamente il ruolo del carnefice, che porta al verificarsi di eventi come quelli avvenuti a Santa Maria Capua Vetere. Il carcere in cui abbiamo girato il film [1] nel 2001 è stato scenario di violenze inaudite che poi hanno determinato la chiusura della struttura e la conseguente apertura di una nuova. Gli agenti con cui mi sono confrontato giustificano il proprio atto di violenza, perché questo non può essere neutro. Il poliziotto di strada ha un ruolo attivo: prendere qualcuno e consegnarlo alla giustizia. Il ruolo dell’agente penitenziario è un ruolo passivo, è il ruolo della guardia, è un ruolo duro. All’interno della loro categoria è molto alto il numero di suicidi, tre volte maggiori rispetto alle altre forze dell’ordine.

Gaetano, il personaggio interpretato da Toni Servillo, è profondamente convinto, sul piano morale, della sua diversità assoluta rispetto al carcerato. La solidarietà che prova e applica non fa venir meno questo principio. A un certo punto dice: «io e te siamo totalmente diversi».

Ma Gaetano ci crede quando lo dice? Secondo me non ci crede. Egli ha appena assistito ad una scena: la direttrice, ovvero l’istituzione, se n’è andata. Rimane un piccolo gruppo di uomini a gestire il carcere e La Gioia è il primo ad accorgersene durante lo sciopero della fame. Quando viene chiamato in direzione fa una provocazione: chiede di aprire la cucina. Gaetano accetta, prendendolo in contropiede. Questa cosa viene vissuta da La Gioia come l’inizio di un rapporto di fiducia che porterà al momento massimo della cena. Gaetano, in questo modo, esce dal ruolo dettatogli dalla divisa, ma ciò comporta dei rischi (pensiamo, ad esempio, al rischio che Fantaccini si uccida). Quando per la seconda volta va in cucina, ha bisogno di prendere le distanze da quella situazione e tornare a rivestire il suo ruolo. Il modo in cui dice che non hanno niente in comune, secondo me, fa intendere che non ci crede. Io, quanto meno, l’ho letta così.

Sebbene il film mostri una situazione di apparente eccezionalità, certi problemi sono gli stessi che leggiamo sui giornali. Questo film è un’occasione per il ripensamento dell’idea di carcere e di pena?

Fin quando il carcere sarà così, luogo in cui un uomo ne rinchiude un altro in una gabbia, non sarà mai proficuo. Nemmeno un carcere moderno potrà mai esserlo, nonostante le migliori condizioni di vita previste. La mia non è utopia, nei paesi del Nord Europa è realtà. Spetta a noi decidere se vogliamo che il carcere continui ad essere essenzialmente punizione e vendetta o se pensiamo che il carcere debba essere allineato alla Costituzione e agli ideali delle madri e dei padri costituenti: rieducazione e reintegrazione. Penso sia molto più importante che questo film venga visto fuori, piuttosto che dentro gli istituti di pena. Le persone devono capire e spingere affinché il dettato costituzionale venga applicato. Eppure, sembra una comprensione difficile, poiché tutti abbiamo una reazione di esclusione quando vediamo dei delitti efferati: “prendi la chiave e buttala”. Bisogna, però, chiedersi quanto ciò serva per la comunità e quanto per la vittima. Mi piace ricordare quanto affermato dal Presidente dei familiari delle vittime della strage di Brescia riguardo al recupero dei colpevoli: «la legislazione non deve pensare a me, individuo, ma alla collettività. È chiaro che mi ferisce sapere che il criminale sia fuori, ma questo è giusto? È quello che alla comunità serve?». Nel carcere di Bollate, luogo modello in cui i detenuti sono trattenuti solo per dormire, la recidiva è del 10%, contro il 70% degli altri istituti. Quando il carcere è punizione produce malavita, diventa uno stimolo alla criminalità, ma dovremmo pensare a non perpetrare la criminalità, anche da un punto di vista egoistico. La maggior parte dei direttori che ho incontrato afferma che il carcere non serve a nulla. C’è un grande dibattito all’interno del mondo giudiziario sulla ricerca di soluzioni, ma è assurdo che rimanga confinato solo in quell’universo. Secondo la mia opinione dovremmo essere più partecipativi. Anche io ho paura, sono temi grossi che interrogano profondamente come individui e come collettività, ma vanno affrontati.

