In vista delle elezioni politiche del 25 settembre i temi legati all’amministrazione della giustizia penale non sono il principale oggetto di dibattito. Tuttavia, negli scorsi giorni si è riaperta la discussione sull’abolizione della facoltà di appellare le sentenze di assoluzione (di primo grado) da parte del pubblico ministero. La questione non è nuova ed è già stata in passato ragione di scontro: dall’entrata in vigore del codice di rito la disciplina ha subìto diverse modifiche. In particolare, la tanto discussa “legge Pecorella” (L. n. 47/2006) aveva già introdotto il divieto per il pubblico ministero di impugnare le sentenze di assoluzione, salvo poi esser dichiarata incostituzionale. Tuttavia, non per questa ragione la proposta è da abbandonare. Anzi, le indicazioni della Consulta potranno esser prese in considerazione ai fini dell’introduzione di una disciplina costituzionalmente legittima. Una precisazione preliminare: si tratta esclusivamente della legittimazione del pubblico ministero a proporre appello contro la sentenza di assoluzione, gli altri mezzi di impugnazione restano nella disponibilità del magistrato requirente. Così, si intende evitare un nuovo giudizio sul fatto oggetto del processo nel caso in cui l’imputato sia già stato dichiarato innocente. La possibilità di ricorrere in Cassazione e muovere censure alla sentenza relative all’applicazione o all’interpretazione della legge resta del tutto impregiudicata. Ciò detto, ecco una serie di buone ragioni per sostenere la proposta:


1) Com’è noto, il giudice pronuncia sentenza di condanna solo se l’imputato risulta colpevole oltre ogni ragionevole dubbio. La regola di giudizio nel processo penale altro non è se non il precipitato tecnico del principio costituzionale della presunzione di innocenza: il giudice non deve nutrire alcun (ragionevole) dubbio circa la colpevolezza dell’imputato. Una domanda sorge spontanea: come può esserci certezza oltre-ogni-ragionevole-dubbio nella condanna di chi sia stato precedentemente assolto? Può non residuare alcun dubbio circa la colpevolezza di chi è già stato dichiarato innocente? La verità è che, come ha lucidamente sottolineato Gian Domenico Caiazza, una sentenza assolutoria, ancorché riformata in appello, sarà sempre di per sé bastevole a legittimare un ragionevole dubbio sulla responsabilità penale dell’imputato.

2) Se l’imputato venisse condannato per la prima volta in appello perderebbe la possibilità di ottenere un doppio grado di giudizio di merito sulla sua colpevolezza. Ottenere un doppio giudizio sui fatti oggetto del processo è un diritto dell’imputato. Con la disciplina vigente è evidente l’irragionevole disparità di trattamento che intercorre tra chi viene condannato in Tribunale e chi in Corte d’Appello: solo al primo spetta un ulteriore giudizio di merito, che è invece negato al secondo. Inoltre, nel nostro sistema costituzionale, l’unica ragione che legittima le impugnazioni e i successivi gradi di giudizio è il dubbio che l’imputato condannato sia innocente, non che l’imputato assolto sia colpevole. Del resto anche le Corti sovranazionali (Corte di giustizia dell’unione europea e Corte europea dei diritti dell’uomo) hanno più volte sottolineato la necessità di garantire il diritto dell’imputato ad un secondo grado di giudizio merito; lo stesso non è altrettanto necessario per l’accusa.

3) Mantenendo inalterata la possibilità per il pubblico ministero di impugnare la sentenza di assoluzione, si continua a correre il rischio che vi sia un’eccessiva personalizzazione dell’accusa. Soprattutto in casi giudiziari con una notevole eco mediatica, vi è la seria possibilità che il pubblico ministero resti ancorato alla sua ricostruzione dei fatti – quand’anche sconfessata durante il giudizio di primo grado – e si senta in dovere di proseguire l’azione anche dopo un’assoluzione. Tutto ciò in pregiudizio di un individuo che è già stato riconosciuto innocente e che continuerebbe a subire le drammatiche conseguenze negative che esser sottoposto a processo comporta.

4) Nella narrazione mediatica della vicenda, spesso si ripete con superficialità che la norma è già stata dichiarata incostituzionale in passato. Tuttavia, i termini della questione sono cambiati: cerchiamo di fare chiarezza. Con la celebre sentenza n. 12 del 2007 la Consulta dichiarò illegittima la legge Pecorella non a causa dell’oggettiva incompatibilità della disciplina introdotta con la Costituzione, bensì a causa dello squilibrio di facoltà processuali tra difesa e accusa che la legge in questione avrebbe determinato. In particolare, il parametro costituzionale cui la Corte ha fatto ricorso è stato l’art.111 comma 2 cost., il quale impone che ogni processo si svolga «in condizione di parità» tra le parti. Per contestualizzare la decisione conviene ricordare che durante la vigenza della legge Pecorella, a fronte di una piena (e sacrosanta) facoltà dell’imputato di impugnare la sentenza di condanna, al pubblico ministero era consentito impugnare la sentenza di assoluzione esclusivamente nel caso di sopravvenienza o scoperta di nuove prove decisive dopo il giudizio di primo grado. Così, la Corte affermò che «l’alterazione del trattamento paritario dei contendenti, indotta dalla norma in esame, non può essere giustificata, in termini di adeguatezza e proporzionalità». Tuttavia, è doveroso rilevare che – come ha sottolineato il prof. Giorgio Spangher sulle colonne de Il Dubbio – con i decreti attuativi della riforma del processo penale alla difesa sarà imposto un onere più gravoso in sede di impugnazione. Inoltre, a riprova del fatto che è possibile introdurre una disciplina costituzionalmente legittima, giova ricordare che l’ipotesi era anche contenuta nel progetto di riforma della commissione presieduta da Giorgio Lattanzi, presidente emerito della Corte costituzionale. Così stando le cose, la Corte costituzionale non dovrebbe ribaltare la decisione precedente, ma semplicemente prendere atto della diversità della normativa odierna rispetto alla precedente. Dunque, a fronte dell’imminente mutamento di disciplina, non è irragionevole affermare che una limitazione della possibilità di appellare per il pubblico ministero sia compatibile alla Costituzione.