Avv. Emanuele Fragasso Jr (Studioso senior Procedura Penale Studium Patavinum)
A coloro che guardano con diffidenza, se non addirittura malevolmente, le cd. “garanzie” processuali, ricordiamo un episodio storico – eccezionale e straordinario – il quale ci pare utile per orientare ed intraprendere una breve riflessione sul cd. “garantismo”. Il 20 luglio ’44, a Rastenburg, in Prussia orientale, alle ore 13.42, una forte esplosione squassò la Lagebaracke in cui Adolf Hitler e numerosi Ufficiali erano riuniti. L’ordigno era stato lì portato, collocato ed attivato dal Colonnello Conte Berthold Schenk von Stauffenberg, il quale era uscito dalla stanza «per fare una telefonata» (D. FRASER, Rommel, Mondadori, 1994, p. 496), dopo avere azionato il meccanismo esplosivo.Nel pomeriggio dello stesso giorno, a Berlino, il generale Fromm – ripristinato nel suo potere di Comandante dell’esercito territoriale, dopo che i cospiratori erano stati disarmati dai militari rimasti fedeli al Führer – costituì una Corte marziale, nella sua sola persona, e condannò a morte von Stauffenberg ed altri tre cospiratori, urlando contro gli imputati ed ingiuriandoli. La condanna fu eseguita circa 30 minuti dopo la mezzanotte tra il 20 ed il 21 luglio, cioè 10 ore e 50 minuti circa dal momento dell’esplosione: il famoso Attentat che, però, non tolse la vita ad Hitler. Un “processo” rapidissimo, al punto da poter essere definito breve come un lampo, eseguito da una Corte marziale monocratica, istituita proprio dal suo unico componente, post et propter delictum: pertanto un “giudice” speciale e straordinario che agì e inflisse la pena di morte, senza l’osservanza di forme giuridiche e, per quello che se ne sa, senza un dibattimento pubblico ed in assenza di un difensore. A tutto ciò si deve sommare un’ulteriore patologia processuale: a carico del povero Colonnello gravava anche il fardello dell’ “evidenza” della sua colpevolezza, dovuta presumibilmente alla circostanza che von Stauffenberg ripartì subito dopo l’esplosione, sebbene – giova annotarlo in senso contrario alla scorciatoia della prova evidente o della quasi flagranza – l’SS di guardia lo avesse autorizzato ad uscire dal cancello, senza aver percepito alcuna prova di reità nei suoi confronti, pur nella sua “consegna di vigilanza”. La pena fu eseguita da una squadra di sottufficiali, alla luce dei fari dei camion allineati. (D. FRASER, op. cit., p. 503) Dunque, una condanna a morte inflitta ed eseguita senza alcun contraddittorio e in assenza della più embrionale delle “garanzie” che caratterizzano il processo penale. Un’esecuzione sommaria, dunque, o, se si preferisce, una fucilazione pura e semplice, quella con cui furono “giustiziati” il Colonnello von Stauffenberg ed i suoi complici. Il contrario, cioè, del giudizio, del processo e delle regole stabilite dalla legge a presidio della sua legittimità ed equità. Infatti, il giudizio è costituito da una successione di atti, regolata dalla legge processuale. Quella successione che i giuristi civilisti, a partire dalla fine del XII secolo, definirono ordo iudiciarius, cioè un ordine articolato in fasi (cfr. B. PASCIUTA, Il diavolo in Paradiso. Diritto, teologia e letteratura nel Processus Satane, Viella, 2015, p. 86 ss.).