Lei racconta il carcere in un’ottica che, fra le altre cose, supera la narrazione del detenuto come autore del reato e lo riconosce come essere umano. In che modo il film s’inserisce all’interno di un dibattito pubblico in cui, invece, prevale la volontà di “mettere il detenuto in cella e buttarne la chiave”?

Il mio problema è sempre stato quello di ascoltare il sentimento. L’atto creativo del fare un film, sebbene pensato e composto da riflessioni, resta comunque un atto spontaneo che racconta un sentimento. Io per primo sono voglioso di scoprire quale ricaduta sociale abbia la mia narrazione. Chi crea un’opera, qualunque essa sia, non ha sempre un obiettivo diverso dall’esprimere un sentimento. Ad un certo punto, entrando in carcere, ho avvertito una compassione e una violenza che ho voluto trasferire nel mio racconto. Il giudice di sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere mi ha chiesto di proiettare il film nel carcere e io sono contentissimo di avere l’occasione di andare lì e mostrarlo agli agenti. Per preservare quest’occasione, la Ministra Cartabia, a seguito di una proiezione a Rebibbia, ha conservato le deleghe della formazione, comprendendo quanto tale visione fosse utile al fine di formare gli agenti. Perché il carcere deve essere rieducazione, come da dettato costituzionale.

Una provocazione: precedentemente ha detto di aver voluto raccontare il carcere in modo paritario fra l’ottica del detenuto e quella dell’agente. Ha scelto un tipo di agente e di detenuto ben individuabile.

Certo, le persone, qualunque persona, sia il detenuto sia l’agente, possono essere molto cattivi. Ma se li si guarda da vicino sono esseri umani ed è qui che si pone il problema, lo stesso che ha causato molti malumori quando in Germania girarono un film su Hitler. Data la sensibilità del tema, molti si scontrarono con il regista, perché ne aveva colto l’aspetto umano. Io non l’ho fatto con Hitler, l’ho fatto con ladri di polli, delinquenti comuni. Però, avvicinandoti, ne cogli l’aspetto umano, inevitabilmente. Questo è ciò che mi è successo parlando con i detenuti e con gli agenti.

Ha anche affermato che il motivo per cui ha deciso di girare il film è stato il sentimento di profonda compassione nei confronti dei detenuti. Può spiegarlo meglio?

Lavorando in carcere ci si relaziona con queste persone in modo molto umano, si creano anche delle simpatie e delle antipatie. Si crea un sentimento fugace ed umano, ed è stato questo a guidarmi nel film. Io non sono un avvocato o un giudice, sono un artista, e l’artista si occupa del sentire e delle sensazioni. Ho pensato molte volte: «com’è possibile che una persona come lui si trovi in carcere?». La risposta che mi sono dato è che il limite tra il bene e il male è molto labile e ci si può trovare da una parte o dall’altra in un niente. Ci sono alcune persone che, per educazione o per condizione sociale, sono più esposte alla criminalità. In ognuno di noi regna il bene ed il male, un dualismo che ci induce a stare sempre attenti, ad avere sempre la guardia alta. Una volta, una persona mi ha detto: «io non mi sarei mai immaginato qui a 40 anni, ero un ragazzo normale, brillante, positivo e ora sto qua». Insomma, può accadere che si compia un gesto che conduca al di là della parete, ed è per questo che si è sempre in uno stato d’allerta: un continuo scongiurare che la paura di trovarsi rinchiusi si avveri.