Il presente articolo ha l’obiettivo di fare emergere la necessità d’introdurre una regolamentazione della prostituzione volontaria, oggi assente a causa della ormai datata – e tutt’ora vigente – Legge Merlin (L. n. 75 del 1958), che ha abolito le c.d. “case chiuse” e introdotto incriminazioni rivolte indistintamente a tutte le attività “ausiliarie” alla prostituzione, anche in forma volontaria. Tuttavia, se dinnanzi ai fenomeni di prostituzione forzata è senz’altro necessaria la risposta punitiva dello Stato, non può dirsi altrettanto nei casi restanti: una persona adulta che abbia deciso autonomamente e consapevolmente di prestare servizi sessuali in cambio di un corrispettivo in denaro, infatti, sta esprimendo la sua soggettiva libertà sessuale, quale diritto inviolabile tutelato dall’art. 2 della Costituzione. Allora, qual è il bene giuridico che deve ritenersi offeso, se l’attività a cui si presta ausilio è posta in essere intenzionalmente? A questo interrogativo ha fornito una risposta la Corte costituzionale, che nel 2019 si è pronunciata in merito ad un caso di notevole clamore per l’opinione pubblica (in cui Gianmarco Tarantini era imputato per reclutamento e favoreggiamento della prostituzione) assumendo, però, una posizione opposta alle ragioni di questo elaborato, incardinate invece nei principi laici e liberali che, in ossequio alla Costituzione, dovrebbero informare il nostro ordinamento penale. 


*crediti foto in calce

Nel nostro ordinamento la regolamentazione della prostituzione è stata abolita dalla Legge Merlin (L. n. 75 del 1958), che ha stravolto radicalmente l’impianto normativo precedente in quanto ritenuto profondamente lesivo dei diritti fondamentali delle donne [1]. Questa legge, oltre a prevedere la definitiva eliminazione delle c.d. “case chiuse” (prima legittime), ha introdotto norme incriminatrici rivolte a chiunque svolga attività di organizzazione e, più in generale, di ausilio alla prostituzione. Tale modello si discosta dai sistemi proibizionisti (che puniscono anche coloro che vendono e acquistano servizi sessuali) e utilizza una strategia di “contenimento” volta ad incriminare le condotte ausiliarie alla prostituzione: lo Stato, scoraggiando tutti coloro che forniscono una struttura organizzativa alla prostituzione – e quindi la facilitano –, intende emarginare la prostituta e impedire alla sua attività di crescere e proliferare. Questa opzione legislativa, però, appare censurabile sotto numerosi punti di vista. Innanzitutto, come emerge dalla lettura dell’art. 3 della legge Merlin, viene prevista la medesima cornice sanzionatoria – ossia la reclusione da due a sei anni – per attività che sono fra loro profondamente diverse. Con la stessa severità con cui vengono incriminati coloro che dirigono e amministrano una casa di prostituzione sfruttando la prostituzione altrui, o che fanno parte di organizzazioni nazionali o estere atte al reclutamento e al trasporto in territorio straniero di persone destinate alla prostituzione, vengono puniti coloro che pongono in essere condotte atte a “reclutare” persone a fini prostitutivi e a “favoreggiare” l’esercizio dell’attività. Eppure, le diverse condotte non sono di certo caratterizzate dal medesimo disvalore e, pertanto, non meritano la medesima risposta sanzionatoria da parte dell’ordinamento. Basti pensare che affinché si configuri il “reclutamento” (art. 3, comma 1, n. 2), è sufficiente la condotta di chi “ingaggi”, senza esercitare alcuna coercizione, giovani ragazze che autonomamente hanno manifestato la loro volontà di introdursi nel mondo del “sex work”. Ancora più problematico è il “favoreggiamento” (art. 3, comma 1, n. 8), posto che, essendo una fattispecie “a struttura aperta”, può potenzialmente ricomprendere qualsiasi comportamento che tenda a favorire la prostituzione volontaria, come può esserlo accompagnare una prostituta presso i luoghi di incontro o rimanere fuori dai locali ove questa svolge l’attività per vegliare sulla sua incolumità. Dinnanzi ai drammatici fenomeni di coercizione all’esercizio della prostituzione – soprattutto nell’ambito del fenomeno della tratta di esseri umani a scopo di sfruttamento sessuale –, è indiscutibile che il diritto penale debba avere un ruolo di prim’ordine, per la necessità di proteggere il bene giuridico dell’autodeterminazione sessuale della vittima che viene insopportabilmente leso. Invece, la necessità di ricorrere al diritto penale per colpire le condotte ausiliarie è assai discutibile quando si tratta di prostituzione libera e volontaria. Infatti, in quest’ultimo caso, è proprio la scelta incriminatrice del legislatore a ledere la sfera sessuale di chi ha deciso di esprimere la propria libera sessualità svolgendo un’attività che, peraltro, nel nostro ordinamento è pienamente legittima. In altre parole, queste fattispecie normative risultano incompatibili con la piena esplicazione dell’autodeterminazione sessuale della persona, riconosciuta quale “diritto inviolabile” dall’art. 2 della Costituzione. Peraltro, i casi di meretricio volontario sono oggi più che mai frequenti: basti pensare al fenomeno delle “escort”, ossia ragazze che si rendono disponibili ad accompagnare i propri clienti e a prestare eventualmente servizi sessuali a pagamento in un contesto totalmente diverso da quello di coercizione, inganno, violenza e privazione delle libertà che contrassegnava invece le case chiuse del 1900. Inoltre, oggi vi sono diverse modalità con cui uomini e donne possono essere retribuiti utilizzando il proprio corpo: è il caso della piattaforma online “OnlyFans”, in cui la persona adulta che voglia vendere immagini o video a sfondo sessuale lo può fare facilmente, selezionando i contenuti che vuole condividere, scegliendo i soggetti a cui condividerli ed i relativi prezzi; tutto, in piena autonomia. Casi, i precedenti, in cui è difficile individuare l’ipotesi di sfruttamento o vulnerabilità, e la scelta di offrire servizi sessuali si presenta come una semplice opzione lavorativa che, in un bilanciamento fra costi e benefici, appare più conveniente di altre. A ben vedere, la figura che va delineandosi non è più quella della lavoratrice subordinata che deve sottostare agli ordini indiscriminati dei suoi sfruttatori e a ritmi di lavoro incessanti – ossia la donna a cui si pensava quando nel 1958 entrò in vigore l’abolizionismo –, quanto piuttosto quella della lavoratrice autonoma. In un simile contesto, non può che cambiare la percezione del disvalore delle condotte ausiliarie svolte da terzi. Questi soggetti diventano individui di cui la prostituta si può servire – e che la stessa addirittura cerca – per meglio inserirsi all’interno del mercato sessuale, allo scopo di organizzare la propria attività e soprattutto per svolgerla in maniera più sicura.

