Con la sentenza n. 245/2020 la Corte costituzionale si è pronunciata a favore della legittimità del cd. Decreto Antiscarcerazioni, recante “misure urgenti in materia di detenzione domiciliare o differimento dell’esecuzione della pena, nonché in materia di sostituzione della custodia cautelare in carcere con la misura degli arresti domiciliari, per motivi connessi all’emergenza sanitaria da Covid-19”. È di particolare rilievo la genesi della disciplina in questione, introdotta con il chiaro intento di rispondere alle aspre polemiche politico-mediatiche che hanno fatto seguito alla scarcerazione, per il rischio di contagio da Covid-19, di alcuni detenuti in regime di 41-bis. A tal fine sono state adottate una serie di norme volte ad imporre “un secco giro di vite sulle misure non detentive applicate dalla magistratura di sorveglianza”[1], che, pur di assecondare un generale contesto di allarmismo sociale, espongono ad una sottovalutazione del grave rischio di diffusione del contagio negli istituti penitenziari[2]. Oltre ad essere sintomatiche di un indebito uso politico dello strumento penale, le nuove previsioni in materia di concessione e revoca delle misure non detentive hanno posto non pochi dubbi di legittimità costituzionale, con particolare riferimento al diritto di difesa e alla doverosa tutela della salute del condannato, come rilevato da diversi giudici di merito[3]. Nello specifico, il vaglio di costituzionalità ha interessato gli artt. 2 e 5 del D.L. n. 29 del 10 maggio 2020 (per l’appunto il cd. Decreto Antiscarcerazioni), così come trasfusi nell’art. 2-bis del D.L. n. 28 del 30 aprile 2020, convertito con modificazioni nella legge n. 70 del 25 giugno 2020. La prima peculiarità delle disposizioni oggetto di censura è che esse trovano applicazione solo con riferimento a talune categorie di condannati[4] – secondo i giudici a quibus, sulla base di una selezione irragionevole – cui sia stata concessa la detenzione domiciliare o il differimento dell’esecuzione della pena. Presupposto oggettivo per la concessione delle misure in esame è, invece, la ricorrenza di “motivi connessi all’emergenza sanitaria da Covid-19”, viste le condizioni in cui versa il sistema penitenziario – il cui perdurante sovraffollamento è tale da rendere esponenziale il rischio di contagio –, spesso incapace di garantire lo svolgimento della detenzione o dell’internamento in una misura che non pregiudichi gravemente le condizioni di salute dell’individuo. Alla concessione della misura non detentiva, la disciplina in esame associa un’inedita procedura di “monitoraggio continuo”[5] dei motivi connessi all’emergenza sanitaria, ossia una costante rivalutazione del provvedimento applicativo ad opera dello stesso magistrato o Tribunale di sorveglianza che lo ha adottato, mediante l’acquisizione di una serie di documenti e pareri[6]. Qualora la rivalutazione dei presupposti abbia esito negativo, l’autorità giudiziaria revoca il beneficio con un provvedimento che è immediatamente esecutivo e che il Tribunale di sorveglianza è chiamato a valutare entro il termine di trenta giorni, decorso il quale il provvedimento di revoca perde efficacia. Trattasi dunque di una procedura atipica, a contraddittorio differito, che presenta non poche criticità, evidenziate dai giudici a quibus nelle rispettive ordinanze di rimessione.

