L’ultima opera di Emmanuele Carrère, V13, edita da Adelphi, racconta il processo sugli attentati terroristici di matrice islamica a Parigi del 13 novembre 2015. In mano ad un lettore avvocato, il libro ha suscitato una serie di considerazioni, qui esposte per punti, sull’inevitabile confronto tra il nostro sistema penale (sostanziale e processuale) e quello francese, e non solo.


*crediti foto in calce

Vittime e vendetta

La parte più toccante e straziante del libro è indubbiamente quella dedicata alle testimonianze delle vittime sopravvissute e dei familiari delle vittime delle stragi. Ampio spazio viene loro dedicato nel corso del dibattimento, con il rischio di una deriva vittimocentrica del processo penale. Carrère è attento a non esprimere giudizi, soprattutto dinanzi alle diverse reazioni rispetto a quanto subìto. Nessuno può farlo. Il padre di una vittima può provare amore per il malvagio, per l’uomo, ma non per la sua malignità; un altro può odiarlo e desiderare vendetta. La vendetta è un furore arcaico, umano, che però dobbiamo superare in nome della civiltà, che è tale proprio perché sostituisce la vendetta con il diritto.

Sentenza

Carrère non risparmia critiche alla sentenza, in particolare sotto due profili: la sorte dei tre imputati con posizioni minori (Oulkadi, Chiuaa e Attou) e l’ergastolo ostativo inflitto ad Abdeslam, l’imputato principale. Oulkadi è stato condannato per associazione a delinquere con finalità di terrorismo e favoreggiamento di un’organizzazione terroristica, ma la pena è stata molto contenuta, e inferiore alle richieste dell’Accusa, così che resterà a piede libero. La previsione, nell’ordinamento francese, della possibilità di reformatio in peius in appello scoraggia gli imputati dal proporre impugnazione avverso la sentenza. Accettare una condanna ingiusta, nel merito o comunque nella qualificazione giuridica del fatto, pur di non correre il rischio di subire una condanna a pena maggiormente afflittiva. Secondo Carrère i giudici, resisi conto che la condotta dell’imputato non era grave, anziché assolverlo o condannarlo per favoreggiamento semplice, hanno preferito “fare giurisprudenza”, riconducendo anche le condotte marginali all’interno dell’organizzazione terroristica. La condanna all’ergastolo ostativo per Abdeslam, invece, tranquillizza l’opinione pubblica, confermando l’inflessibilità nei confronti dei terroristi. È la tanto acclamata pena esemplare che, però, come ci ricorda Carrère, non rispetta il principio della proporzionalità della pena.

Carcere duro

Le condizioni di detenzione di Salah Abdeslam, principale imputato del processo, sono state durissime, sei anni in isolamento. Carrère riporta un episodio particolare ed esemplificativo. Il precedente avvocato di Abdeslam aveva denunciato la videosorveglianza h24 a cui era sottoposto l’imputato. Il padre di una vittima aveva inviato una mail al difensore in cui ricordava che la nuora era in coma profondo e il figlio era morto in seguito agli attentati terroristici, concludendo che rispettava il lavoro dell’avvocato, ma che vi erano dei limiti di fronte alle persone che soffrono. Quali sarebbero questi limiti? Quale legame ha la sofferenza impagabile delle vittime e dei loro parenti con i diritti inviolabili dell’imputato e del condannato? Alla sofferenza provocata dal colpevole bisogna rispondere con altra sofferenza? Sarebbe legittimo, allora, reintrodurre la tortura e la pena di morte? No, la pena non può mai consistere in trattamenti disumani, l’unico limite è il rispetto invalicabile della dignità umana.

Ergastolo ostativo

L’ergastolo senza speranza, la pena fino alla morte: Carrère denuncia senza infingimenti l’assurdità dell’ergastolo ostativo. Su questo punto, così come sul “carcere duro”, il confronto è più desolante per l’osservatore italiano. Quale scrittore italiano di grande fama oserebbe minare dalle fondamenta la legittimità del 41-bis o dell’ergastolo ostativo, correndo il rischio di essere tacciato di collusione con la mafia o con il terrorismo?

Giustizia riparativa

Interessanti sono anche le pagine dedicate alla giustizia riparativa, volta a «permettere il dialogo tra vittime e carnefici, se le due parti lo desiderano: dopo il processo, senza implicazioni penali, senza pubblicità, senza nessun altro testimone se non le guardie carcerarie, poiché l’unico obiettivo è che ciascuno possa dire la sua verità e fare un passo avanti nella propria ricostruzione, se questa è possibile». Salta agli occhi la differenza con gli istituti di giustizia riparativa recentemente introdotti dal legislatore nostrano, che possono essere attivati già nel corso del procedimento, anche in fase di indagini preliminari, e che hanno suscitato dubbi in dottrina.

Avvocati della difesa

Un aspetto del libro su cui è interessante soffermarsi è il ritratto degli avvocati degli imputati (avvocati della difesa, formula che lo stesso autore ritiene pleonastica). Non è facile trovare in letteratura pagine del genere, in cui gli avvocati dipinti in chiave positiva. Carrère riesce a tratteggiare con precisione la figura del difensore, a descriverne la funzione insostituibile in uno stato di diritto. Una lettura consigliata ad ogni avvocato, soprattutto ai più giovani, ma anche ai tanti che ci considerano complici amorali dei criminali. In queste pagine si trova la risposta alla solita domanda “ma come si fa a difendere un criminale?”. Se è vero che anche in Francia vi è la tentazione d’identificare gli avvocati con gli assistiti, così non è avvenuto nel processo raccontato dall’autore. Anzi, la maggior parte delle vittime stimava gli avvocati degli imputati e rispettava la funzione che ricoprivano. Per concludere, non si possono non riportare le parole dell’avvocato Nogueras, a cui l’autore chiede se ci sono cause che rifiuterebbe di difendere: «se me lo chiedi, allora non hai capito cosa significa fare l’avvocato. Io non difendo nessuna causa, ma non rifiuto nessun imputato. […] Noi, per fare l’esempio dei reati più odiosi, naturalmente non difendiamo la pedofilia o il terrorismo, ma siamo disposti a difendere un pedofilo o un terrorista. Devono essere difesi, è la legge. […] Fare l’avvocato è proprio questo: fare tutto il possibile perché l’imputato sia processato sulla base del diritto e non delle passioni. E poi, quando tutti gli hanno voltato le spalle, essere l’ultimo a tendere ancora la mano».

Resta un’amara constatazione: quando leggeremo in Italia una cronaca processuale come quella di Carrère? Quando saranno raccontati i processi, anche quelli per i reati più gravi, con equilibrio e distacco, senza farsi portavoce di una parte processuale e senza sventolare il cappio della forca? 


*foto ricavata dall’articolo Carrère tra scrittura e reportage – RSI Radiotelevisione svizzera