Pubblichiamo l’intervento di Valentina Angela Stella, giornalista del Dubbio News e socia di Extrema Ratio, al convegno del 26 ottobre 2023 dal titolo “Il consenso nei reati a sfondo sessuale. Prospettive di riforma tra garanzie individuali e criticità applicative”, organizzato da Extrema Ratio in collaborazione con Osservatorio Giovani Camera Penale di Bologna “Franco Bricola”.


Buon pomeriggio a tutti. Grazie per l’invito agli organizzatori. Scusate la mia assenza fisica ma non mi è stato possibile prendere un giorno di ferie. Voglio subito partire “offrendovi” un caffè di Massimo Gramellini sul Corriere della Sera: «Mi piacerebbe prendere un caffè con la dottoressa Bonaventura del tribunale di Roma per approfondire la sua visione del mondo. Fu lei ad assolvere il bidello che aveva toccato il sedere di una studentessa nello stesso tempo impiegato da Jacobs per vincere i 100 metri alle Olimpiadi, sentenziando che sotto i dieci secondi il palpeggiamento è fugace, suppongo assimilabile a un gesto di cortesia. Ora la giudice si rivela recidiva, perché dopo il bidello manda assolto anche il dirigente di museo accusato da un’impiegata di saltarle addosso negli sgabuzzini, sniffandole i capelli al grido di “Quanto mi arrapi”. Nella sentenza sta scritto che i colleghi non hanno confermato le accuse dell’impiegata (il museo invece deve averle creduto, visto che ha licenziato il direttore) e tanto dovrebbe bastare per assolvere l’imputato. Invece la magistrata sente il bisogno di aggiungere che “la ragazza era probabilmente mossa da complessi sul proprio aspetto fisico (segnatamente il peso)” che l’avrebbero portata a “ritenersi aggredita fisicamente”. Per la giudice-psicanalista una donna sovrappeso è indotta a vedere molestie dove non ci sono: se il direttore di museo avesse sniffato i capelli a Margot Robbie in uno sgabuzzino gridandole “Quanto mi arrapi”, lei lo avrebbe correttamente interpretato come un complimento alla sua marca di shampoo, senza farsi venire strane idee. Sì, vorrei tanto approfondire la visione del mondo della dottoressa Bonaventura. Soprattutto vorrei capire perché si ostini a tradurre questa visione non in saggi o romanzi, ma in sentenze». Ecco, io invece vorrei tanto sapere se Gramellini ha letto le sentenze di cui scrive. Al Dubbio l’abbiamo fatto. Si tratta di due sentenze articolate e dettagliate nella ricostruzione della prova. Condivisibili o meno è altro discorso, ci penserà la Corte di Appello a stabilirlo. Da nessuna parte, nella sentenza che ha assolto un operatore scolastico romano dall’accusa di aver infilato le mani negli slip di una studentessa minorenne, c’è scritto che non è violenza perché la palpata è durata meno di dieci secondi. Semplicemente «non sono emersi elementi probatori sufficienti a formulare, senza alcun ragionevole dubbio, un giudizio di responsabilità dell’imputato» con riferimento alla presenza dell’elemento soggettivo della condotta. Per l’altro caso il dirigente di un museo capitolino è stato assolto, perché, tra l’altro, le testimonianze di colleghi e colleghe di lavoro hanno letteralmente demolito la versione fornita dalla parte offesa, indicata anzi come essa esplicitamente attratta sessualmente dall’imputato. Una debacle processuale della querelante, che forse ha spinto il Collegio ad ipotizzare una qualche spiegazione («probabilmente mossa dai complessi di natura psicologica sul proprio aspetto fisico»). Eppure è partito il linciaggio mediatico contro la V sezione collegiale del Tribunale di Roma, specializzata in materia, e sui giornali sono apparsi i nomi e cognomi delle magistrate che la compongono. Nessuna testata si è presa la briga di spiegare nel dettaglio le sentenze. Come ha sintetizzato bene l’ex presidente dell’Unione Camere Penali Gian Domenico Caiazza: «Questo è il livello e la qualità della cronaca giudiziaria nel nostro Paese, alla famelica caccia di scandalose assoluzioni (mai di scandalose condanne), per aizzare indignazione, viralità sui social, kermesse forcaiole, numero di lettori e di like, senza sentire non dirò il dovere, ma almeno il decoroso bisogno di leggere un rigo delle sentenze sulle quali si vomita fango». Ma questi non sono gli unici casi di assoluzione per reati di violenza contro le donne. Ho fatto una breve ricerca di internet: «Busto Arsizio, accusato di violenza sessuale, venditore ambulante