Venendo alle motivazioni addotte dalla Consulta a sostegno della legittimità della disciplina in esame, sono anzitutto esaminate le questioni sollevate dai Magistrati di sorveglianza di Avellino e Spoleto, in relazione agli artt. 24, comma 2, e 111, comma 2, della nostra Carta costituzionale. In particolare, oggetto delle censure dei rimettenti è la previsione normativa di un procedimento ritenuto privo di un adeguato coinvolgimento della difesa tecnica dell’interessato nella fase di rivalutazione dell’originario provvedimento di concessione. Ciò, in quanto la disciplina non prevede che debba darsi alcuna informazione in merito all’apertura del procedimento di revoca, così come non contempla alcun accesso, da parte del difensore, a documenti e pareri acquisiti durante l’istruttoria, sui quali l’autorità giudiziaria fonda il proprio convincimento. Ne deriva una carenza assoluta di contraddittorio, che, secondo i rimettenti, non può ritenersi sanata dal suo dispiegarsi successivo, dato il carattere immediatamente esecutivo del provvedimento di revoca. Difatti, l’immediato reingresso in carcere di un condannato, rispetto al quale era stata valutata la sussistenza di condizioni di salute di particolare gravità, potrebbe esporre lo stesso ad un grave rischio – vista la rapidità del contagio, specie negli istituti penitenziari –, in attesa di una pronuncia definitiva del Tribunale di sorveglianza (potenzialmente tardiva). Le ordinanze di rimessione evidenziano, altresì, come l’unica attività difensiva concessa nella fase della rivalutazione – ossia la presentazione di memorie e documenti ex art. 121, comma 1, c.p.p. – sia comunque destinata a svolgersi “al buio”: se al difensore è precluso l’accesso alla documentazione acquisita ex officio dal magistrato di sorveglianza, come può opporre specifiche controdeduzioni rispetto alla documentazione stessa, su cui si fonda il convincimento dell’autorità giudiziaria che dispone la revoca della misura? Secondo la Corte costituzionale “L’osservazione coglie, in punto di fatto, nel segno. Ciò tuttavia non è sufficiente a determinare l’illegittimità costituzionale della disciplina in esame”[7], data l’esistenza di un’analoga disciplina proprio nella normativa penitenziaria, in materia di detenzione domiciliare “in surroga”. Precisamente, l’art. 47-ter, comma 1-quater, ord. pen. ammette l’intervento del Magistrato di sorveglianza nell’applicazione provvisoria della misura domiciliare, per ragioni d’urgenza, mediante un procedimento deformalizzato – e senza alcuna possibilità di replica da parte della difesa – differendo l’instaurazione del contraddittorio delle parti alla fase successiva, in cui il Tribunale di sorveglianza decide in via definitiva sulla richiesta di applicazione della misura.  Muovendo da tale previsione, il Giudice delle leggi sviluppa un ragionamento analogico: se la disciplina di cui all’art. 47-ter, comma 1-quater, ord. pen. non viola il diritto di difesa del detenuto, allo stesso modo deve ritenersi legittimo il contraddittorio differito nel procedimento di rivalutazione delle misure extramurarie, concesse per motivi legati all’emergenza da Covid-19. Questo, malgrado vi sia una certa differenza – come opportunamente evidenziato dai ricorrenti – tra la concessione di un beneficio ed il provvedimento di revoca di una misura già concessa, che, comportando l’immediato reingresso in carcere, risulta assai più gravosa. Differenza, tuttavia, ritenuta dalla Corte “non decisiva dal punto di vista degli interessi in gioco”, concludendo per la compatibilità delle previsioni di cui al Decreto Antiscarcerazioni con gli artt. 24, secondo comma, e 111, secondo comma, Cost., dato il recupero – sebbene in un momento successivo, a fronte dell’immediata esecutività del provvedimento di revoca – della pienezza delle garanzie difensive e del contraddittorio.  

Secondariamente, la Corte si è soffermata sulle questioni sollevate dal Magistrato di sorveglianza di Avellino e dal Tribunale di sorveglianza di Sassari, con riferimento all’art. 32 della Carta costituzionale, anch’esse ritenute non fondate. Nello specifico, oggetto delle censure è il sostanziale disinteresse per le condizioni di salute del condannato, che sembrerebbe rinvenirsi nel procedimento di rivalutazione delle misure non detentive delineato dalla disciplina in esame. Difatti, il Magistrato di sorveglianza è chiamato a rivalutare il beneficio, più che sulla base delle condizioni di salute del detenuto, alla luce dei pareri acquisiti, della disponibilità delle strutture penitenziarie e dei reparti di medicina protetta. I rimettenti evidenziano, altresì, come il termine di trenta giorni, entro cui il Tribunale di sorveglianza è tenuto a pronunciarsi sulla revoca, sarebbe eccessivamente lungo rispetto al rischio – potenzialmente repentino – di contagio dell’interessato, che con il reingresso nell’istituto penitenziario è esposto