Da Palamara come capro espiatorio alle argomentazioni favorevoli e contrarie alla separazione delle carriere, passando per la modestia morale ed etica che, rispettivamente, il professore Zagrebelsky ed il Presidente Mattarella hanno assegnato a certi movimenti patologici della magistratura. Paolo Borgna, già procuratore aggiunto a Torino e saggista, interviene ed indaga per Extrema Ratio sulle attuali criticità della magistratura, un tempo sommerse ed ora emerse con il caso Palamara, nel certo solco di una convinzione: non esistono esimenti dallo sfocio dell’autonomia e dell’indipendenza nell’irresponsabilità.

All’interno dell’irriflessivo ciclo della violenza, René Girard racconta come la figura del capro espiatorio ricopra una duplice funzione: causa della stessa violenza iniziale e, dall’altra parte, dispositivo miracoloso. Tenendo a modello la definizione, si può dire che Palamara rientri in questo ruolo?

Palamara sicuramente è un capro espiatorio, perché indubbiamente ha responsabilità molto grandi. Quello che ha definito il “sistema delle correnti” l’ha creato insieme agli altri, e non gli altri con lui a bordo del campo. Lui era in campo e giocava la partita. Tuttavia, è anche vero che è stato presidente dell’ANM non perché un aereo americano l’ha paracadutato sulla sedia dei presidenti dell’ANM; a quell’incarico, a suo tempo, lui  è stato eletto all’unanimità e poi, anche grazie a questo, è stato eletto con grande suffragio al CSM, dove l’unanimità non è stata possibile per via comunque delle liste concorrenti. Quello che ha disvelato il grande caso Palamara era già noto a tutti, a parte -per quanto riguarda me- un surplus di linguaggio turpe e ricattatorio che non immaginavo fosse arrivato a questo punto. Un dato che mi ha colpito molto, e che Zagrebelsky chiama “modestia morale”, espressione in seguito usata proprio dal presidente Mattarella. Zagrebelsky con quest’espressione faceva riferimento anche al linguaggio usato nella compravendita, diciamo così. Ma a parte questo, per così dire, “surplus”, il caso Palamara non ha disvelato niente di straordinario; perciò, in questo senso pensare che si risolva tutto fucilando in piazza Palamara ed espellendolo quasi all’unanimità (la stessa che lo aveva eletto, verrebbe da dire) dall’ANM è una grande ingenuità che, per fortuna, nessuno pensa. Tutti sperano che passi la buriana, la tempesta, e che poi si ritorni con delle forme più civili, grazie a qualche correzione, al sistema di prima. E se Marco D’Orazi nel suo libro (vd.“Una giustizia degna dell’Italia, idee sparse per la scossa della magistratura,” con prefazione dello stesso Paolo Borgna; l’autore del libro, presto, ospite in un’intervista su Extrema Ratio), di cui consiglio fortemente una lettura, fa un’analisi spietata per poi essere molto ottimista sulle prospettive di risalita e di riconquista dell’autogoverno da parte della stessa magistratura; io invece, volendo pure che abbia ragione D’Orazi, sono sul punto più pessimista. Forse, perché sono più vecchio. Non vedo grandi possibilità per l’autogoverno di riguadagnare una purezza persa. L’autogoverno è mutato geneticamente rispetto all’idea che ne avevano i Costituenti, ed è diventato non soltanto qualcosa che ha dato dei frutti marci.

Lei più volte ha fatto rinvio alla “modestia culturale” delle correnti, che ha definito “vuote crisalidi efficienti”. Può spiegarci meglio questa categoria?