assolto dopo tre anni con la prova del Dna», «Condannato a 5 anni per violenza sessuale, viene assolto in appello sette anni dopo: “Era fuori città per lavoro», «Violenza in discoteca: assolto dieci anni dopo. “Non abusò della ragazza». E potrei continuare. Certo, è anche vero che nel 2021 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia per violazione dell’articolo 8 – Diritto al rispetto della vita privata e familiare – della Convenzione per aver violato i diritti di una presunta vittima di stupro con una sentenza che conteneva passaggi che non hanno rispettato la sua vita privata e intima. Il caso riguardava una sentenza della Corte d’appello di Firenze che aveva comunque assolto 7 imputati accusati di uno stupro di gruppo avvenuto nella Fortezza da Basso a Firenze. Tuttavia questo non giustifica, a prescindere da innocenza o colpevolezza degli imputati, un dibattito così tossico da non permettere ai lettori e agli spettatori di capire davvero quali siano i termini in gioco di un giusto processo. Prendiamo il caso di Alberto Genovese, noto imprenditore condannato a Milano con l’accusa di aver violentato una ragazza di 18 anni durante un festino. Quando ancora si era nella fase iniziale delle indagini preliminari in una trasmissione televisiva l’incredibile distorsione del processo mediatico fu rappresentata dall’ascoltare in diretta i testimoni del fatto. In altri casi è addirittura capitato che venissero sentiti prima di andare a colloquio con il pubblico ministero. Altre volte furono ascoltate le ragazze, con il sottopancia “vittime”, perché aggiungere “presunte” sarebbe stata una lesa maestà della credibilità della donna. Addirittura, in un’altra puntata dedicata al caso di Ciro Grillo, furono mosse contestazioni in diretta ad un testimone facendo emergere le contraddizioni rispetto alle sue dichiarazioni ai carabinieri. «Avanzare prove durante una trasmissione o addirittura fare un incidente probatorio non fa affatto bene al processo che forse ne seguirà, soprattutto perché si rischia di inficiare la verginità cognitiva dei giudici», commento l’avvocato Luca Brezigar, co-responsabile dell’Osservatorio Informazione Giudiziaria dell’Ucpi.

Ma cosa prevede il codice deontologico di noi giornalisti?
Articolo 5bis:
«Nei casi di femminicidio, violenza, molestie, discriminazioni e fatti di cronaca, che coinvolgono aspetti legati all’orientamento e all’identità sessuale, il giornalista: a) presta attenzione a evitare stereotipi di genere, espressioni e immagini lesive della dignità della persona; b) si attiene a un linguaggio rispettoso, corretto e consapevole. Si attiene all’essenzialità della notizia e alla continenza. Presta attenzione a non alimentare la spettacolarizzazione della violenza. Non usa espressioni, termini e immagini che sminuiscano la gravità del fatto commesso; c) assicura, valutato l’interesse pubblico alla notizia, una narrazione rispettosa anche dei familiari delle persone coinvolte».
Ma ci raccomanda anche all’articolo 8 “Cronaca giudiziaria e processi in tv”:
«Il giornalista: a) rispetta sempre e comunque il diritto alla presunzione di non colpevolezza. In caso di assoluzione o proscioglimento, ne dà notizia sempre con appropriato rilievo e aggiorna quanto pubblicato precedentemente, in special modo per quanto riguarda le testate online; b) osserva la massima cautela nel diffondere nomi e immagini di persone incriminate per reati minori o condannate a pene lievissime, salvo i casi di particolare rilevanza sociale; c) evita, nel riportare il contenuto di qualunque atto processuale o d’indagine, di citare persone il cui ruolo non sia essenziale per la comprensione dei fatti; d) nelle trasmissioni televisive rispetta il principio del contraddittorio delle tesi, assicurando la presenza e la pari opportunità nel confronto dialettico tra i soggetti che le sostengono – comunque diversi dalle parti che si confrontano nel processo – garantendo il principio di buona fede e continenza nella corretta ricostruzione degli avvenimenti; e) cura che risultino chiare le differenze fra documentazione e rappresentazione, fra cronaca e commento, fra indagato, imputato e condannato, fra pubblico ministero e giudice, fra accusa e difesa, fra carattere non definitivo e definitivo dei provvedimenti e delle decisioni nell’evoluzione delle fasi e dei gradi dei procedimenti e dei giudizi».


