Pubblichiamo una riflessione di Nicola d’Amore, agente di polizia penitenziaria in servizio presso la Casa Circondariale di Bologna “Dozza” e Vice-segretario regionale del SiNAPPe Emilia-Romagna, a margine del film “Ariaferma” di Leonardo Di Costanzo


Tutti con lo stesso passo, lo stesso basco e la stessa uniforme, che indicano l’appartenenza al medesimo corpo. Il nostro è quello della Polizia Penitenziaria, per i più quello delle “guardie carcerarie”. Molti ci etichettano come “secondini”, altri credono che siamo privi di umanità. È come se vestire i panni del poliziotto penitenziario equivalga a spogliarsi di ogni sentimento, quasi come se non potessimo percepire nessuna vibrazione dell’animo. Eppure, sotto ad ogni uniforme c’è un cuore, diverso in ognuno, ma capace di provare gli stessi sentimenti di colui che si osserva e vigila: il detenuto.

Entrambi possiamo essere tristi, gioiosi, ostili, speranzosi, rabbiosi, impavidi o paurosi, con la differenza che il poliziotto deve controllare le sue emozioni negative e allo stesso tempo contenere quelle dei ristretti con empatia e dialogo, così da non farle sfociare in disperazione e frustrazione. La comunicazione, in certi contesti e in determinati momenti, è un mezzo necessario e risolutorio a cui bisogna ricorrere per scongiurare ogni criticità. Eliminare, con un rapporto dialettico mirato, ogni frizione che potrebbe arrivare a scatenare reazioni incontrollate e incontrollabili è anche compito del poliziotto penitenziario. Attingere dal “pozzo dell’altrui sentimento” è una capacità che non tutti hanno, è vero. Ci sono poliziotti talmente rigidi che rispettano la legge fossilizzandosi sulle parole, senza però tener conto di quel margine di discrezione – pur sempre all’interno del quadro normativo – utilizzabile per creare un cambiamento di presa di posizione delle proprie idee. Ce ne sono altri che, invece, cercano di comprendere le motivazioni di gesti malsani per trovare una soluzione nel lungo periodo ed essere d’aiuto anche alle altre figure professionali. Altri ancora che, per un nonnulla, chiamano i superiori gerarchici senza spendere neanche una parola per tentare un rimedio. Tutti uguali, eppure tutti diversi. E loro, i detenuti, lo sanno. Sanno con chi possono parlare, a chi possono chiedere per scrivere una “domandina” con la frase giusta perché “appuntà, devo scrivere al magistrato e non vorrei sbagliare il verbo”. Il carcere è una realtà dura per tutti, operatori e reclusi. Un approccio puramente teorico non conduce a nessun risultato ottimale, ecco il motivo per cui noi poliziotti dobbiamo fare tesoro dell’esperienza detentiva di ogni singolo detenuto con cui veniamo a contatto. Sapremo gestire situazioni nuove solo se osserviamo davvero quello che questi ultimi fanno e dicono. Abbiamo imparato a sedare rivolte che non credevamo potessero scoppiare oggi negli istituti italiani. 

I detenuti possono studiare, alcuni arrivano a laurearsi, molti lavorano (sarebbe auspicabile che le opportunità lavorative fossero più numerose); essendo entrata la tecnologia, effettuano ad esempio videochiamate con i familiari. Tantissime cose sono cambiate, altre rimaste immutate. Eppure non basta, fuori il mondo va veloce, dentro il ritmo è più lento e non si riesce a stare al passo con i tempi. Basti pensare alle strutture. Molti penitenziari sono datati, alcuni sono ex conventi convertiti in cui è onerosa la manutenzione, oltre che difficoltoso dare una parvenza di modernità. L’impatto con ambienti vecchi, per nulla accoglienti, che presentano infiltrazioni e muffe è sconfortante per chi ci lavora; figuriamoci per chi ci deve vivere notte e giorno per un determinato lasso di tempo. Ebbene, in un contesto così strutturato, vivono uomini di provenienza geografica, cultura e religione differenti, che, se non saputi gestire, giungono necessariamente allo scontro. Spesso si sente di risse tra etnie dentro le carceri; ciò rappresenta un risvolto drammatico di quello che succede fuori, con la differenza che in carcere tutto è più concentrato. Ed ecco che viene in soccorso il trattamento penitenziario, con cui si può e si deve provare a rieducare il reo offrendogli delle opportunità di cambiamento. La possibilità di correggersi migliorandosi viene anche (e soprattutto) con una buona parola; non giova a nessuno irrigidirsi alzando muri inutili tra le parti. Questo non significa assecondare richieste illecite. Ma rispondere con un “no”, fornendo una spiegazione sensata, è sicuramente più accettato di un “no” detto per rimarcare una differenza di appartenenza, allo Stato o alla delinquenza.