È vicenda ben nota, quella riguardante le trancianti dichiarazioni di illustri esponenti della magistratura (in particolare antimafia) sui possibili effetti della riforma del processo penale elaborata dalla Guardasigilli Cartabia. Infatti, pochi giorni fa, l’Associazione nazionale magistrati ha affermato che la nuova disciplina della prescrizione, avanzata nella proposta targata Cartabia – riassumibile drasticamente nell’estinzione del processo per improcedibilità se viene superata la durata di due anni in Appello (tre per i reati più gravi) e uno in Cassazione (o 18 mesi) –, metterebbe a rischio circa 150 mila processi che non sarebbero in grado di rispettare la tempistica [1]. Esternazioni che non stupiscono, se rilasciate dal Procuratore di Catanzaro Gratteri, non nuovo a taluni attacchi diretti a possibili ritocchi di stampo garantista da parte del legislatore; forse spiazzanti, invece, se rilasciate dal Procuratore nazionale antimafia Cafiero de Raho, nei termini di seguito esposti. Nessuna analisi statistica è stata fornita dal sindacato delle toghe a sostegno di questa ipotesi. Insomma, un dogma. Occorrerebbe fidarsi e basta. Nemmeno una valutazione tecnica nel merito, soltanto allarmismi privi di argomentazione, lanciati in pasto alla cultura forcaiola figlia dell’ascesa, nel corso degli anni, di un certo indirizzo politico.

Più nello specifico, si è parlato di percentuali, ma senza motivare il fondamento dell’entità numerica: il 50% dei processi per mafia sarebbero destinati al tritarifiuti. Sulla base di quale parametro non è dato sapersi. Gratteri e Cafiero de Raho, in coro, prevedono che centinaia di mafiosi torneranno liberi a sciamare per le strade del nostro Paese, e con essi politici ed amministratori corrotti, violentatori, ladri e “lupi mannari di vario genere” [2]. La sicurezza dell’Italia, ammoniscono, è in pericolo. Addirittura, per enfatizzare, sono stati chiamati in causa i defunti e impiegati come strumento retorico: «Falcone e Borsellino si saranno girati tre volte nella tomba a sentire questo tipo di riforma. Conoscendo l’integrità di questi grandi uomini morti in nome di un’idea, penso che non bisognava nemmeno avvicinarsi alla tomba, alla lapide di questi grandi uomini nel momento in cui si produce un sistema di norme che favorirà i faccendieri e i mafiosi» [3]. Ebbene, è dunque chiaro che all’interno del teatro delle iperboli e delle finzioni – quello che sempre costeggia la peggiore politica, caratterizzato da slogan di forte impatto emotivo – sono entrati in scena i giudici coraggiosi. Sì, proprio quelli che, in nome della lotta alla mafia, non vogliono limiti al loro potere e, di conseguenza, nemmeno alla durata dei processi. Per questo, come ha osservato il Presidente dell’UCPI Caiazza in un recentissimo articolo sul Foglio, è doveroso interrogarsi se e in quale altro paese del mondo sia consentito a due magistrati in carica di accanirsi contro governo e maggioranza parlamentare circa un progetto di riforma, giusto o sbagliato che sia, scegliendo con accurata sapienza politica e mediatica tempi e modi delle proprie esternazioni. E allora è necessario ricordare, nuovamente, il compito costituzionale dei magistrati: applicare la legge e non concorrere alla sua formazione.

Sia consentita una breve digressione storica, ma è un déjà-vu che si presenta ogni qualvolta la legge mette mano al processo. Già in passato, infatti, nel rivoluzionario passaggio dal sistema di stampo inquisitorio a quello di stampo accusatorio nel 1988, il nuovo codice venne “attaccato frontalmente”[4] da una gran parte della magistratura, in riferimento alle modifiche strutturali operate dal legislatore d’allora, come se queste ultime equivalessero, in qualche modo, a una menomazione di un potere superiore del giudice penale, secondo il quale la sola legge a cui dare obbedienza doveva essere quella penale, relegando a gradino inferiore la legge del processo[5]. È pur vero che si sia trattato di una reazione consumata attraverso lo strumento interpretativo e, in particolare, nelle sedi giudiziarie, senza che siano mancate a quel tempo anche critiche sulla proposta di legge avanzata dalla commissione incaricata di redigere il codice di rito. Di certo, le prese di posizione odierne della magistratura (soprattutto requirente) in relazione al progetto di riforma dell’ordinamento processuale, nelle sedi ove si sviluppa il dibattito pubblico, sono indice di una volontà sempre più pregnante di manifestare un’influenza nella formazione della legge, proprio come è accaduto in passato. È dunque lecito chiedersi se non si stia tirando troppo la corda, soprattutto se si pensa che le critiche mosse e i dubbi palesati non hanno nulla a che vedere con il reale contenuto della riforma, peraltro, ad avviso dello scrivente e, soprattutto, di autorevolissimi processualpenalisti [6], non certo scevra da aspre censure. Si fa, piuttosto, ricorso a sensazionalismi, incentrati prevalentemente sul tema della durata dei processi in rapporto alla potestà punitiva dello Stato – nodo cruciale della riforma Cartabia –, per stimolare una determinata platea mediante l’utilizzo di frasi di cartello che catapultano l’autore sotto i riflettori con la gloriosa qualifica di “paladino della legalità”; questo, senza che venga fornito, però, nulla in concreto al dialogo sulle vere luci e ombre della proposta, attualmente nelle mani del Parlamento. In siffatto pirotecnico panorama, ciò che è certo, senza alcun dubbio, è il mancato bisogno di udire l’urlo scalmanato di magistrati avvezzi ai salotti televisivi. Ed è opportuno ricordare, un’ulteriore volta, che, in ogni caso, il nostro è uno Stato di diritto fondato sulla democrazia e non sulla “magistratocrazia”.


[1] E. ANTONUCCI, La pericolosa logica forcaiola di Gratteri sulla prescrizione, in Il Foglio, 21 luglio 2021.
[2] In questi termini, G.D. CAIAZZA, L’immunità che cercano i pm antimafia che criticano Cartabia, in Il Foglio, 21 luglio 2021.
[3] Testualmente il Procuratore Gratteri i un’intervista al Domani.
[4] In questi termini A. CAMON, La disciplina costituzionale, in AA.VV. Fondamenti di Procedura penale, Padova, 2020, pp. 87 ss.
[5] M. NOBILI, Un rimedio impossibile: l’istruttoria del difensore, in ID, Scenari e trasformazioni del processo penale, Padova, 1998, p. 100.
[6] Si rinvia ad un interessante articolo de Il Dubbio di martedì 27 luglio 2021 nel quale vengono sintetizzate le principali perplessità mosse da: Daniele, Ferrua, Orlandi, Scalfati e Spangher, in relazione alla “processualizzazione” della prescrizione attraverso il meccanismo dell’improcedibilità, https://www.ildubbio.news/2021/07/26/torniamo-alla-vera-prescrizione-o-il-processo-sara-un-rebus/
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