Fermatevi un attimo a pensare e chiedetegli se questo avviene. No, nella maggior parte dei casi. Questo per dire che non può essere instillata tramite i media una dogmatica fede nella donna che denuncia. Già sappiamo che la presunzione di innocenza è vilipesa quotidianamente e con fatica abbiamo recepito la direttiva europea, che pure ha i suoi limiti. Tuttavia quando si tratta di casi di presunta violenza, l’indagato è ancora più spacciato agli occhi dell’opinione pubblica. C’è poi un altro elemento da sottolineare: tutta questa attenzione mediatica sulle vicende che trattano la violenza sessuale mette in evidenza una stortura, ossia guardare al genere del collegio giudicante, come se dalle donne ci si aspettasse sempre e per forza un comportamento di esemplarità della pena. Come mi ha spiegato benissimo in una intervista la presidente della Camera penale livornese Aurora Matteucci, «la lettura dei fenomeni criminali, in generale, ma soprattutto dei reati a sfondo sessuale o di violenza maschile contro le donne soffre gli effetti negativi di un eccesso di radicalizzazione e quindi di semplificazione: come al solito scaricare sul solo diritto e sul processo penale questioni che prima di tutto dovrebbero trovare composizione sul piano culturale produce storture pericolose». In definitiva, «a contendersi il campo sono due stereotipi opposti: se da un lato ancora resistono narrazioni che tradiscono l’esistenza di una cultura patriarcale, dall’altro pensare che una donna che denuncia debba essere creduta a prescindere svuota di senso la funzione del processo e rende sostanzialmente indifendibili imputati, presunti innocenti, già condannati mediaticamente. I commenti alle sentenze si sprecano, spesso senza averle lette, senza aver seguito il processo, senza aver fatto la fatica di seguire gli snodi cruciali dell’accertamento dei fatti. E ogni assoluzione viene vissuta come una mancanza di giustizia. Soprattutto, in tema di violenza sessuale, si assiste troppo spesso a libere interpretazioni del testo normativo da parte di una giurisprudenza creativa: se è vero che dal 1996 il reato di violenza sessuale non è più, per fortuna, un reato contro la moralità pubblica, dall’altra parte, però, aver concepito fatti diversi (un conto è lo stupro, un conto è il pur odioso atto di palpeggiamento) entro la stessa fattispecie ha prodotto effetti draconiani per situazioni che, semmai, andrebbero ripensate con una previsione autonoma». E lo stesso avviene per le donne avvocate, quasi costantemente attaccate se difendono un uomo accusato di violenza. «Non una, ma due donne che lo hanno difeso. Vergognoso», «mi chiedo come possono due donne difendere una persona del genere» e ancora «ma questi avvocati non si vergognano a difendere un delinquente simile. Lo schifo assurdo che per i soldi non si guarda in faccia nessuno, eppure sono donne ma nessuna solidarietà. Il denaro e la carriera sono superiori al dramma di questa ragazza». E poi il climax ascendente: «Che non debbano mai provare nessun tipo di violenza queste sottospecie di avvocati». Questi sono solo alcuni dei commenti rivolti sui social a due avvocate bresciane, attaccate dalla folla forcaiola e sessista solo per aver difeso e fatto assolvere perché il fatto non sussiste un 27enne di origini pachistane accusato di violenza sessuale nei confronti della sorella all’epoca dei fatti minorenne. E ad alimentare questa ostilità ci sono i media che non sanno o non vogliono veicolare i principi basilari di uno Stato di Diritto. Si è chiesto il noto penalista romano Renato Borzone: «è possibile che dietro questi attacchi mediatici nessuno fiuti il background di concezioni per le quali lo scopo del ‘fare giustizia’ è connaturato al solo condannare, e per le quali in certi processi, quelli in materia di molestie sessuali, si pretende dai giudici una diversa applicazione delle regole rigorose in materia prova?» Allargando l’orizzonte ai casi di femminicidio una polemica simile c’era stata qualche mese fa contro la Corte di Busto Arsizio che invece di dare l’ergastolo aveva condannato a ‘soli’ 30 anni di reclusione