L’irrompere del nuovo coronavirus ha travolto anche l’amministrazione della giustizia e stravolto la quotidianità degli operatori del diritto. Vogliamo ricordare e ricostruire quanto avvenuto nelle prime settimane di emergenza con l’avvocato Angela Maria Odescalchi, Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lodi. Proprio in quel Distretto, infatti, si trova Codogno, centro del primo focolaio epidemico accertato. Tra la fine di febbraio ed i primi giorni di marzo del 2020, nel Tribunale di Lodi, si è sperimentato quanto avvenuto successivamente in tutta Italia. Le difficoltà nell’affrontare una crisi sanitaria improvvisa e sconosciuta sono innegabili e giustificano alcuni provvedimenti emergenziali adottati nei primi momenti dell’allarme, ma la prorogata chiusura di fatto dei tribunali, salve rare eccezioni, ha seriamente compromesso l’esercizio dell’amministrazione della giustizia. Il carico di lavoro accumulato grava su un sistema già appesantito da un arretrato notevole. A più di un anno dall’inizio della crisi pandemica in Italia, tocca constatare la persistenza di problematiche ed incertezze diffuse: dalla difficoltà nell’accesso alle cancellerie, ai malfunzionamenti del processo telematico, ai rinvii di numerose udienze. La voce dell’avvocatura si è levata non per invocare tutele consociative (nonostante le innegabili difficoltà legate alla crisi economica o allo slittamento dell’esame di abilitazione alla professione forense), ma per tutelare i diritti di tutti. I momenti di emergenza sono, da sempre, caratterizzati da una limitazione – spesso pretestuosa – dei diritti e delle libertà dei cittadini. Ancor più necessaria ed irrinunciabile diviene, in questi frangenti, la funzione dell’avvocato di baluardo degli interessi di ogni individuo contro i possibili abusi del potere. 

Più di un anno fa, a Codogno, veniva scoperto il primo focolaio epidemico. Quali furono le reazioni immediate ed i provvedimenti adottati per fronteggiare l’emergenza in ambito giudiziario nel distretto di Lodi?

Ringrazio molto per la domanda, che mi dà l’opportunità di ringraziare a mia volta tutti i protagonisti di quei giorni. Lodi si è trovata di colpo investita da una pandemia di cui stentava a comprendere la portata. Ricordo quel sabato mattina del 22 febbraio 2020, nella stanza del Presidente facente funzioni, dott.ssa Elena Giuppi, con il Procuratore della Repubblica, il dott. Domenico Chiaro. La risposta che di primo impatto tutti noi abbiamo cercato di dare è stata quella di non far fermare la macchina della giustizia (increduli che si potesse, come invece sarebbe avvenuto, limitare la libertà personale dei cittadini in stile cinese), di agevolare le richieste di rinvio, di sospendere i termini laddove possibile e consentire depositi a distanza anche con la pec; grande disponibilità da parte dei dirigenti, poca dai rispettivi vertici istituzionali (Corte d’Appello, Procura Generale e CNF). Il loro interpello, infatti, lasciava tutto nella valutazione discrezione dei singoli, con l’inevitabile confusione che ne sarebbe derivata e con il rischio di pregiudicare i diritti dei singoli coinvolti. Tra noi colleghi è subito stata creata una rete volta a facilitare il lavoro di coloro che si trovavano nella prima zona rossa, e ricordo bene di aver scritto al Ministro affinché intervenisse con un provvedimento che garantisse per tutti la remissione in termini. Il provvedimento arrivò con tutti i limiti dati dalla fretta: erano garantiti solo gli iscritti al foro di Lodi residenti in zona rossa, e non invece i residenti iscritti ad altri fori o ancora i non residenti che pure avevano lo studio in zona rossa… insomma, si crearono momenti di panico vero. Fortunatamente (si fa per dire) la pandemia avrebbe a breve colpito tutto il territorio nazionale e dunque anche il Ministero sarebbe stato costretto a sospendere l’attività giudiziaria, come avvenuto dopo il 9 marzo 2020.

Quali furono, per gli avvocati residenti in quelle aree, le problematiche create dalla proclamazione delle prime zone rosse? 

Il problema principale si poneva soprattutto per gli atti, in materia penale, soggetti a termini di decadenza o inammissibilità. Il non disporre di un collaudato sistema di processo telematico – come avviene per il civile – poneva problemi soprattutto per le impugnazioni o le querele, atti per i quali – nonostante la disponibilità mostrata dal Procuratore o dal Presidente a riceverli anche per pec – si sarebbe comunque esposta la parte rappresentata al rischio di una successiva dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità. Questa è la ragione per cui molti di noi si incontravano ai c.d. check point, scambiandosi gli atti da depositare o i fascicoli su cui lavorare. Sono stati momenti molto complicati.

Il dialogo e la collaborazione tra avvocatura e magistratura, a livello locale, sono stati fondamentali per affrontare i primi momenti della crisi pandemica. Questa esperienza può costituire un mutamento strutturale e duraturo nei rapporti tra i protagonisti del panorama giudiziario?  

