Esattamente 30 anni fa, Donald Trump acquistò una pagina del New York Times. Aveva scritto e firmato un testo dal titolo “Bring back the death penalty”, in cui invocava l’esecuzione capitale per 5 ragazzi accusati di aver commesso uno stupro a Central Park. Qualche anno più tardi si scoprì che erano innocenti.
Cinque anni dopo, proprio come come quello che sarebbe diventato il Presidente degli Stati Uniti d’America, Marco Pannella ed Emma Bonino comprano una pagina del New York Times. Si chiedeva l’abolizione della pena di morte, con un appello firmato da numerosi premi Nobel. Cominciò così la campagna per chiedere, in sede ONU, una moratoria per l’abolizione della pena capitale nel mondo.

L’allora governo in carica (il Berlusconi I) diede incarico ad Emma Bonino di presentare, per la prima volta al palazzo di Vetro, una risoluzione per la moratoria universale delle esecuzioni capitali davanti all’Assemblea generale dell’ONU.
Al momento della votazione, su 188 paesi, 91 erano abolizionisti e 97 retenzionisti.
La risoluzione non passò per soli 8 voti, con l’astensione di ben 20 paesi membri dell’attuale Unione Europea. Un lungo cammino, quello cominciato nell’autunno del 1994, che portò all’approvazione di una moratoria da parte dell’Assemblea Generale solo nel 2007.
In quel caso, nonostante il successo, gli Stati Uniti espressero voto contrario, unici tra le democrazie occidentali.

Qualche anno più tardi, durante la sua campagna presidenziale, Donald Trump commentò l’assassinio di due poliziotti in Mississippi dicendo: “Bisogna ripristinare la pena di morte, e bisogna farlo con forza”. Vinte le elezioni, a Marzo del 2018, il tycoon si era detto intenzionato a punire con la pena capitale anche gli spacciatori.

Lo scorso 25 Luglio, questa ossessione di the Donald è passata dalle parole ai fatti. L’amministrazione Trump, per bocca del Procuratore Generale William Barr, ha annunciato che le autorità federali torneranno a far uso della pena capitale, dopo 16 anni di pausa: tra dicembre e gennaio saranno infatti giustiziati 5 detenuti, condannati per stupri o omicidi.
La pena di morte è ancora la massima condanna in 29 dei 50 Stati federati. Gli USA sono stati il settimo paese per numero di esecuzioni capitali nel 2018. L’anno prima, per il secondo anno di fila, la bandiera a stelle e strisce non figurava nella top 5 della classifica dei paesi che vi avevano fatto ricorso.

La storia dell’abolizionismo negli Stati Uniti è una storia lunga e piena di contraddizioni.
Già nel 1972 (nel caso Furman Vs. Georgia), la Corte Suprema dichiarò incostituzionale le condanne a morte con una maggioranza risicata (5 favorevoli e 4 contrari), perché violavano l’ottavo e il quattordicesimo emendamento della Costituzione. L’effetto della pronuncia, però, non portò all’adozione di una moratoria, ma alla sospensione delle condanne e alla riformulazione delle leggi della Georgia che consentivano ai giudici di muoversi entro uno spazio di discrezionalità ritenuto troppo elastico.

la Corte Suprema degli Stati Uniti nel 1972

Nel 1976 (Grenn Vs. Georgia), la pena di morte venne invece dichiarata nuovamente costituzionale. Da allora, circa 7800 imputati sono stati condannati a morte, e 1500 condanne sono state eseguite.
Dopo la dichiarazione di incostituzionalità, l’esecuzione capitale venne ripristinata a livello federale solo nel 1988.
Dal 1963, però, le condanne eseguite dalle autorità federali sono state soltanto 3. Un numero che verrà superato questo inverno con la decisione dell’amministrazione Trump.

Per quanto riguarda l’opinione pubblica, il dato più significativo è quello che riguarda l’aumento degli americani favorevoli alla pena di morte.
Secondo il Pew Research Center, il sostegno alle esecuzioni capitali, che aveva raggiunto un picco storico nel 2016, ha recentemente cominciato a registrare una crescita nei sondaggi (nel 1974 l’80% degli intervistati era favorevole; il 78 nel 1996; il 55 nel 2014 e il 49 nel 2016). Nel 2018, il 54% si è dichiarato favorevole alla pena di morte per gli assassini, solo il 39%, invece, si è dichiarato contrario.


A quanto riporta l’agenzia Gallup, in un sondaggio effettuato nel 2011, il 64% degli intervistati ha riferito che l’esecuzione capitale non avrebbe un effetto deterrente per la commissione di omicidi e non sarebbe in grado di diminuirne il numero. Un dato interessante, se si pensa che nel 1991 il 51% (e ben il 61% nel 1986) ne riteneva valida l’efficacia generalpreventiva. Si registra quindi una sostanziale inversione del trend.
Secondo uno studio condotto nel 2015, ancora, circa 6 persone su 10 avrebbero negato l’esistenza di effetti deterrenti. Circa la metà riteneva inoltre che le minoranze fossero più inclini ad essere condannate a morte rispetto ai bianchi, mentre il 41% pensava che in realtà non esistesse alcun tipo di discriminazione. 7 su 10 consideravano concreto il rischio di condanna a morte per un innocente, mentre nel 2009, il 60% degli intervistati era convinto che almeno un innocente era stato condannato nei precedenti 5 anni.
Anche per i sostenitori della pena capitale (il 63%, per la precisione) esisterebbe il rischio di uccidere imputati innocenti.

Per quanto attiene ai partiti di riferimento, il 77% di chi si identifica nel Partito Repubblicano è anche per il mantenimento della pena capitale; il 36%, invece, di chi tifa per i blue.
Sia i dati forniti da Gallup che dal Pew Research Center convengono nel sostenere che la pena di morte è assai più gradita ai bianchi rispetto alle minoranze. Significativa è anche la differenza di opinioni per età: i giovani sarebbero più inclini a favorirne l’abolizione rispetto ai più anziani. Una divergenza sostanziale si registra anche per il grado di istruzione: i cittadini in possesso di un titolo di studio più alto tenderebbero a non apprezzarla.

Anche la politica è sostanzialmente divisa: tra i democratici, il governatore della California Gavin Newsom ha firmato a marzo una moratoria che sospende immediatamente l’esecuzione delle condanne. Un fatto di non poco conto, se si considera che la California ha il maggior numero di condannati a morte degli Stati Uniti e cioè un quarto del totale. Hanna Cox, manager di “Conservatives concerned about Death Penalty” sostiene che le concezione di un governo limitato cara ai Repubblicani sia incompatibile con tale punizione.

Rimane sullo sfondo il dibattito sulle soluzioni per le questioni irrisolte che riguardano la pena di morte: il numero di innocenti giustiziati in passato e la possibilità di giustiziarne altri, lo squilibrio razziale, lo squilibrio sociale (secondo la rivista americana Jacobin, circa il 90% dei condannati non è in grado di permettersi un avvocato; ulteriori studi hanno dimostrato che circa il 25% delle persone finite nel braccio della morte è stato difeso da avvocati che sarebbero stati poi successivamente radiati dall’albo o sanzionati per incompetenza), la negazione di qualsiasi meccanismo rieducativo, la scarsa certezza dell’efficacia deterrente, il cortocircuito di uno stato che ammazza i suoi assassini.

Chissà che la decisione del procuratore generale non inneschi una nuova stagione di discussione pubblica intesa a superare queste criticità una volta per tutte.