l’assassino di Carol Maltesi. Il presidente del Collegio è stato costretto a difendere la bontà della motivazione in una intervista al CorSera, concludendo così: «con quale spirito tra pochi giorni la mia Corte d’Assise affronterà un altro processo per un fatto altrettanto cruento? Il giudice non è qui apposta per valutare le circostanze? Se no, ci dicano che possono fare a meno del giudice. E, al suo posto, metterci un juke-box». Ecco, alla luce di tutto questo clamore mediatico c’è da chiedersi con quale serenità d’animo adesso le stesse giudici della V penale del Tribunale di Roma emetteranno le successive sentenze, se addirittura delle organizzazioni di femministe chiedono al Ministro della Giustizia Nordio di intervenire.  Con quale serenità andranno successivamente a giudicare se dietro l’angolo c’è il linciaggio mediatico?  Questo è un problema che dovrebbe investire la magistratura tutta, in nome della cultura della giurisdizione che condividono pubblici ministeri e giudici. Sempre a proposito di femminicidi, ricordate che qualche mese fa al Tribunale di Livorno è stata allestita una mostra con le foto di uomini condannati per aver ucciso delle donne con tanto di nome, città, anno, arma del delitto e pure il nome della vittima? Un occhio per occhio, dente per dente in chiave contemporanea che evoca antichi supplizi. Il condannato è stato elevato ad esempio, come uno strumento di prevenzione generale. Come dire, ha scritto sempre Matteucci, «a chi sale le scale del Tribunale, società civile e imputati che dovranno essere giudicati, che il condannato per quei reati si merita una pena identica a quella inflitta alle persone offese». Il contrario di quanto afferma l’art. 27 Cost. che stabilisce che il condannato è un fine e mai un mezzo, è protagonista di un’opera di risocializzazione complessa che, se funzionasse a dovere, consentirebbe il reinserimento e la restituzione di una persona rinnovata nel tessuto sociale, una persona che non può e non deve mai identificarsi solo con il reato che ha commesso. Qual è l’altro problema? Oggi l’idolo della pubblica opinione è diventata la sicurezza, non stiamo parlando della sicurezza misurabile con dati, indici e stime concrete, ma di qualcosa di molto più impalpabile che prende il nome di «sicurezza percepita». L’idolo della «sicurezza percepita» alimenta un eccesso di diritto penale simbolico che affonda le sue ragioni nel populismo giudiziario e prescinde totalmente dai dati criminologici. Un esempio lampante di questa deprecabile deriva ci è offerto dai reati sulla violenza di genere. Qualcuno forse ricorderà quando, nell’aprile 2009, il Governo di centrodestra approvò con urgenza, sulla scia dell’ennesimo caso di cronaca nera, una legge che inaspriva le pene per la violenza sessuale, salvo poi ammettere, nella successiva conferenza stampa, che le violenze sessuali in Italia erano in calo. La stessa legge prevedeva anche l’obbligo della custodia cautelare in carcere per chiunque fosse solo accusato di un crimine sessuale (poi per fortuna la Corte costituzionale, dichiarò l’incostituzionalità di quella norma assolutamente repressiva). Più in generale, negli ultimi anni le leggi sulla violenza di genere hanno conosciuto un innalzamento sanzionatorio notevolissimo, con l’aggiunta delle più disparate circostanze aggravanti, il che molto spesso contrasta con i criteri di ragionevolezza, proporzionalità e finalità rieducativa della pena. Se poi passiamo dal piano del diritto sostanziale a quello della difesa e del processo, il discorso si complica ulteriormente a causa delle distorsioni mediatiche dell’informazione che ormai hanno raggiunto livelli non più accettabili. Può un indagato o imputato per violenza sessuale difendersi senza  essere linciato o accusato di voler screditare la vittima? A parole siamo tutti pronti a riconoscere che i processi si fanno in Tribunale, però poi se ti azzardi a parlare non di «vittima», ma di «presunta vittima», o se provi a sollevare qualche dubbio sulla veridicità della sua denuncia fatta filtrare indebitamente sui mezzi di comunicazione, vieni subito sepolto sotto