La Commissione giustizia della Camera dei deputati ha approvato un testo base di modifica della disciplina dell’accesso ai benefici penitenziari per i condannati per il cosiddetto “reato ostativo”, ovverosia uno tra quelli presenti nell’elenco dell’art. 4 bis ord. pen. (L. 26 luglio 1975, n. 354).
Una radicale revisione della disciplina si è resa necessaria a seguito dell’ordinanza n. 97/2021 della Corte costituzionale, la quale aveva riconosciuto che l’attuale requisito – collaborazione con la giustizia, a meno che la stessa non sia impossibile o oggettivamente irrilevante – era incompatibile con la Carta costituzionale. La Corte aveva concesso un anno di tempo al legislatore affinché potesse ridisegnare la normativa adeguandosi ai principi costituzionali (in particolare artt. 3 e 27, comma terzo, Cost.). Il disegno di legge, ciononostante, prefigura una disciplina che non pare collimare con le indicazioni della Corte. I benefici penitenziari (assegnazione al lavoro all’esterno, permesso premio, affidamento in prova al servizio sociale, detenzione domiciliare, semilibertà e liberazione condizionale) potranno essere concessi ai condannati all’ergastolo per uno dei delitti previsti dal succitato art. 4 bis e non collaboranti, purché sussistano i seguenti requisiti (nuova formulazione art. 4 bis, comma 1 bis, ord. pen.): a) regolare condotta carceraria e partecipazione al percorso rieducativo; b) integrale adempimento delle obbligazioni civili e delle riparazioni pecuniarie derivanti dal reato o l’assoluta impossibilità di tale adempimento; c) congrui e specifici elementi concreti, diversi e ulteriori rispetto alla mera dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione criminale di eventuale appartenenza, che consentano di escludere con certezza sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e con il contesto nel quale il reato è stato commesso, sia il pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi, tenuto conto delle circostanze personali e ambientali.
I rilievi più critici devono appuntarsi al requisito sub c), considerato che l’onere della prova incombe sul condannato. In particolare, consiste in una vera e propria probatio diabolica, rappresentandosi come sostanzialmente impossibile riuscire a dimostrare con «certezza [..]» l’esclusione del «pericolo di ripristino di tali collegamenti», in quanto si tratta di una prova negativa e a carattere prognostico. Bisogna ricordare che la Corte costituzionale, nella sentenza n. 253/2019, ha subordinato la possibilità di concedere un permesso premio ad un condannato ostativo non collaborante all’allegazione, da parte di quest’ultimo, di uno specifico compendio dimostrativo, che deve «estendersi all’acquisizione di elementi che escludono non solo la permanenza di collegamenti con la criminalità organizzata, ma altresì il pericolo di un loro ripristino, tenuto conto delle concrete circostanze personali e ambientali». La corretta estensione di tale onere è stata indicata dalla Corte di Cassazione (sent. n. 33743/2021): «allegazione specifica, in particolare, significa che gli elementi di fatto prospettati nella domanda devono avere una efficacia “indicativa” anche in chiave logica, di quanto occorre a rapportarsi al tema di prova»; di conseguenza, «il richiedente è tenuto ad illustrare gli elementi fattuali che abbiano concreta portata “antagonista” sul piano logico rispetto al fondamento della presunzione relativa di pericolosità (ad es. l’assenza di procedimenti posteriori alla carcerazione, il mancato sequestro di missive, la partecipazione fattiva all’opera rieducativa) ma, a ben vedere, non può essere chiamato a ‘riferire’ (in sede di domanda introduttiva) su circostanze di fatto estranee alla sua esperienza percettiva e, soprattutto, non può fornire – in via diretta – la prova negativa ‘diretta’ di una condizione relazionale, quale è il ‘pericolo di ripristino’ dei contatti». Il legislatore ignora tale interpretazione, ponendo così le basi per una futura questione di legittimità costituzionale; sempreché la Corte costituzionale non intervenga prima, esercitando il controllo di legittimità che si è riservata di svolgere in seguito alle decisioni assunte dal legislatore (§ 11. ord. 97/2021).
La disciplina presenta altri profili molto controversi. Innanzitutto, la stessa si applicherà soltanto ai condannati all’ergastolo; questo significa che i condannati ad una pena diversa saranno sottoposti alla disciplina prevista dall’art. 4 bis, comma 1, ord. pen, la quale prevede che i benefici penitenziari – tranne i permessi premio, per i quali si deve applicare la disciplina dettata dal comma 1 bis – possano essere concessi solo nei casi in cui i «detenuti o internati collaborino con la giustizia». Oltre a rappresentare un ulteriore elemento di contrasto con il monito della Consulta (§ 10. ord. 97/2021), una siffatta distinzione è priva di ogni ragionevole giustificazione. Inoltre, è aumentato della metà il periodo di pena che è necessario aver scontato – a fronte di condanna per uno dei delitti previsti dall’art. 51, commi 3 bis e 3 quater, cod. proc. pen. – per poter accedere ai benefici penitenziari (art. 58 quater, comma 3 bis, Ord. Pen.). Ancora, la concessione della liberazione condizionale per il condannato all’ergastolo per uno dei delitti previsti dall’art. 4 bis e non collaborante potrà avvenire soltanto dopo aver scontato 30 anni di pena, a fronte degli attuali 26 (nuova formulazione art. 176, comma terzo, cod. pen.). Infine, il periodo di tempo che deve trascorre dal provvedimento di liberazione condizionale per ottenere l’estinzione della pena e la revoca delle misure di sicurezza personali è aumentato da 5 a 10 anni (nuova formulazione dell’art. 177, comma secondo, cod. pen.). Ancora una volta, su un tema tanto delicato, che richiederebbe raziocino e ponderatezza, il legislatore dimostra di non voler ascoltare i moniti affermati dalla Corte costituzionale e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, bensì di preferire le preoccupazioni infondate dell’opinione pubblica in relazione a una paventata disgregazione del cosiddetto strumentario antimafia. In tal modo, tuttavia, si nega al condannato per taluni delitti, e non collaborante, il diritto alla speranza, che è espressione della dignità umana; quest’ultima, è bene ribadirlo, «non si acquista per meriti e non si perde per demeriti», perché appartiene all’uomo in quanto tale, come afferma il Presidente emerito della Corte costituzionale Gaetano Silvestri. Speriamo, non lo dimentichi nemmeno il legislatore.
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