La “modesta culturale” è, per me, un eufemismo generoso, innanzitutto. E per quanto riguarda le “vuote crisalidi”, specifico è una espressione che utilizzavo vent’anni, già nel 2000, in un saggio su Micromega. Le correnti nascono come portato del confronto politico ed ideologico che c’è stato in Italia negli anni ’60. Tant’è che le correnti nascono molto ideologizzate, secondo me troppo; penso ai forti scontri che c’erano tra i colleghi di Magistratura democratica, da una parte, e Magistratura indipendente, dall’altra. Però, la sostanza c’era, avevano un senso. Una ragione vera e forte di divisione di confronto c’era. Ripeto: per me esagerata, e con delle rigidità veramente ideologiche e perciò sbagliate, soprattutto per dei magistrati. Per dare meglio l’idea, ricordo che, quando entrai in magistratura, conobbi un collega che studiava diritto sovietico; parlo di colleghi molto più anziani di me, quando io avevo 26 anni e loro 50. E quando le ideologie sono cadute (per lo meno quelle di allora), la struttura delle correnti è rimasta sostanzialmente in piedi- come racconta Marco D’Orazi- come struttura clientelare. Hanno perso l’anima e non l’hanno sostituita con qualcosa di più vivo e di nuovo. Eppure io penso- e questo scrivevo in quel saggio su Micromega nel 2000- che, una volta caduto il muro di Berlino e tutto il resto, le correnti sarebbero potute essere davvero luogo di dibattito, vero e forte sia sull’ analisi della giustizia sia sulle idee e sulle proposte per migliorarla. Per carità, in parte lo sono. Non sono soltanto brutte, sporche e cattive. Però, hanno giocato il loro vero ruolo nella gestione dell’ANM, e poi attraverso l’ANM nell’ occupazione dei momenti istituzionali in cui s’articola l’autogoverno della magistratura(cioè consigli giudiziari e CSM). C’è stata, in un certo senso, un’occupazione “militare” da parte delle correnti, per pigrizia anche degli altri magistrati. Io ero in una corrente, ne sono uscito vent’anni fa, e ho dato battaglia all’interno dell’ANM per cambiare queste cose. Sono stato sconfitto come molti altri, e poi mi sono rassegnato, devo essere sincero. In qualche modo, o perché si è stati sconfitti, o per cinismo, o per convenienza, molti hanno accettato una situazione che era sotto gli occhi di tutti. Quando vedo dei magistrati giovani che, come Marco D’Orazi, hanno una spiccata lucidità d’analisi e una tale voglia di battersi, allora di fronte a questo e solo di fronte a questo io spero di sbagliarmi nel mio pessimismo. Solo in questo modo riesco a sperare che ci sia ancora nella magistratura la forza intellettuale per un cambiamento di rotta.

…quindi, per concludere, sembra che la “modestia culturale” si riduca a quell’assenza di dialogo, a quella pigrizia a cui faceva riferimento…

Esatto, certo. Voi andate a prendere, ad esempio, le discussioni che facevano negli anni ‘60/’70 personaggi come Pino Borrè e Salvatore Senese da una parte, e Giovanni Colli dall’altra. Quest’ultimo, aggiungo, è stato procuratore generale di Torino e poi della Cassazione, molto conservatore, un partigiano monarchico durissimo, molto antifascista. Ecco, basti pensare che si era fatto trasferire a Roma, da Torino, pur di non giurare alla Repubblica Sociale, nei venti mesi. Era quindi uno molto antifascista, ma anche molto anticomunista, e aveva una lucidità di analisi (anche se per certi versi molto conservatrice) e di visione del magistrato per cui, ad esempio, addirittura criticava la Corte Costituzionale per le sentenze interpretative di rigetto. Era su posizioni che oggi considereremmo d’ oltranzismo di destra, forse. Aveva, però, un’elevatezza di cultura e di capacità polemica, come d’altra parte ce l’avevano i personaggi che citavo prima, che oggi verrebbe da dire quanto segue. Gramsci diceva che dobbiamo essere come dei “nani sulle spalle di giganti”, per vedere un po’ più in là. Ecco, non vorrei offendere, ma credo sia necessario purgare un pochettino questa frase, perché mi pare che alcuni dirigenti della magistratura associata siano dei “nani rimasti ai piedi dei giganti”

Tra le argomentazioni contrarie e più ridondanti alla separazione delle carriere, c’è quella per cui se tale riforma venisse approvata “verrebbe sovvertito l’assetto dell’ordine giudiziario voluto dalla Costituzione”.  Lei, invece, sostiene che il magistrato reale è già oggi stellarmente lontano da quello pensato dai Costituenti.