colate di indignazione a buon mercato. Ultimamente abbiamo addirittura appreso con stupore che nei processi per violenza sessuale l’indagato non dovrebbe difendersi in nessun modo pubblicamente, perché così andrebbe ad alimentare la «normalizzazione dello stupro». Come se non si sapesse che molto spesso in questo genere di processi l’unica arma che l’imputato possiede per riuscire a dimostrare la scarsa attendibilità della presunta vittima consiste proprio nel mettere in risalto le eventuali contraddizioni presenti nel racconto di quest’ultima, e ciò può avvenire innanzitutto ponendo sotto i riflettori il suo comportamento cercando così di capire i motivi per cui, ad esempio, la denuncia non è stata presentata nell’immediatezza del fatto o perché la donna dopo abbia continuato ad intrattenere comunicazioni col presunto carnefice. Dovrà poi essere il Tribunale, non certo la pubblica opinione, a stabilire caso per caso la rilevanza e pertinenza della tesi difensiva dell’imputato, anche perché, nel momento in cui si comincia  a sostenere, in nome delle sacrosante battaglie contro la violenza di genere, che determinati argomenti non possono fare ingresso nel processo perché giudicati impresentabili «a prescindere», rischiamo seriamente di alimentare una deriva etica e non più laica del processo. Si corre cioè il rischio che i processi per violenza sessuale si svolgano con la pericolosa caratteristica dello «stato d’eccezione». Lo dimostra ad esempio un comunicato dell’Anm sul caso Grillo là dove si legge: «È essenziale per la vita democratica del Paese che i processi, e quelli per violenza sessuale anzitutto, si svolgano al riparo da indebite pressioni mediatiche». Non si comprende il passaggio in cui è scritto «quelli per violenza sessuale anzitutto»: non ci sono reati di serie A e di serie B, il rispetto delle garanzie e di un giusto processo, sottratto alle derive del processo mediatico spesso alimentato in modo strumentale dalle stesse Procure, devono valere sempre. Anche perché dalle accuse di violenza sessuale si viene anche assolti. Anche perché è capitato spesso che un indagato per stupro fosse giudicato innocente.  Ricordate il presunto stupro consumato nel 2019 nella circumvesuviana di San Giorgio a Cremano? Una ragazza aveva accusato di violenza brutale di gruppo quattro ragazzi ma poi grazie alle telecamere si scoprì che non era vero nulla. Ma in attesa dell’accertamento della verità contro gli indagati si era scatenato l’inferno mediatico e l’allora vicepremier Luigi Di Maio, in un rigurgito di populismo giudiziario, si scagliò contro la decisione del Tribunale del Riesame di rimettere in libertà due dei tre ragazzi. A dispetto della solita accusa di essere «nemica delle donne», è giusto sottolineare che finché continueremo a credere che i processi servono a sconfiggere i fenomeni criminali, si chiamino essi corruzione, mafia o violenza di genere, e non soltanto a processare le condotte di singoli imputati, continueremo ad affidare impropriamente alla magistratura il compito di affrontare fenomeni di rilevanza sociale che invece spetta alla politica risolvere con tutte le cautele e le garanzie del caso e senza ricorrere a provvedimenti tanto demagogici quanto inutili. Oggi si torna a parlare addirittura di castrazione chimica. «Ci sono quelli che violentano donne e minori. Entrano in carcere, poi escono e riviolentano donne e minori. Ci dicono: “non riesco a frenare i miei impulsi”. Io non ho dubbi: se uno stupratore non riesce a tenere i propri impulsi vuol dire che ha bisogno di un aiuto e questo aiuto si chiama in un modo: castrazione chimica». Lo ha affermato la senatrice della Lega Giulia Bongiorno, dal palco di Pontida. «Non è una operazione chirurgica, non è una tortura – ha precisato – è applicata in molti Paesi europei, è un trattamento farmacologico che agisce sulla libido e con il vostro aiuto questa sarà la nostra prossima battaglia». Applausi dal pratone dei militanti del Carroccio. Marilisa D’Amico, ordinario di Diritto costituzionale e Giustizia costituzionale presso il Dipartimento di Diritto Pubblico Italiano e