La questione è stata affrontata negli ultimi anni soprattutto grazie ad un caso di cronaca di particolare risonanza mediatica. Parliamo della vicenda giudiziaria che ha coinvolto Gianmarco Tarantini, il quale fu incriminato, proprio in base ai reati ex art. 3 della Legge Merlin, per avere favoreggiato la prostituzione e reclutato a fini prostitutivi ragazze in favore dell’allora Premier Silvio Berlusconi. Dagli atti del processo si evince che il ruolo di Tarantini era quello di prendere contatto con le ragazze, selezionarle, prospettare loro i vantaggi economici che sarebbero derivati e, infine, organizzare concretamente gli incontri con il Presidente del Consiglio. È necessario sottolineare che la partecipazione agli eventi, da quanto emerge dagli atti del processo, non era influenzata da violenza o minaccia, né da forme di inganno, e che le ragazze coinvolte erano tutte maggiorenni all’epoca dei fatti. Dunque, si può ragionevolmente affermare che le stesse avessero scelto di prostituirsi in modo libero e consapevole. Ebbene, è proprio in virtù di tale circostanza che, successivamente alla condanna in primo grado, la Corte d’Appello di Bari ha sollevato questione di legittimità costituzionale relativamente all’art. 3, comma 1, n. 4) prima parte, e n. 8) prima parte, della Legge Merlin, laddove costituisce illecito penale il reclutamento (ai fini di prostituzione) ed il favoreggiamento della prostituzione anche quando quest’ultima sia volontariamente e consapevolmente esercitata; ciò, per contrasto con il diritto inviolabile all’autodeterminazione sessuale, ma anche con la libertà d’iniziativa economica e privata e con il principio di offensività in materia penale. Tuttavia la Corte costituzionale, con la storica pronuncia n. 141/2019, ha rigettato integralmente tutti i dubbi di costituzionalità sollevati, confermando la legittimità delle incriminazioni previste dalla Legge. Ebbene, le motivazioni su cui poggia la decisione appaiono difficilmente compatibili con un ordinamento autenticamente liberale e laico. La Corte sostiene che l’attività di prostituzione è contraria al valore supremo della dignità umana che, assurgendo a bene giuridico protetto, funge da giustificazione per tutte le fattispecie incriminatrici censurate. Ciò che appare maggiormente problematico è che il concetto di dignità umana è inteso dai giudici in senso “oggettivo”, ossia secondo il comune sentimento sociale che prescinde dalla personale percezione di chi si prostituisce, e quindi dalla sua volontarietà: la prostituzione è sempre e comunque – affermano i giudici costituzionali – un’attività che «degrada e svilisce l’individuo, in quanto riduce la sfera più intima della corporeità a livello di merce a disposizione del cliente». In questo modo, conclude la Corte, le incriminazioni rivolte a coloro che reclutano e favoreggiano sono necessarie per proteggere chi si prostituisce dalle sue stesse scelte personali, ritenute dallo Stato non etiche, immorali e quindi non dignitose per tutti. Così, però, la volontà dell’individuo viene completamente svuotata e trattata al pari di quella di un soggetto incapace di autodeterminarsi e scegliere correttamente. Nella sentenza, la Corte sembra disattendere completamente i dogmi di un diritto penale che sia veramente “extrema ratio” di tutela. Se l’individuazione del bene giuridico sottostante ad una fattispecie incriminatrice normalmente svolge, in linea con le istanze garantiste, una funzione critico-limitativa del potere penale, nella decisione ora discussa viene utilizzato, al contrario, per espandere oltremodo tale potere.  

