C’è un passaggio della vicenda di Bruno Contrada, riemerso recentemente nel dibattito sul fallito attentato dell’Addaura- luogo dove risiedeva la villa di Giovanni Falcone- che potrebbe servire a rendere l’idea di come sia importante gestire seriamente i pentiti o i collaboratori di giustizia in generale. Purtroppo alcune trasmissioni televisive, non approfondendo scrupolosamente certi dettagli, possono fuorviare l’opinione pubblica. Per questo è bene fare chiarezza.

Quando venne scoperto l’esplosivo sugli scogli vicino alla villa di Falcone, c’erano anche il Giudice Istruttore Carlo Lehmann e la dottoressa Carla Del Ponte, all’epoca Sostituto Procuratore pubblico di Lugano. Quest’ultima nell’ambito delle indagini interrogò l’industriale bresciano Olivero Tognoli, accusato di riciclare soldi della mafia e arrestato in Svizzera nel 1988. Tognoli, in quell’occasione, disse che a farlo fuggire dall’Italia fu Bruno Contrada. La Del Ponte, a quel punto, lo disse a Falcone e lui, di tutta risposta, le chiese far mettere a verbale il suo nome. Il caso volle però che Tognoli, a verbale, disse ben altro. Ovvero che ad avvisarlo dell’indagine in corso era stato un suo amico funzionario della polizia. E Così infatti risultò (successivamente). Ma non solo. Anche il suo amico poliziotto in realtà non sapeva quello che effettivamente faceva Tognoli, cioè che riciclava il denaro sporco proveniente dalla mafia. Lo avvertì soltanto del fatto che stava frequentando gente sotto indagine e che quindi avrebbe dovuto smetterla di frequentare cattive compagnie.

Perché raccontare questa storia? Tognoli sapeva che Falcone era una persona seria e scrupolosa: se avesse fatto mettere a verbale il nome di Contrada per coprire il suo amico, il giudice avrebbe vagliato e una volta scoperto l’inganno l’avrebbe accusato di calunnia. Sì, perché questo era Falcone. Fu proprio lui, durante un convegno nazionale di diritto e procedura penale nel ’91, a parlare della necessità dei pentiti come importante strumento per la lotta alla mafia, ma tenendo bene a precisare che «ovviamente non costituiscono mezzo di prova unico e indispensabile». Sappiamo che Falcone temeva i falsi pentiti che spacciano fandonie e notizie artefatte per ragioni personali o per depistare le indagini. Un caso eclatante fu quello del pentito Giuseppe Pellegriti, che accusò indirettamente Giulio Andreotti come mandante dell’omicidio di Piersanti Mattarella. Subito Falcone capì che aveva mentito e lo aveva inquisito per calunnia. Basterebbe leggere alcuni passaggi del libro “Cose di cosa nostra”. «A proposito di pentiti – scrive Giovanni Falcone -, sono convinto che il solo comportamento efficace ed equo nei loro confronti sia anzitutto di verificare con estrema cura l’esattezza delle loro rivelazioni, senza tuttavia sminuire sistematicamente quanto affermano. Conoscendo il modo di rapportarsi dell’uomo d’onore con i fatti e che si può riassumere in questa formula: “obbligo assoluto di dire la verità”, mi sono sempre espresso con i mafiosi che interrogavo e che affermavano di voler collaborare in modo crudo, distaccato, scettico e quindi sincero». E ancora: «Ho sempre tenuto a precisare all’inizio degli interrogatori: ‘Dica pure quello che le pare, ma si ricordi che questo interrogatorio sarà il suo calvario perché cercherò in ogni modo di farla cadere in contraddizione’». Tante sono le vicende di persone finite stritolate nel meccanismo giudiziario a causa delle dichiarazioni dei pentiti non vagliate scrupolosamente dai magistrati. 

Tutti conoscono la vicenda di Enzo Tortora, così come il depistaggio sulla strage di Via D’Amelio messo in atto grazie alle menzogne dello pseudo pentito Vincenzo Scarantino. Pochi conoscono sentenze definitive dove hanno messo in luce le contraddizioni dei vari pentiti, tra i quali Giovanni Brusca. Nelle motivazioni della sentenza del 2013, che assolse l’ex Ros Mario Mori e Mario Obinu nel processo clone sulla Trattativa, il giudice Mario Fontana puntò il dito contro quei collaboratori di giustizia che il più delle volte hanno l’attitudine a compiacere la pubblica accusa. Il giudice parla di cautela nelle valutazioni, perché «non consentono, in via astratta, di escludere che le indicazioni fornite siano state indotte dalla volontà di compiacere gli inquirenti, in dipendenza della particolare importanza che alle stesse indicazioni sarebbe stata attribuita». La notazione che si legge nelle motivazioni vale, in particolare, per il pentito Giovanni Brusca «nelle cui dichiarazioni si devono registrare aggiornamenti inediti, seguiti a una nuova inchiesta giudiziaria promossa nei suoi confronti, e svariate oscillazioni, concernenti indicazioni di notevole rilievo, che potrebbero essere state influenzate da improprie interferenze inquinanti, collegate a notizie di stampa relative a pregresse acquisizioni dibattimentali».

I pentiti sono importanti, vanno tutelati e rispettati. Ma devono essere al servizio della verità nuda e cruda, non di quella precostituita dalla pubblica accusa. Falcone aveva molto a cuore la figura del pentito, ma proprio per non renderla vana o dannosa vagliava anche le virgole di ogni singola dichiarazione.