Da decenni, s’affollano proposte ed argomentazioni contrarie, ma alla fine niente è accaduto ed intanto la malattia è peggiorata. Per questo, temo che ormai il problema delle correnti sia un falso problema, o la sua parte terminale: i magistrati hanno le correnti che si meritano, le stesse che sostengono convinti o che almeno accettano, e sono sempre loro ad inviare al CSM gli esponenti delle correnti a cui chiedono appoggi e sostegni. Se è così, allora il problema è l’autogoverno della magistratura, perché il problema è l’autoreferenzialità interna alla corporazione per le decisioni che riguardano la corporazione. Oggi, l’assoluta separatezza del corpo dei magistrati, che secondo i Costituenti avrebbe dovuto preservarne l’indipendenza, è diventata una cappa soffocante. Ed è evidente che non fosse questo quanto volevano i Costituenti. Calamandrei, per esempio, vedeva i giudici come “sacerdoti che dicono messa”, perché i loro orizzonti sono “segnati dalle leggi”. Li dipingeva solitari nell’ ultimo tavolo dell’unica trattoria del paese, avendo “come unica commensale l’indipendenza”. Quel tavolo, oggi, è assai più affollato. Ed è ben rappresentato dai tavolini dell’hotel Champagne.

Si sono succedute alcune proposte in reazione allo scandalo: diminuzione dei togati, aumento quota laici, riforma del sistema di elezione dei togati fino anche al sorteggio. Cosa ne pensa?

Innanzitutto, se è vero che oggi i magistrati sono indipendenti da tutto e da tutti tranne che dai capi delle loro correnti, allora bisognerà chiedersi se non sia necessario modificare il principio di autogoverno per tutelare davvero l’indipendenza di ciascuno. Tuttavia, sappiamo bene che una riforma come questa comporterebbe una revisione costituzionale, e oggi non è possibile. Perché, se Atene piange, Sparta non ride. Se la magistratura italiana oggi è culturalmente in ginocchio, nella politica non si distingue un pensiero forte, con proposte di riforma di lungo orizzonte. In ogni caso, è difficile trovare una formula per coniugare indipendenza e responsabilità. Quel che è certo, però, è la necessità di una terapia, che per esempio D’Orazi affida a più capitoli del suo libro. Io non ho soluzioni, ma sono certo che, sullo sfondo, sarà necessaria una “rinnovata tensione etica”: una modifica che nessuna riforma, però, potrà mai realizzare, ma senza la quale ogni riforma è destinata ad essere scritta sulla sabbia.

Calamandrei sosteneva che la Costituzione è presbite. A proposito, si può dire che l’ultimo comma dell’art.106 cost. proponga una prospettiva non colta, o forse deliberatamente trascurata: quella della circolarità delle esperienze professionali?

I magistrati amano sbandierare la famosa “unità della cultura della giurisdizione” come un vessillo, per giustificare la loro contrarietà alla separazione delle carriere. Per me, questa deve comprendere anche l’avvocatura. E’ l’unico modo reale per evitare la separazione delle carriere, perché amplia, anziché soffocare, la circolarità delle esperienze professionali. Questo, secondo la mia lettura, ce lo dice la Costituzione, nella filosofia che ispira l’ultimo comma dell’articolo 106 (che prevede la possibilità di accesso in Cassazione per gli avvocati con quindici anni di esercizio, oltre che per i professori ordinari di diritto). Una strada che avremmo dovuto percorrere anche per gli altri gradi, e che invece i magistrati hanno voluto sbarrare. Dirò di più: potessi riscrivere gli artt. 106 e 107 cost., porrei come prima regola che possono svolgere le funzioni di pubblico ministero soltanto coloro che, per almeno cinque anni, hanno svolto la professione di avvocato. Non a caso, una proposta che feci, più di vent’anni fa, alla Camera penale di Torino e che avevo ripreso dalla quella straordinaria fucina di idee che fu Magistratura democratica nella metà degli anni Sessanta, era proprio d’ introdurre un concorso per entrare in magistratura riservato agli avvocati. Una discussione che oggi non sembra più possibile, in questa specie di guerra dei cent’anni pro o contro la separazione, in questa battaglia da opposte trincee dove il canovaccio è già noto, in cui ad ogni battuta di una parte si sa già quale sarà la risposta dell’altra. Avvocati e magistrati avrebbero dovuto portare avanti una comune riflessione su come inverare l’articolo 106 della Costituzione. Non saremmo stati, oggi, in questo stallo.