Uno Stato che sia davvero rispettoso della libertà individuale – di cui la libertà sessuale è una componente essenziale –, non dovrebbe imporre dei valori oggettivi, e quindi assoluti, tali da giustificare la repressione di una delle scelte più intime della persona. Solamente attraverso un approccio soggettivistico alla dignità vi sarà il riconoscimento di un’autentica autodeterminazione sessuale del singolo, dal quale logicamente deriva la necessità di ricorrere al diritto penale unicamente nel caso in cui il soggetto sia obbligato ad agire contro la propria volontà. In definitiva, nei casi in cui sia stato espresso libero e valido consenso ad un’attività sessuale – sebbene per la morale dominante sia immorale e svilente –, data la totale assenza di un pregiudizio e quindi di offensività a danno della libertà individuale, nessuna pena può essere irrogata [2]. Peraltro, fra le recenti proposte legislative [3], ve n’è una che sembra propendere perfino verso un sistema di stampo proibizionista, ancor meno tollerante nei confronti della prostituzione volontaria. Infatti, nel febbraio 2022 è stato presentato in Senato il “Decreto Maiorino” (prima firmataria Alessandra Maiorino, senatrice in quota 5S), con l’intento di revisionare la legge Merlin introducendo un’ulteriore sanzione penale, ossia la reclusione fino a 3 anni in capo ai clienti che siano già stati ammoniti (per avere avuto rapporti sessuali con prostitute) nei cinque anni precedenti. Tale proposta normativa, oltre ad essere una scelta ulteriormente lesiva delle libertà individuali, rappresenta anche un assurdo giuridico, poiché non si rivela neppure utile allo scopo (dichiarato) di tutelare le donne; al contrario, la criminalizzazione del cliente avrebbe l’effetto di rendere più difficile la collaborazione dello stesso con le autorità, nel caso in cui si renda conto che le ragazze incontrate sono vittime di sfruttamento e, più in generale, favorirebbe (più di quanto non sia oggi) la relegazione della prostituzione in luoghi nascosti, periferici e quindi lontani dal controllo dell’autorità, con la conseguente perdita di qualsivoglia tutela e sicurezza per chi svolge l’attività. L’impressione è che troppo spesso, dinnanzi a fenomeni complessi che richiederebbero risposte altrettanto articolate e diversificate per essere davvero efficaci, la politica preferisca ricorrere indiscriminatamente allo strumento del diritto penale, senza interrogarsi adeguatamente sulla sua necessità, sui suoi effetti e su possibili strategie alternative meno lesive dei diritti individuali. Per questi motivi, la proposta che appare più aderente al dettato costituzionale è quella che prenda consapevolezza dell’esistenza di diversi fenomeni di prostituzione e, quindi, agisca in maniera differenziata. Se da una parte è doveroso reagire con severità davanti a tutti i casi di prostituzione forzata e di tratta di esseri umani, dall’altra è necessario riconoscere la libertà di scelta a sex worker adulti e consapevoli che vogliano svolgere tali attività – anche con l’ausilio terzi – in una cornice di piena libertà, autonomia e liceità. Ciò sarà possibile solo attraverso la regolamentazione della prostituzione, il riconoscimento di diritti e dunque tutele in capo a chi presta servizi sessuali e, per concludere, tramite la definitiva eliminazione di tutte le fattispecie incriminatrici inoffensive e ingiustificatamente limitanti l’autonomia sessuale e lavorativa della persona.  


[1] La Legge n. 75/1958 è frutto della battaglia del femminismo c.d. abolizionista (corrente contrapposta al femminismo liberale): l’abolizionismo voleva combattere la visione patriarcale su cui poggiavano le case chiuse del 1900, luoghi in cui la prostituta perdeva la propria identità ed autonomia e veniva sottoposta ad un intenso sfruttamento. In questo senso, secondo l’ideatrice della legge Lina Merlin, i postriboli del tempo erano la massima rappresentazione del dominio e della violenza maschile sul corpo della donna. 
[2] In merito a un’interpretazione di libertà sessuale soggettiva, che prescinde dagli orientamenti della morale dominante, v. due pronunce storiche: Corte Suprema federale USA, Lawrence c. Texas, 539 US 558 (2003) e Corte EDU, K.A e A.D. c. Belgio, 17 febbraio 2005.
[3] Nel giugno 2023 i Radicali hanno proposto un disegno di legge per decriminalizzare la prostituzione e riconoscerla come una professione legittima ed autonoma. Anche la Lega, nel febbraio 2019, aveva depositato in Parlamento una proposta di regolamentazione dichiarando di perseguire finalità di “maggiore sicurezza, ordine e decoro urbano”. 

*foto ricavata dall’articolo “Sex work is work”