A questa domanda ho in parte già risposto. Lodi è una piccola realtà, in cui l’aspetto legato ai rapporti interpersonali tra le parti gioca un ruolo di fondamentale importanza, nel bene e nel male. La pandemia e il dramma che ci coinvolgeva ha ulteriormente rinsaldato questo aspetto, spingendo ciascuno di noi a posporre specifiche spigolature per l’interesse comune. E’ stata davvero una bella dimostrazione di efficienza e collaborazione inter partes.

La sostanziale sospensione dell’attività giudiziaria, nelle prime settimane della crisi pandemica, è stata una scelta sofferta ma doverosa o poteva essere evitata? Quale prezzo è stato pagato in termini di contrazione dei diritti dei cittadini?  

La domanda è di non facile risposta. Ricordo quei giorni frenetici: ricevevo messaggi di aiuto e grida di sconforto o di paura per il contagio; ad alcuni colleghi portavano via genitori o parenti, e altri invece erano terrorizzati dal non poter lavorare. Come ben sappiamo tutti, la crisi economico-finanziaria conseguente alle misure imposte dalla pandemia ha purtroppo trovato terreno fertile nell’avvocatura, che soffriva già da tempo di una forte flessione di reddito. La sospensione delle attività praticamente fino a settembre 2020 ha dunque inciso molto negativamente sul nostro settore, certamente anche pregiudicando in talune situazioni i diritti dei singoli. Sto pensando sia ai titolari di diritti che non potevano essere esercitati, sia a coloro che – sottoposti ad indagini o procedimenti penali – sono stati costretti a subire tale situazione senza potersi difendere. Tuttavia, penso che il prezzo pagato sia stato comunque necessario a fronte della situazione che abbiamo vissuto. 

Il paventato esteso ricorso alla celebrazione a distanza delle udienze dei procedimenti penali, con la conseguente lesione dei principi dell’oralità e dell’immediatezza del giusto processo, è un pericolo definitivamente scampato?

Ricordo bene quando si è cominciato a parlare di udienze a distanza anche per il processo penale, argomento delicatissimo e molto pericoloso per l’esercizio del diritto di difesa, sul quale ho subito organizzato un incontro specifico per saggiare l’orientamento dei miei iscritti, che ha avuto una straordinaria partecipazione (oltre duecento iscritti, numero altissimo per Lodi che ne conta 450 in totale). Personalmente, sono assolutamente contraria alla celebrazione delle udienze da remoto, o peggio ancora cartolari, come sta avvenendo in Corte d’Appello e in Corte di Cassazione. Devo dire che tale è anche la posizione della maggior parte dell’avvocatura e della magistratura, poiché la tendenza è stata comunque quella di evitare il più possibile l’udienza da remoto. A Lodi le aule sono molto ampie, per cui i giudici si sono organizzati rimodulando il calendario di udienza secondo orari e scaglionamenti che hanno di fatto evitato gli assembramenti. Ciò ha consentito di riprendere il lavoro in sicurezza, limitando il più possibile i diritti delle parti coinvolte. Sono convinta, tuttavia, che il pericolo non sia affatto scampato, e lo dimostrano gli articoli 23 e 24 del D.L. 137/2020, che hanno istituzionalizzato i protocolli introdotti con l’emergenza. La sfida è certamente ardita: non è necessario solo cercare di automatizzare i sistemi lavorativi inefficienti, ma bisogna soprattutto capire se sono possibili metodi innovativi per praticare il diritto. C’è un limite, però, che non credo sia facilmente superabile – non lo è nemmeno per un avanguardista come Susskind, nel suo libro “L’avvocato di domani” –, e cioè che nessun processo decisionale giudiziario – per lo meno complesso – può essere sostituito dagli attuali strumenti informatici, né tanto meno da forme di celebrazione che arretrano rispetto alle garanzie difensive costituzionalizzate. E’ il “mistero del processo”, come scrive Salvatore Satta, quando prende spunto dal processo al maggiore Bachmann durante la rivoluzione francese. Di fronte al giudice che ferma la folla inferocita, intimando il rispetto delle regole poiché l’accusato è ora “sotto la sua spada”, la folla si placa ma l’autore si chiede: che bisogno c’è di fermare la folla, se comunque l’intenzione è quella di giustiziare l’accusato? Che bisogno ha la rivoluzione di istituire tribunali per processare gli accusati, quando potrebbero essere uccisi direttamente? E’ il mistero del processo. Un atto essenzialmente anti-rivoluzionario, il momento eterno dello spirito, che non si può volere senza in qualche modo negare la rivoluzione.

Il pensiero non può non andare alla condizione delle carceri, aggravata dalla crisi pandemica. Qual è la situazione degli istituti nel suo distretto? Il legislatore poteva fare di più e meglio, ad esempio sanando la situazione di perdurante sovraffollamento?  

