Dopo la tragica scomparsa dell’assessore regionale piemontese Angelo Burzi, suicidatosi di recente, ha avuto inizio un intenso dibattito, promosso dal quotidiano “Il Dubbio”, sul tema della ragionevole durata del processo e sul divieto di appello per il p.m. avverso sentenze di assoluzione. La vicenda in questione, infatti, ha (purtroppo) avuto origine da dieci anni di processi ed in particolare da una condanna in appello. Burzi era stato assolto con formula piena in primo grado, ma la Corte d’Appello di Torino lo aveva condannato, lo scorso 14 dicembre, a 3 anni di reclusione nel processo cd. “Rimborsopoli”, per le presunte irregolarità nell’utilizzo dei fondi destinati al funzionamento dei gruppi del Consiglio regionale. Di qui, dunque, l’intervento di politici, accademici e avvocati sui temi sopracitati. Il tema è di grande interesse e per questo pubblichiamo una riflessione in materia di Lorenzo Zilletti, avvocato e Responsabile del Centro Studi Giuridici e Sociali “Aldo Marongiu” dell’Unione Camere Penali Italiane.


Un fatto tragico. E’ constatazione desolante, ma la flebile speranza di vedere un giorno attenuata la terribilità del nostro processo penale è appesa a tragedie come il suicidio di Angelo Burzi. Un’altra terribilità ha riaperto (ma per quanto tempo?) il dibattito sul potere del pubblico ministero di giocarsi una seconda chance nel merito, reiterando in appello la domanda di punizione respinta dal giudice di primo grado. Minor clamore aveva accompagnato, pochi mesi orsono, la proposta di sopprimere quel potere, avanzata nell’ambito dei lavori preparatori della cd. riforma Cartabia. Eppure, al vertice della commissione ministeriale che azzardò l’impresa, sedeva nientemeno che Giorgio Lattanzi, presidente emerito della Corte costituzionale e magistrato di autorevolezza indubbia. Collegata a un discutibile mutamento genetico dell’appello dell’imputato – se ne prevedeva la trasformazione in atto a critica vincolata- l’ipotesi è sparita fulmineamente di scena (al contrario, la delega contiene la previsione di un innalzamento della soglia per la valutazione di ammissibilità dell’appello), evitando di urtare la suscettibilità delle solite magistar da studio televisivo, del sindacalismo togato e dei loro corifei partitici. Il gesto estremo della notte di Natale, l’incipit del drammatico congedo via email –“conoscere per decidere”- hanno imposto che il sipario si riaprisse; che lo struzzo fissasse la realtà almeno per un istante, prima di ricacciare pigramente la testa sotto la sabbia.

Tra le voci che sulla stampa hanno sottolineato con determinazione l’assurdità del sistema, vanno ricordate -anche per la loro distanza politica- quelle di Giuliano Pisapia («se in primo grado i magistrati avevano ritenuto l’assoluzione com’è possibile che intervenga in secondo grado la prova della colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio?») e di Carlo Nordio («come si fa a condannare una persona già assolta? La condanna presuppone prove al di là di ogni ragionevole dubbio, e qui un giudice aveva già dubitato»). Accanto a loro, uno studioso insigne come Paolo Ferrua ha speso argomenti tecnicamente ineccepibili contro la possibilità, tuttora ammessa dall’ordinamento processuale, che una condanna sia pronunciata per la prima volta in appello: quell’evenienza, infatti, frustra il diritto al riesame della colpevolezza, riconosciuto all’imputato dalle norme sovranazionali, e che non è garantibile attraverso il giudizio di Cassazione, data la natura peculiare di quest’ultimo. Lì, secondo  il giurista torinese, si annida la «clamorosa contraddizione» in cui incappò la Corte costituzionale, quando nel 2007 dichiarò illegittima la soppressione dell’appello disposta l’anno prima dalla legge Pecorella: «il ricorso per Cassazione del pubblico ministero contro la sentenza di assoluzione fu ritenuto inadeguato a soddisfare gli interessi dell’accusa; ma, conuna stupefacente inversione di prospettiva, il ricorso dell’imputato contro la condanna pronunciata per la prima volta in appello fu, invece, considerato sufficiente a garantire gli interessi della difesa. La discriminazione tra accusa e difesa, a fronte dello stesso mezzo di impugnazione, in spregio alla logica e al principio costituzionale della parità tra le parti, non avrebbe potuto essere più evidente».

Già, la tanto vituperata legge Pecorella. Rinviata alle Camere dal Presidente della Repubblica Ciampi, eufemisticamente restìo alla sua promulgazione; bollata come legge ad personam dall’opposizione parlamentare e dalla gran parte degli organi d’informazione; osteggiata dai vertici istituzionali e sindacali della magistratura; disdegnata dalla dottrina accademica, incapace di proiettare lo sguardo oltre il giardino delle aule universitarie; infine, affossata dalla Corte costituzionale, «con una sentenza poco convincente, emanata in un clima politico avvelenato dai processi a Berlusconi» (ancora Ferrua). In sede di dichiarazione di voto, al Senato, trovò persino un bardo in Nando Dalla Chiesa, che affidò a un non indimenticabile lirismo il proprio sdegno di zelatore delle procure della repubblica:  «Bentornati senatori, dalle feste e dai ristori, tutti insieme per votare la gran legge secolare, la più urgente, la più bella, sì la legge Pecorella. Ma quant’è curioso il mondo, nel suo gran girare in tondo, che fa nascere d’incanto una legge che può tanto. E la scrive un avvocato per salvare il suo imputato, che poi, caso assai moderno, è anche capo del Governo; mentre invece l’avvocato è un potente deputato. Ah, che idea stupefacente, non si trova un precedente. […] Ma pensate che bellezza per un reo, l’aver certezza che se il giudice è impaurito o corrotto o scimunito, potrà dar l’assoluzione senza alcuna sconfessione; che il processo finirà e un macigno calerà sull’accusa dello Stato e su chi subì il reato. […] Or votando con l’inchino si completi il gran bottino delle leggi personali, questo sconcio senza eguali. Del diritto sia mattanza. Ma l’Italia ne ha abbastanza». A distanza di tre lustri, rileggere questi versi dà la cifra delle vere ragioni che segnarono il destino di una riforma sensata e certamente in armonia con i principi del rito accusatorio. Soprattutto, rende disperatamente vero l’ultimo ‘appello’ di Angelo Burzi: conoscere per decidere.

Lorenzo Zilletti, avvocato, Responsabile del Centro Studi Giuridici e Sociali “Aldo Marongiu” dell’Unione Camere Penali Italiane.