Il Profeta è il film capolavoro del regista parigino Jacques Audiard. La pellicola del 2009 ha vinto il Gran premio della giuria di Cannes, nove Cèsar ed è stato candidato all’Oscar come miglior film straniero. Il film è tratto dal soggetto di Abdel Raouf Dafri e Nicolas Peufaillit, e racconta la storia di Malik El Djebena, ragazzo franco-arabo che deve affrontare la sua prima esperienza in carcere. Dopo un inizio non facile da “servo”, Malik capirà come funzionano le regole del mondo criminale e si spianerà la strada per la scalata al potere, riuscendo a sovvertire le gerarchie fino a diventare un nuovo boss. Il carcere e il suo effetto criminogeno, la detenzione come scuola criminale, la violenza della pena in strutture fatiscenti e sovraffollate: questo lo sfondo del film che mostra, senza alcuna pietà, i fallimenti della pena intesa come luogo strumento di vendetta privo di un serio percorso di riabilitazione.

Carcere Centrale di Parigi. Malik El Djebena, giovane francese di origine araba, è condannato a sei anni di reclusione. Semianalfabeta, è cresciuto nella realtà dei riformatori, non ha una storia e neanche una famiglia. Dinanzi al carcere, capisce che per sopravvivere deve rispettare le regole di quel luogo, con le sue gerarchie e i suoi codici: deve far parte di un gruppo. Stare senza “protezione” in quella prigione equivale a morte certa. Il Centrale, infatti, è composto da vari clan di un’unica etnia in conflitto tra loro, come quello tra arabi e còrsi. A capo del clan più potente, quello còrso, il boss Cèsar Luciani: è lui che comanda la prigione e la maggior parte dei secondini corrotti. Luciani, vedendo “l’isolamento” di Malik, gli propone la sua protezione in cambio dell’omicidio di Reyeb, esponente del clan arabo. Le origini arabe di Malik non avrebbero indirizzato le colpe dell’omicidio sul clan còrso. Malik riuscirà a compiere la missione di morte e, da lì in poi, lavorerà come “servo arabo” per il clan, conquistando sempre più la fiducia di Luciani. È qui che imparerà come funziona l’organizzazione di quel mondo. Malik studia la lingua araba e il còrso. Non entra pienamente in alcun clan: gli arabi non lo accettano perché ha ucciso un “fratello” musulmano come Reyeb, i còrsi non lo accettano completamente in quanto francese e arabo. Nonostante ciò riuscirà a intessere alleanze personali come quella con il suo insegnante Ryad e con Jordi “lo zingaro”. Assieme a loro crea una rotta della droga tra Parigi e Marbella, e la sua capacità di adattarsi a tutto senza schierarsi con nessuno gli permette di acquisire un potere costante. Conquista così la fiducia di Luciani, compiendo per il boss lavori sempre più importanti.

La scalata al potere di Malik avrà, poi, una svolta definitiva attraverso due alleanze decisive: la prima, quando vola a Marsiglia per stringere accordi con il boss Brahim Lattrache per conto di Luciani e finisce lui per essere il nuovo socio di Lattrache. La seconda, invece, è con il boss di Luciani, Mercaggi, che lo stesso Luciani, sempre più isolato dal proprio clan, aveva chiesto a Malik di uccidere. Malik racconta a Mercaggi della congiura, scatenando una guerra dentro al clan còrso fino a determinare l’implosione dell’organizzazione. Il giovane ha ribaltato i ruoli di potere lasciando Luciani da solo. Uscito dal carcere, applicherà la “lezione di vita” che il carcere gli ha insegnato. Ben lontano dal ragazzo impaurito di sei anni prima, ora è un boss che ha creato una nuova organizzazione criminale. 

