Quando si pensa alla criminalità e, più in particolare, alla figura del criminale, l’immagine che di norma risalta alla mente è quella di un uomo. I caratteri sociali e fisici assegnati e riconosciuti alla femminilità tendono a non conciliarsi con l’idea della commissione di un crimine. Questo meccanismo rende la donna criminale doppiamente deviante: colei che infrange una norma penale e, allo stesso tempo, una norma (o meglio, un’aspettativa) sociale. Ed è proprio questa “doppiezza” a generare un atteggiamento di circospezione che ha portato, nel corso del Novecento, sociologi e criminologi ad ignorare la specificità della delinquenza femminile. Quanto all’esecuzione della pena, i bassi numeri e la difficoltà di studiare il fenomeno unicamente tramite le teorie applicabili alla controparte maschile costituiscono un punto di continuità in tutte le fasi del rapporto delle donne devianti con il sistema penale.  


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Sin da subito, è doveroso sottolineare il modo in cui viene solitamente percepito il ruolo delle donne da parte del sistema penale, anche al di là dei nostri confini. La c.d. “teoria della cavalleria” [1] definisce quest’ultimo molto più cauto e servente nei confronti delle delinquenti: sanzioni meno severe e trattamenti differenziati [2] sono solo alcune delle ipotesi di applicazione “più tenue” della legge nei confronti delle donne criminali. Per quanto riguarda il rapporto tra donne ed esecuzione della pena, come affermato dai dati dell’Associazione Antigone, l’11,6% del panorama extra-carcerario è costituito da donne, una percentuale notevolmente superiore a quella delle donne sottoposte al regime intramurario (4,3%) [3]. Questo rapporto (tra esecuzione esterna e intramuraria), invece, s’inverte nel caso di una donna straniera. È importante sottolineare che il disinteresse per il genere femminile in tali contesti impedisce la messa in luce delle molteplici differenze che intercorrono tra esperienza detentiva maschile e femminile. Tra le poche studiose occupatesi del tema ricordiamo Susanna Ronconi e Grazia Zuffa [4], intente a far emergere come, sempre più spesso, «il carcere per le donne è una sanzione più afflittiva» [5]. Per dare una base concreta a tale affermazione è necessario interpretare i numeri presentati in precedenza. Nello specifico, è possibile rilevare la carenza di istituti detentivi appositamente femminili (solamente 4) e la grande presenza di donne, invece, all’interno di sezioni femminili di carceri maschili (44 sezioni). Ciò permette di evidenziare delle problematiche per entrambe le allocazioni: essere detenuta in un istituto esclusivamente femminile permette di fruire di maggiori risorse e attività, a scapito, però, della vicinanza ai propri familiari (minori gli istituti, maggiore la probabilità di trasferimento e lontananza dal proprio luogo); essere detenuta nella sezione femminile di un carcere maschile comporta, invece, gravi carenze di attività risocializzanti, ma ha il vantaggio di mantenere detenute e familiari in più stretto contatto (essendo gli istituti ordinari più diffusi sul territorio). Nonostante la riforma dell’ordinamento penitenziario del 2018 sancisca che le donne ospitate in apposite sezioni debbano essere “in numero tale da non compromettere le attività trattamentali” [6], il fenomeno della compromissione delle stesse continua a farsi strada. Sul tema, il rapporto di Antigone evidenzia la decisione di non permettere a donne e uomini di svolgere attività formative ed educative in comune. Questo porta le donne, già carenti di offerte, a non poter usufruire, dati i bassi numeri, delle stesse opportunità riferibili agli uomini. Analizzando, poi, la tipologia di attività che di volta in volta l’amministrazione propone per le detenute, è evidenziabile una forte stereotipizzazione delle attività trattamentali: è più probabile che alle donne venga proposto di cucire, cucinare, e svolgere tutte quelle attività che ogni perfetta casalinga dovrebbe imparare, a scapito di cultura, lettura e attività sportive [7]. Per quanto concerne l’istruzione, è rilevabile un aumento della percentuale di chi vi accede col decorso della permanenza nel carcere, e la tendenza a frequentare corsi di alfabetizzazione e di primo livello, a scapito di quelli di secondo livello [8]. Istruzione e lavoro sono componenti fondamentali per l’attuazione dell’imprescindibile precetto costituzionale presente all’art. 27 comma 3 [9]; ma se già per la pena detentiva in generale questo assunto viene poco ricordato o seguito, per la pena detentiva femminile in particolare, a fronte della sua brevità, è completamente dimenticato. Una proposta per dare reale attuazione al precetto sarebbe ripensare le attività trattamentali sul breve termine, e non rinunciarvi per “mancanza di tempo di attuazione”.