Se si pone ora l’attenzione al diritto vigente, ci si avvede che, particolarmente per il processo penale, le norme dettano regole precise, già nel testo della Costituzione, oltre che nel codice di rito. Si tratta di regole e principî assai noti, così che è sufficiente limitarsi a menzionarli: la necessità che il processo sia conforme alla legge (art. 111, co. 1 Cost.); l’esistenza di diritti inviolabili dell’uomo, i quali sono riconosciuti e garantiti – non già graziosamente concessi – dalla Repubblica (art. 2 Cost.); l’inviolabilità della libertà personale, del domicilio, della libertà e della segretezza di ogni forma di comunicazione (artt. 13, 14 e 15 Cost.), salve le loro limitazioni, ma esclusivamente nei casi e modi previsti dalla legge; l’inviolabilità della difesa, in ogni stato e grado del procedimento (art. 24, co. 2 Cost.); il divieto di distogliere l’imputato (o il convenuto) dal giudice naturale, precostituito per legge (art. 25, co. 1 Cost.); il divieto di applicazione retroattiva delle leggi incriminatrici (art. 25, co. 2 Cost.); la presunzione di non colpevolezza sino alla condanna definitiva (art. 27, co. 2 Cost.); la funzione rieducativa della pena ed il divieto della pena di morte (art. 27, co. 3 e 4 Cost.), i requisiti minimi del giusto processo (art. 111, co. 2,3,4,5,6 e 7 Cost.). Questa sommaria elencazione – abbisognevole di un approfondimento che però, è incompatibile con i limiti di un succinto intervento – suggerisce alcune osservazioni. Il concetto di “garanzia” trova un esplicito richiamo testuale nell’art. 2 Cost., con riferimento ai diritti inviolabili dell’uomo, riconosciuti e garantiti – lo ripetiamo – dalla Repubblica. Nondimeno, tale concetto, pur non comparendo nella trama linguistica delle altre norme costituzionali precedentemente evocate, non è affatto estraneo alla ratio ed ai valori che ispirano teleologicamente quelle disposizioni. Infatti, sia i limiti di volta in volta stabiliti dalla Costituzione ad alcuni diritti di libertà, sia i casi, i modi e i requisiti che connotano le rispettive “compressioni”, concorrono a costituire le trincee, cioè le garanzie a presidio dell’inviolabilità dei medesimi diritti. Col che ci avviciniamo al punto cruciale della questione. Se e quando, infatti, il Legislatore – costituzionale, oppure ordinario – intende tutelare e garantire uno specifico diritto, allora stabilisce, tassativamente, i casi, i modi e le condizioni, cui è subordinata la sua limitazione, resa indispensabile dalla necessità di salvaguardare altre “esigenze” meritevoli di tutela: emblematico, in tal senso, è l’art. 13, co. 2,3,4 e 5 Cost..
In questo modo emergono le garanzie di quel diritto e, simmetricamente, gli obblighi di osservanza delle corrispondenti norme processuali – stabilite, pure, nel c.p.p. – anche quando il loro rispetto «non importa nullità o altra sanzione processuale», come statuisce l’art. 124, co. 1 c.p.p.. La cd. garanzia altro non è, dunque, che il presidio processuale di un valore giuridico ritenuto meritevole di tutela della Costituzione o del Legislatore ordinario. E – si badi – siffatta tutela giuridica può concernere diritti soggettivi, o, invece, garanzie oggettive (vd. P. FERRUA, Il “giusto processo”, 3^ ed., Zanichelli, 2012, p. 83 ss.), senza che la sua attinenza ad un diritto della persona – come, solitamente, stabiliscono la Convenzione europea e le altre fonti internazionali – ne comporti una inferiorità rispetto alle altre garanzie. Ne consegue che la garanzia – sia di un diritto dell’imputato, sia di un interesse pubblico – è, in ogni caso, finalizzata a presidiare, cioè ad assicurare la realizzazione del “tipo” di processo prescelto dalla legge, alla stregua del modello giuridico, filosofico, morale e politico, voluto dal Legislatore a tal fine. Si profila, qui giunti, un importante corollario: le garanzie sono tutt’altro che privilegi in favore di questo o quell’imputato. Esse “valgono” per tutti, senza distinzioni di sesso, di censo etc., poiché sono previste da norme generali. Inoltre, le garanzie hanno uno specifico fondamento giustificativo che è costituito, in primo luogo, dalla consapevolezza – da parte di un legislatore liberale – che il processo penale, esercitando forza, in certi casi anche violenza e sofferenza, deve «farlo sacrificando il meno possibile i diritti altrui» (come osserva A. CAMON, in AA.VV., Fondamenti di Procedura Penale, Wolters Kluwer, 2019, p. 9). La seconda spiegazione razionale discende dall’esperienza, maturata nel corso dei secoli, la quale ammonisce che «[l]a procedura può sempre convertirsi in tragedia, quando sulla difesa piovono batoste» (è uno dei numerosi, preziosi insegnamenti di M. NOBILI, L’immoralità necessaria, il Mulino, 2009, p. 137). Lo squilibrio, via via sempre maggiore, tra i poteri dell’Accusa (e.g. l’impiego diffuso del Trojan horse virus) ed i diritti della Difesa (oggi privati addirittura dell’unità di tempo, luogo ed azione, a causa della udienza a distanza, per via digitale) non assicura il trionfo della Giustizia sui reati, ma trasforma il processo penale in uno strumento – anzichè in un valore autonomo – della punizione-vendetta, bramosamente cercata dalle Erinni. In nome del giustizialismo punitivistico, alcuni, oggi, fingono di non conoscere l’attualità dell’insegnamento di Eschilo sulle “garanzie” che distinguono il giudizio della persecuzione feroce: «Vince Oreste anche se il verdetto dà equilibrio di voti», stabilì Atena nelle Eumenidi.
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