La pellicola affronta l’evoluzione mentale di Malik che da non saper leggere né scrivere diventa un boss affermato. Malik usa la propria intelligenza con un’evoluzione camaleontica che gli permette di adattarsi e sfruttare ogni occasione. I silenzi, l’apparente paura, l’atteggiamento introverso e insicuro sono la chiave del suo successo: grazie a questi apparenti difetti, diventa padrone del suo destino. A prima vista Malik sembra una persona innocua, molto distante dallo stereotipo di criminale che tutti hanno in mente; non ha un fisico possente, non è neppure dotato di particolare forza fisica e sembra più che altro il classico ragazzo che soccomberà in carcere. Ma non è così. La sua prima arma è la sua recettività: osserva la realtà che gli sta attorno, imparando costantemente qualcosa di nuovo da essa. Le sempre più gravi vicissitudini vengono affrontate con tenacia da Malik, che acquisisce sempre più consapevolezza. I sogni con il morto Reyeb rappresentano i suoi sensi di colpa, che però, scaricati nell’inconscio, non hanno spazio nella realtà. Queste visioni oniriche e altre scene simboliche presenti nel film confermano la bravura di Audiard, capace di mescolare stili diversi passando da un crudo realismo a un misticismo fantastico.   

Il Profeta è pura antropologia del carcere. Audiard ci fornisce quasi un documentario realista delle prigioni, con le gerarchie che vanno rispettate, i clan etnici chiusi che si fanno guerra tra di loro, le “alleanze” che un jeune garçon come Malik deve fare se vuole sopravvivere. La pellicola potrebbe essere interpretata attraverso le categorie di Van Gennep. La prima parte di questo rito è l’iniziazione al vero crimine, con il compito affidato a Malik da Luciani di uccidere il suo nemico arabo Reyeb. La fase liminale consiste nel lavoro per Luciani, senza però integrarsi nel clan corsoe neanche in quello arabo. Nella terza parte, il rito di passaggio viene concluso con il sovvertimento dei ruoli: da servo, Malik diventa padrone, spodestando Luciani e diventando definitivamente un boss. Dal punto di vista filosofico, Audiard ci dona un esempio visivo di filosofia hegeliana servo-padrone, senza limitarsi al capovolgimento dei ruoli ma fornendo un quadro del complesso sviluppo del rapporto tra Malik e il boss còrso.

Il carcere Centrale è una metafora della Francia odierna, in particolare una denuncia della situazione delle banlieue francesi. Come si è visto in Francia, dalle politiche di Sarkozy in poi, c’è stato un aumento della conflittualità e della violenza nei quartieri periferici, soppressa con la forza dai tutori dell’ordine. La tendenza è quella di creare uno Stato sempre più securitario, a scapito dello Stato di diritto, come ben testimoniato da libri come “La force de l’ordre” di Didier Fassin sulle banlieue. Audiard ci dice che tra le carceri e le periferie parigine non c’è differenza, l’amoralità del carcere Centrale è la stessa della società che Malik ha visto sin da piccolo. Le somiglianze non si limitano solo nelle barriere fisiche, ma sono anche quelle mentali delle persone che vivono in questi luoghi. E le barriere sono il principale motore dell’incomprensione e del conflitto tra le persone. Il regista segnala che in questi luoghi nasce e si diffonde “l’odio”, come già profetizzato nel famoso film di Kassovitz. Il carcere è il luogo in cui l’uomo può solo peggiorare. L’unica forma di “educazione” che può imparare è quella del mondo criminale. La sola possibilità di sopravvivenza consiste nel continuare a delinquere.  

“Uccidi o verrai ucciso”, questa è la regola di quel carcere, come in una giungla. Il regista in un’intervista a tal proposito afferma: “L’idea è quella di presentare queste persone nella condizione peggiore in cui un essere umano possa trovarsi, e poi di offrire loro una possibilità, l’occasione di costruirsi una personalità eroica. La storia di Il Profeta racconta come qualcuno riesca a raggiungere una posizione di potere che non avrebbe mai ottenuto se non fosse andato in prigione. E qui sta il paradosso”. La differenza tra il Tony Montana di DePalma e il Malik di Audiard non consiste solo nel diverso carattere e atteggiamento dei due: moderato e cauto il secondo, arrogante e borioso il primo. Vi è un’altra importante differenza: Malik non ha intrapreso, inizialmente, quel percorso perché il mondo divenisse suo, bensì per non soccombere, per sopravvivere. Lo sguardo di Audiard fonde il carcere e la società in una dimensione in cui l’uomo è costretto a una perenne naturalizzazione del male. La prigione paradossalmente offre a persone come Malik l’occasione di diventare ciò che più difficilmente sarebbe stato nel mondo esterno, offre più chance criminali invece che portare a un percorso di risocializzazione.