Il corpo di donna in carcere ha le sue specifiche esigenze, non sempre prese in considerazione. Si potrebbe pensare che la neutralità della trattazione di temi quali la salute e la sessualità all’interno degli istituti di pena possa non risultare dannosa; eppure, valorizzarli trascurando le differenze intercorrenti tra i generi sarebbe un gravissimo errore, poiché il corpo femminile in prima persona (come dall’altro il corpo maschile) sperimenta le mancanze del sistema carcerario rispetto alle esigenze di un corpo non neutro [10]. Le carenze di interventi mirati si legano a non poche storie di donne con problemi concernenti l’apparato riproduttivo: da fenomeni di amenorrea di massa a gravi infezioni uterine, che il servizio sanitario all’interno degli istituti non è in grado di fronteggiare. Quanto alla biologia del corpo femminile in un ambiente deprivante, non può sottacersi l’aspetto della pulsione sessuale, «un interesse legittimo da tutelare proprio perché non finisca col ledere il diritto all’integrità psico-fisica» [11]. La privazione di sessualità nel sistema penitenziario rappresenta una pena tanto grande per gli uomini quanto lo è per le donne, che troppo spesso, al gioco di una stereotipizzazione in circolo soprattutto nella vita libera, vengono schiacciate al pur fondamentale (ma non isolato) ruolo biologico di madri. A proposito del tema della maternità, sono molteplici le complessità da tutelare: l’interesse del minore a non essere privato della presenza materna, essenziale per tutte le fasi della crescita e dello sviluppo; l’interesse della madre a non vedere interrotto il rapporto con i propri figli, in una sorta di pena ulteriore a quella che la donna già si trova a scontare; l’interesse a che questo rapporto non venga, però, coltivato all’interno delle mura penitenziarie, luoghi sicuramente non idonei alla crescita di un minore. Molti sono gli interventi legislativi susseguitesi nel tempo per tentare di bilanciare, in maniera imperfetta, tali interessi: la legge sull’ordinamento penitenziario (1975), la Legge Gozzini (1986), la Legge Finocchiaro (2001) [12] e la legge n. 62 del 2011, che ha previsto l’istituzione degli “Istituti a custodia attenuata per madri” (ICAM) rilevabili sin dall’inizio di esecuzione della pena e per madri con figli minori di anni 10 [13]. L’art. 4 della stessa legge, inoltre, ha affidato ad un decreto del Ministro della giustizia la “possibilità” di istituire le “Case famiglia protette” [14]; ad oggi, però, lo Stato non si è assunto l’impegno di istituirle, lasciando il compito alle amministrazioni locali e rendendo quindi il numero di case-famiglia sul territorio italiano irrisorio [15].

Dai temi sin ora analizzati e sulla base degli studi applicati alla materia, risulta dunque come le sofferenze per una donna ed il suo corpo internati siano anche diverse e maggiori da quelle che un corpo d’uomo si trova a sperimentare. Ciò, nonostante il filo conduttore delle carenze lega tutto l’ambiente penitenziario, e deve condurre ad un’analisi completa e generale sul mal funzionamento del sistema, per tutte e tutti. Sono molti i pensatori che sul tema risultano divisi e, nel caso della detenzione femminile, è Tamar Pitch ad essere la prima portatrice di istanze abolizioniste: l’autrice sostiene fermamente l’abolizione della sola detenzione femminile come breccia che possa condurre ad un’ideale di abolizione generale del carcere. L’abolizione del solo carcere femminile (più facilmente attuabile per la scarsità numerica della popolazione) rischierebbe di attuare una forte diseguaglianza sulla base del genere ed un’erronea interpretazione del gesto, quale leva pensata per esseri indifesi che il carcere non possono viverlo, sottolineando, ancora una volta, una visione infantilizzante della donna. È certamente comprensibile, al contrario, l’idea di utilizzare tale differenziazione come mezzo e non come fine ultimo, il quale dovrebbe essere rappresentato da una prospettiva abolizionista generale, di tutte le carceri, sia maschili che femminili. Continuare ad interrogarsi sulle funzioni del carcere, sulla sua legittimazione e sulle possibili prospettive evolutive è senza dubbio essenziale. Ma spostando la mente dal futuro al presente, bisogna fare i conti con l’attuale esistenza del carcere; ideare sì prospettive di riforme future, ma concentrarsi soprattutto affinché le condizioni all’interno degli istituti migliorino oggi. È solo operando e battendosi per la tutela delle garanzie del sistema penale e dei diritti dei detenuti e delle detenute, con la presa in considerazione delle specificità dei singoli, che le prospettive, sia abolizioniste che riformiste, potranno davvero risultare realizzabili e non meramente utopiche.