ai medesimi rischi sanitari che erano stati posti alla base dell’originario provvedimento di concessione della misura extramuraria. Tuttavia, secondo il Giudice delle leggi “la nuova disciplina non abbassa in alcun modo i doverosi standard di tutela della salute del detenuto, imposti dall’art. 32 Cost. e dal diritto internazionale dei diritti umani anche nei confronti di condannati ad elevata pericolosità sociale”. Parimenti infondate risultano le censure sollevate dal Tribunale di sorveglianza di Sassari e dal Magistrato di sorveglianza di Spoleto, con riferimento all’art. 3 della nostra Carta costituzionale. Le relative ordinanze di rimessione evidenziano come la disciplina in esame sarebbe tale da determinare un’irragionevole disparità di trattamento tra i detenuti, selezionati in base al solo titolo di reato, dal che deriverebbero automatismi incompatibili con il principio di tutela della salute, valevole per tutti i detenuti. A parere della Consulta, invece, risulta essere del tutto ragionevole e non arbitraria la scelta del legislatore di imporre al giudice una frequente e penetrante rivalutazione delle condizioni che hanno giustificato la concessione della misura non detentiva nei confronti di condannati per gravi reati connessi alla criminalità organizzata. Infine, sono state dichiarate manifestamente infondate le ulteriori censure sollevate dal Tribunale di sorveglianza di Sassari in relazione agli artt. 27, terzo comma, 102, primo comma, e 104, primo comma, della Costituzione. La Corte ha infatti ritenuto inconferente il richiamo al parametro di cui all’art. 27, comma 3, Cost., dal momento che le misure di cui trattasi – ossia la detenzione domiciliare e il differimento dell’esecuzione della pena – non sono funzionali alla rieducazione del condannato, bensì alla tutela della sua salute, in via esclusiva. Analogamente, secondo il Giudice delle leggi, la disciplina in esame non interferisce con le prerogative del potere giudiziario e non può dirsi in contrasto con il principio di separazione tra potere legislativo e giudiziario. Non resta dunque che prendere atto di quelli che, ancora una volta, sembrano essere gli effetti di un tristemente noto terrorismo mediatico in materia di criminalità e carcere, tale da influire sulle scelte di un legislatore che, pur di assecondare l’ossessione securitaria e le polemiche populiste, trascura la ricerca di un ragionevole bilanciamento tra prevenzione e tutela dei diritti fondamentali dell’individuo. D’altra parte, la finalità del procedimento di rivalutazione della misura non detentiva, così come delineato dal cd. Decreto Antiscarcerazioni, sembrerebbe esplicitata dallo stesso art. 2-bis, lì dove si dispone che “il provvedimento con cui l’autorità giudiziaria revoca la detenzione domiciliare o il differimento della pena è immediatamente esecutivo”, il che rappresenta un chiaro invito alla magistratura “a far rientrare il più presto possibile in cella i detenuti mafiosi già scarcerati”[8].  


[1] J. DELLA TORRE, Il Magistrato di sorveglianza di Spoleto non demorde il “d.l. antiscarcerazioni” di nuovo alla Consulta, in www.sistemapenale.it, 23 settembre 2020. 
[2] Al riguardo, G. FIANDACA, Scarcerazioni per motivi di salute, lotta alla mafia e opinione pubblica, in www.sistemapenale.it, 19 maggio 2020.   
[3] Tribunale di sorveglianza di Sassari con ord. del 9 del giugno 2020; Magistrato di sorveglianza di Avellino con ord. del 3 giugno 2020; Magistrato di sorveglianza di Spoleto con ord. del 18 agosto 2020.  
[4] A seguito delle modifiche apportate in sede di conversione il riferimento è ai soggetti condannati o internati per i delitti di cui agli artt. 270, 270-bis, 416-bis c.p., e 74, comma 1, del testo unico di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, o per un delitto commesso avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l’associazione mafiosa, oppure commesso con finalità di terrorismo ai sensi dell’art. 270-sexies c.p., nonché ai sottoposti al regime previsto dall’art. 41-bis ord. pen.  
[5] I Giudici di sorveglianza sono tenuti a procedere alla rivalutazione entro il termine di quindici giorni dall’adozione del provvedimento e, successivamente, con cadenza mensile. La rivalutazione è invece immediata nel caso in cui il DAP comunichi la disponibilità di strutture o di reparti di medicina protetta adeguati alle condizioni di salute del detenuto o internato.  
[6] Sono richiesti, a seconda del caso di specie, i pareri del procuratore della Repubblica presso il capoluogo del Tribunale del distretto ove è stata pronunciata la sentenza di condanna, dell’Amministrazione Penitenziaria, della Procura nazionale antimafia o della Procura distrettuale antimafia, nonché dell’autorità sanitaria regionale.     
[7] Corte cost., 24 novembre 2020, n. 245 
[8] In questi termini G. FIANDACA, Scarcerazioni per motivi di salute, lotta alla mafia e opinione pubblica, cit.