La situazione carceraria a Lodi è drammatica. La struttura è molto piccola e poco organizzata. Ci sono stati molti contagi, e di fatto per un certo periodo è stato impedito ai difensori di incontrare in sicurezza i propri assistiti. Sull’argomento abbiamo organizzato una tavolo con il Direttore del Carcere dott. Gianfranco Mongelli, il nuovo Presidente dott. Angelo Gin Tebaldi e il Procuratore dott. Domenico Chiaro. Abbiamo donato alla struttura i paramenti in plexiglas per i colloqui e aiutato nella ristrutturazione della saletta di socializzazione, da destinare anche ai colloqui con i difensori. Ciò ha consentito una lenta ma graduale ripresa della normale attività difensiva. Certamente, il totale abbandono in cui è stata relegata la popolazione carceraria è deplorevole, ma scuote gli animi di pochi e sul tema bisognerebbe interrogarsi con franchezza.

Con la pandemia è cambiato il ruolo del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati? Quali sono stati i principali provvedimenti adottati dal suo Consiglio in quest’ultimo anno? 

Credo proprio di poter dire che i consigli degli ordini, durante questo ultimo anno, abbiano svolto un ruolo fondamentale per gli iscritti, dimostrando – ove mai ce ne fosse bisogno – l’assoluta indispensabilità dell’istituzione volta a garantire non solo il buon funzionamento dell’attività amministrativa, ma anche e soprattutto a favorire lo spirito di coesione, a confrontarsi sulle tematiche cercando soluzioni condivise, a fornire risposte il più possibile adeguate agli interessi della categoria contemperando gli interessi contrapposti. Personalmente, insieme al mio Consiglio, mi sono trovata a diventare un vero e proprio punto di riferimento per i colleghi, che spero abbiano apprezzato lo sforzo di trovare sempre il tempo per rispondere a tutti. Data la richiesta, durante lo scorso lockdown ho istituito un incontro zoom settimanale, aperto a tutti e assolutamente gratuito, per esaminare le questioni che di volta in volta si presentavano, a cominciare dall’esame di normative, protocolli o comunque temi rilevanti per l’esercizio della professione. Devo dire che è stato un ciclo di eventi molto seguito, anche da appartenenti ad altri ordini, ed è un sistema che abbiamo cercato di mantenere distribuendo gli incontri mensilmente anziché settimanalmente. Ho anche cercato di mantenere sempre attivo il contatto con i nostri organismi di vertice, in primo luogo Cassa Forense, che devo dire si è sempre dimostrata molto vicina e disponibile alle nostre richieste. In particolare, l’allora Presidente avv. Nunzio Luciano ha seguito scrupolosamente l’evoluzione dei problemi che ci riguardavano, e il consiglio di amministrazione di Cassa ha deliberato un contributo straordinario per il nostro e per quello di altri nove ordini appartenenti alle province più colpite dalla pandemia, che ci ha consentito di investire in strumenti informatici e tecnologici per adeguare l’attività della nostra struttura alle ultime innovazioni disponibili, facilitando l’esercizio della professione per i nostri iscritti.

Come sta incidendo la pandemia sulla professione forense e quali sono, secondo lei, le prospettive future per l’avvocatura? 

A sentire l’ultimo rapporto Censis presentato al CNF, che pure riportava dati antecedenti la pandemia (2019), la situazione è scoraggiante. Nonostante nel 2019 il reddito medio sia salito dell’8%, bisogna arrivare a 50 anni per averne uno adeguato, e le categorie maggiormente penalizzate continuano ad essere le donne (il reddito medio è pari a €25.073, contro i €54.496 degli uomini) e i giovani, che tra i 30 e i 34 anni registrano un reddito medio di €16.000. Inoltre, il 61,5% degli iscritti alla Cassa ha ricevuto il contributo dello Stato, e il 30,8% di coloro che non ne hanno beneficiato è stato il solo a non averne i requisiti. Il Covid è stato vissuto con enorme criticità dal 47% dei colleghi al Sud e dal 37% delle donne. Sono dati che non possono che allarmare, perché destinati ad aggravarsi con i risultati del 2020. Personalmente trovo avvilente confrontarmi con gli studenti e i nuovi praticanti senza riuscire a rassicurarli sul loro futuro professionale, e questo dato non ha nulla a che vedere con l’eterna riflessione che circola nella nostra categoria sull’eccessivo numero di iscritti. Se non riusciremo a ritrovare al nostro interno nuovi stimoli e traguardi da conseguire, rischieremo di ridurci a meri burocrati, perdendo l’essenza stessa del nostro essere avvocati al servizio di quella giustizia felicemente definita dal cardinale Martini come “la virtù che si esprime nell’impegno di riconoscere e rispettare il diritto di ognuno dandogli ciò che gli spetta secondo la ragione e la legge”: parole pungenti per il presente, ma stimolanti per il futuro.