[1] Una teoria elaborata nel 1950 dal sociologo statunitense Otto Pollak ed espressa all’interno della sua opera “The criminality of women”: egli sostiene non esserci differenza di genere nella commissione di reati, ma le donne godrebbero di un trattamento di favore da parte del sistema della giustizia che adotterebbe nei loro confronti una sorta di atteggiamento di cavalleria.
[2] “Donne in area penale esterna”: dal primo rapporto di Antigone sulle donne detenute in Italia (8 marzo 2023) è possibile evidenziare come la messa alla prova (MAP) si configuri come la risposta più frequente alla delinquenza femminile.
[3] Associazione Antigone, primo rapporto sulle donne detenute in Italia, 8 marzo 2023 (https://www.rapportoantigone.it/primo-rapporto-sulle-donne-detenute-in-italia/, data di consultazione 5 giugno 2023).
[4] Ronconi S. e Zuffa G., Recluse: lo sguardo della differenza femminile sul carcere (Roma, Ediesse, 2014) e La prigione delle donne: idee e pratiche per i diritti (Roma, Ediesse, 2020).
[5] Gandus N. e Toninelli C. (a cura di), Doppia pena: il carcere delle donne, Milano, Mimesis, 2020, p. 9.
[6] Associazione Antigone, primo rapporto sulle donne detenute in italia, 8 marzo 2023 (https://www.rapportoantigone.it/primo-rapporto-sulle-donne-detenute-in-italia/, data di consultazione 5 giugno 2023).
[7] Susanna Ronconi e Grazia Zuffa nella loro opera “Recluse. Lo sguardo della differenza femminile sul carcere” (2014) hanno evidenziato come uno dei fattori più potenti di disagio sia la percezione del tempo vuoto che caratterizza la temporalità dell’istituzione carceraria, infatti, gran parte delle detenute lamenta di non riuscire a riempire il tempo trascorso in carcere con attività strutturate, capaci di aprire e di fondare un progetto di vita futura.
[8] Marietti S., Lavoro, formazione, istruzione e attività, in “Primo rapporto sulle donne detenute in Italia”, Associazione Antigone, 2023 (ultima consultazione 18 giugno 2023).
[9] “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
[10] Fabini G., Corpo di donna e carceri speciali: non un discorso a margine, in Visto censura: lettere di prigionieri politici in Italia (1975-1986), Bebert Edizioni, 2016, p. 84.
[11] Parole del Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, nell’intervista: https://www.huffingtonpost.it/archivio/2015/05/27/news/carcere_e_sessualita_quattro_chiacchiere_con_mauro_palma-5732741/
[12] Quest’ultima permette alle donne detenute con figli fino a dieci anni di poter scontare le pene detentive non superiori ai quattro anni in regime di detenzione domiciliare.
[13] Dal rapporto di Antigone (8 marzo 2023): “Sul territorio nazionale, risultano in totale 60 posti disponibili all’interno degli ICAM. Sulla carta, le strutture presenti sono 5: Milano San Vittore, Venezia Giudecca, Lauro (Av), Torino e Cagliari Uta”.
[14] La distinzione più importante tra l’Icam e la casa protetta è data dal fatto che la prima è una forma detentiva a tutti gli effetti, mentre la seconda è una misura alternativa al carcere, destinata maggiormente alle donne che non hanno un luogo dove poter scontare una pena agli arresti domiciliari.
[15] Ne esistono solo due, a Milano e a Roma, per un totale di circa quindici donne ospitabili con i propri figli.


*immagine tratta dal film Nella città l’inferno del 1959, diretto da Renato Castellani.