Riflessioni su sostanze stupefacenti, libertà individuali e diritto penale attraverso la lente di ingrandimento di Lysander Spooner, filosofo libertario americano.

Mentre la prima ondata di liberalizzazioni tocca l’occidente, ripercorriamo le riflessioni di Lysander Spooner sul proibizionismo, per riscoprire la necessità di decriminalizzare il mercato della droga. Alcune settimane fa, il questore di Macerata ha disposto la chiusura dei rivenditori di cannabis sativa, meglio nota come “marijuana light” (priva di effetti stupefacenti). A supporto di quest’atto è intervenuto anche il vicepremier Salvini, con dichiarazioni che fanno pensare a una volontà non solo di comprimere la libertà d’impresa, ma anche e soprattutto di intraprendere una “guerra alla droga” in stile americano. Contemporaneamente, però, è proprio l’America del nord a dettare per l’occidente un’agenda opposta, di liberalizzazione e decriminalizzazione delle droghe leggere. Produzione, vendita e consumo di marijuana per scopo ricreativo sono legali in Canada e in 9 Stati degli USA (10 dal prossimo anno), e alcune città (Denver in Colorado e Oakland in California) hanno recentemente decriminalizzato il consumo di funghi allucinogeni. In molti casi, il cambio di rotta è avvenuto in nome del realismo politico-economico: tassare queste attività porta enormi introiti; la guerra alla droga costa sempre di più e riempie carceri e obitori; la legalizzazione toglie una fonte di guadagno alla criminalità organizzata; e così via. Nel caso di Denver, tuttavia, la campagna per il Sì alla decriminalizzazione della psilocibina non si è limitata a ciò, ma ha direttamente rivendicato gli effetti benefici delle droghe leggere.

Questo approccio, comune ad altre campagne di sensibilizzazione oltreoceano, è invece molto raro in Europa. Per introdurre questo inusuale punto di vista a un pubblico interessato ai temi giuspenalistici, può essere utile rileggere un’opera su questo tema piuttosto datata, ma di grande chiarezza espositiva: il pamphlet Vices are not crimes (“I vizi non sono crimini”), pubblicato nel 1875 dal filosofo e anarchico americano Lysander Spooner. Figura preminente del movimento abolizionista, Spooner fu un disobbediente civile e un intellettuale libero. Prolifico scrittore, ha lasciato un’abbondante produzione di saggi giuridici, concentrandosi soprattutto sull’intersezione tra diritto costituzionale e penale. In “Vices are not crimes”, in particolare, attacca gli argomenti portati dal movimento proibizionista, tornato in auge dopo la Guerra Civile, e che porterà all’effettiva criminalizzazione degli alcolici tra il 1920 e il 1933. Convinto sostenitore della libertà individuale e dell’impossibilità di ottenere la moralità attraverso la legge, in questo scritto Spooner si impegna in una rigorosa dimostrazione non solo dell’illiceità, ma anche e soprattutto dell’assurdità logica, di ogni legge che miri a criminalizzare i comportamenti ritenuti viziosi.

Il pamphlet comincia con un’importante distinzione terminologica: i crimini presuppongono il danno a un’altra persona o a un’altrui proprietà, mentre i vizi sono quei comportamenti con cui qualcuno danneggia sé stesso o una sua proprietà, senza che ne abbia detrimento nessun altro. E mentre è giusto vietare e punire i crimini così intesi, non è lecito fare lo stesso per i vizi, per una serie di motivi. Prima di tutto, è possibile che una condotta identica da parte di due agenti arrechi danno a uno e beneficio all’altro; o addirittura che lo stesso agente, a distanza di tempo, abbia una volta un danno e un’altra un beneficio. Ma se non è possibile determinare a priori l’effetto di un comportamento, allora non lo si può neanche vietare sulla base delle conseguenze presunte: fare ciò sarebbe infatti una violazione del naturale e inalienabile diritto umano a ricercare la propria felicità in ogni modo che non danneggia altri. Un chiaro esempio attuale di questo argomento è l’uso, sempre più diffuso negli Stati Uniti, delle droghe leggere come strumento terapeutico, come nel caso di numerosi malati terminali che ricorrono alla cannabis come coadiuvante nella terapia del dolore, traendone notevole beneficio. Un secondo argomento è il seguente: mentre i crimini sono puniti per difendere la libertà degli individui contro gli abusi di terzi, vietare i (supposti) vizi restringerebbe la libertà degli agenti di gestire la propria persona e proprietà come meglio credono, secondo il principio “volenti non fit iniuria”. Fissato il principio generale, Spooner tuttavia concede, con realismo, che l’autorità possa intervenire a difesa di coloro che, non essendo compos mentis, rischiano di infliggersi un danno inconsapevolmente. Come terzo e ultimo punto, l’autore osserva che, mentre i crimini vengono vietati e puniti allo scopo di difendere la libertà delle potenziali vittime, non è invece né desiderabile né possibile punire ogni vizio: se così fosse, infatti, tutti gli uomini dovrebbero essere condannati. D’altro canto, non è nemmeno ammissibile punire solo alcuni vizi ma non altri, in quanto l’autorità ricava il suo potere di vietare e punire dalla delega degli individui che lo compongono. Ma poiché i cittadini non possono in nessun caso avere il diritto di restringere la libertà personale di un terzo non consenziente, non possono neppure delegarlo all’autorità. Ora, in Italia come in numerosi altri paesi, il consumo di stupefacenti (il “vizio” in sé) non è punito, mentre vengono colpiti i comportamenti che “abilitano” al vizio. Ma anche a tal proposito, Spooner esclude che ciò sia legittimo. Se infatti non è possibile determinare a priori se un comportamento abbia un effetto positivo o negativo, se non è lecito comprimere la libertà individuale di un soggetto compos mentis, e se d’altronde nessuno (nemmeno un’autorità sovrana) può avere il diritto di bandire un comportamento che danneggia solo chi lo compie, allora è chiaro che non è giusto né ammissibile neppure che vengano puniti i comportamenti che rendono possibili i presunti vizi. Al contrario, dovranno essere puniti (essendo veri e propri crimini) solo quelle specifiche condotte che, deliberatamente o per negligenza grave, mettono in condizione di farsi del male una persona oggettivamente “a rischio” (come un non compos sui).

Per affrontare dal punto di vista penalistico i comportamenti ritenuti “viziosi” dalla società, Spooner propone dunque un framework teorico chiaramente libertario, che considera la criminalizzazione di queste condotte come qualcosa di non desiderabile, né efficace, né naturalisticamente giusto. Un approccio che merita di essere considerato seriamente nel prossimo futuro.