Sovranazionale della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Milano ha commentato al Dubbio: «Ciclicamente, in ragione della sempre attuale emergenza rappresentata dalle violenze contro la donna, il dibattito pubblico è chiamato a confrontarsi con il tema dell’effettività delle misure sanzionatorie previste nei confronti degli uomini maltrattanti e responsabili di abusi. In questo contesto, sembra trovare crescenti consensi l’idea di introdurre strumenti eccezionali – come la castrazione chimica – per neutralizzare la pericolosità di tutti questi soggetti e per proteggere le potenziali vittime». Si tratta di una pratica, «accettata e regolamentata con modalità differenti in alcuni Stati dell’Europa e del resto del mondo, che si pone in contrasto con alcuni principi sanciti nella nostra Costituzione: in primis, con il principio del finalismo rieducativo della pena che l’art. 27, comma 3, sancisce in termine solenni e sul quale, peraltro, la nostra Corte costituzionale sta basando molte delle sue più recenti decisioni in materia penale; la castrazione chimica, a ben vedere, presenta una sola finalità di tipo retributivo e, considerata l’invasività che essa necessariamente sottende, sembra ricordare quelle “pene corporali” diffuse in epoca medievale che il nostro sistema valoriale ha invece disconosciuto, anche grazie al contributo dei pensatori illuministi». Queste stesse considerazioni gettano, sulla castrazione chimica, «un’ombra di contrarietà alla Costituzione anche rispetto all’art. 32, parametro che tutela la salute come “fondamentale diritto” di ogni persona. Da parte di chi ne sostiene l’introduzione, si sottolinea il fatto che il ricorso ad essa sarebbe in ogni caso subordinato al consenso del condannato. Ciò, però, non costituisce un argomento decisivo perché se è vero che, nel sistema disegnato dalla Costituzione, ogni invasione nella sfera personale è condizionata dal consenso dell’interessato, è vero, allo stesso tempo, che anche i trattamenti imposti dalla legge per la protezione della salute pubblica non possono “violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. In gioco, insomma, quando si discute della castrazione chimica, sembra esserci una grande questione di fondo che chiama in causa la dignità di ciascuna persona, che deve essere riconosciuta e rispettata anche quando responsabile di gravi reati». Mi accingo alla conclusione, dicendo che spesso delle distorsioni mediatiche rispetto ai casi di violenza sessuali sono responsabili anche gli avvocati delle parti offese, che non si fanno scrupolo di rilevare dettagli e portare le loro assistite in televisione.  Ha ragione il professore avvocato Vittorio Manes che ha scritto nel suo ultimo libro “Giustizia mediatica – Gli effetti perversi sui diritti fondamentali e sul giusto processo” (Il Mulino): «quando l’avvocato si presta a questo gioco lo fa però a suo rischio e pericolo, perché difficilmente governerà le correnti di opinione che si agitano nel vortice mediatico, dove il passo dai Campi Elisi alle paludi dello Stige può essere davvero breve». Infine un’ultima citazione, su un’altra patologia di cui soffre il nostro sistema mediatico, politico e giudiziario: il vittimo-centrismo. Lo descrive bene Daniele Giglioli in “Critica della Vittima” (figure nottetempo): “La vittima è l’eroe del nostro tempo. Essere vittime dà prestigio, impone ascolto, promette e promuove riconoscimento, attiva un potente generatore di identità, diritto, autostima. Immunizza da ogni critica, garantisce innocenza al di là di ogni ragionevole dubbio. Come potrebbe la vittima essere colpevole, e anzi responsabile di qualcosa? Non ha fatto, le è stato fatto. Non agisce, patisce. Nella vittima si articolano mancanza e rivendicazione, debolezza e pretesa, desiderio di avere e desiderio di essere. Non siamo ciò che facciamo, ma ciò che abbiamo subito, ciò che possiamo perdere, ciò che ci hanno tolto. È tempo però di superare questo paradigma paralizzante, e ridisegnare i tracciati di una prassi, di un’azione del soggetto nel mondo: in credito di futuro, non di passato”. Grazie dell’attenzione.