Articolo di Francesco d’Errico e Mario Arbotti

Martedì 21 Aprile è apparso sull’Espresso un articolo in cui si è data notizia, con toni allarmistici, della disposizione degli “arresti domiciliari in luogo della detenzione in carcere nei confronti del boss mafioso Francesco Bonura. Per essere più precisi dell’articolo, si tratta di un caso di rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena. A seguito della notizia, si è scatenato un vero e proprio assalto al Tribunale di sorveglianza di Milano da parte della politica e un’enorme confusione comunicativa. Il vero assente dal dibattito, tuttavia, è l’unico argomento di cui parlare: la dignità e il diritto alla salute del condannato, al di là del reato commesso.

1.Cosa è successo: il caso Bonura in breve

Francesco Bonura, uomo di fiducia di Bernardo Provenzano, è stato condannato in via definitiva per associazione mafiosa a 18 anni e 8 mesi e con fine pena prevista per marzo 2021. Il detenuto, che oggi conta ben 78 anni di età, è caratterizzato da un quadro clinico piuttosto grave: nel 2013 è stato operato per un cancro al colon e soffre attualmente di ipertensione arteriosa. Per questo, il Tribunale di Sorveglianza di Milano ha disposto il rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena, consentito dalla legge anche per i casi di grave infermità fisica e gravi motivi di salute-come quello in questione-, e infatti il Bonura, come prescrizione adottata nell’ambito di tale rinvio, si trova ristretto nella sua abitazione. Dunque, sono state effettuate dal tribunale tutte le valutazioni necessarie a considerare la sussistenza o meno della pericolosità del soggetto, tanto che è stata disposta tale misura: chi grida, impropriamente, al pericolo, non rende un buon servizio alla comunità e strumentalizza la vicenda.

Più nello specifico, come si legge nell’ordinanza, il Tribunale ha escluso il pericolo di fuga e disposto che  “in considerazione dell’età avanzata del soggetto e della presenza di importanti problematiche di salute, con particolare riguardo alle patologie di natura oncologica e cardiaca, vi siano nell’attualità i presupposti per il differimento facoltativo dell’esecuzione della pena”. Continua il Tribunale affermando che “anche tenuto conto dell’attuale emergenza sanitaria e del correlato rischio di contagio, indubitamente più elevato in un ambiente ad alta densità di popolazione come il carcere, che espone a conseguenze particolarmente gravi i soggetti anziani e affetti da serie patologie pregresse […] siffatta situazione facoltizza questo magistrato a provvedere con urgenza al differimento dell’esecuzione pena“. Oltretutto, per sgonfiare ogni ansia e paura ingiustificata, come richiesto dalla legge, “sono state preventivamente acquisite informazioni di polizia che garantiscono l’idoneità del domicilio, sottoposto ad assiduo controllo delle forze di polizia nel rispetto delle stringenti prescrizioni che impediscono qualsiasi uscita non autorizzata”. 

Risulta evidente che la scelta operata dal Tribunale si sia orientata a principi di umanità della pena e alla tutela del diritto alla salute, che, a maggior ragione, in un momento come questo, rischia di essere compresso in carcere- vista e considerata l’età e il quadro clinico del soggetto. A giustificare tale decisione vi è l’art.147 secondo comma del codice penale, in forza del quale “l’esecuzione di una pena può essere differita se una pena restrittiva della libertà personale deve essere eseguita contro chi si trova in condizioni di grave infermità fisica” e più in generale gli art.27 e 32 della nostra Costituzione.

Nell’articolo dell’Espresso, poi, si faceva riferimento ad un’altra serie di detenuti ristretti in regime di 41Bis che, per via delle loro patologie pregresse e della loro età,  potrebbero essere scarcerati per continuare a scontare la pena nella propria abitazione. Su questo punto, per quanto al lettore più avveduto possa sembrare ovvio, data la confusione generata dall’informazione a riguardo, è importante precisare che nessuno dei detenuti in 41Bis verrà rilasciato sulla base di improbabili automatismi imposti da chissà quali leggi, e per giunta senza una valutazione della loro pericolosità sociale: ci sarà una valutazione da parte della magistratura di sorveglianza che comprenderà tanto ragioni di natura oggettiva che di natura soggettiva, entro il margine di discrezionalità dettato dalle norme in materia e sulla base di un facoltativo approccio di flessibilità in merito alla concessione di “scarcerazione” secondo le indicazioni del Ministero, del Dap e dei singoli Tribunali di Sorveglianza per via dell’emergenza dettata dalla pandemia. Dunque, al di là dei toni allarmistici di certa stampa, è bene sottolineare che non ci sarà nessuna fuoriuscita ingiustificata di boss mafiosi per via del Corona Virus.

2. La vera riflessione: l’intangibilità della dignità individuale e il principio di umanità della pena.

Tuttavia, il vero tema su cui riflettere, al di là dei doverosi chiarimenti precedenti, non è se sia accettabile che un individuo di quell’età, e peraltro in tali condizioni di salute, sia uscito dal carcere, bensì se sia accettabile, in una democrazia liberale, che egli vi possa rimanere dentro, oltretutto in regime di carcere duro ex 41 bis- di cui non esponiamo i possibili profili di incostituzionalità per ragioni di spazio e opportunità (speriamo di poter tornare presto in argomento qui su Extrema Ratio). Il fatto che Bonura abbia commesso in passato reati connotati da un elevato grado di disvalore e di una indiscutibile gravità, non è un valido motivo per giustificare un’esecuzione della pena che violi la sua dignità personale e che non tuteli fino in fondo il suo diritto alla salute.

Sostenere questo, significa fare riferimento ad una distorsione soggettiva della cultura delle garanzie, le quali dovrebbero essere ibernate in relazione a particolari tipologie di autori di reato, come i condannati per reati di criminalità organizzata di stampo mafioso. La particolare pericolosità sociale di quest’ultimi e l’indefettibile persistenza dei legami con il sodalizio criminale – presunta in base a regole di esperienza sufficientemente attendibili -, secondo questa visione, sarebbero tali da giustificare l’inibizione anche dei più basilari diritti costituzionalmente riconosciuti,  in ragione della necessità di difendere la società dalla loro ontologica tensione delinquenziale. Posto che è evidente come la condanna per reati di tal fatta giustifichi, oltre ad una risposta sanzionatoria significativamente afflittiva,  anche una maggiore scrupolosità quanto alla valutazione giurisdizionale sulla persistenza della pericolosità sociale, nessun crimine può legittimare una sospensione perpetua di quei diritti fondamentali che concorrono a definire quello statuto di dignità che è proprio di ogni essere umano. Tra questi diritti vi è sicuramente il diritto alla salute, riconosciuto e garantito dall’art. 32 della nostra Costituzione. Come ci ricorda Gaetano Silvestri, presidente emerito della Corte Costituzionale <<La dignità coincide con l’essenza stessa della persona, non si acquista per meriti e non si perde per demeriti, non è un “premio per i buoni” e quindi non può essere tolta ai “cattivi”>>.  Non esiste crimine efferato che possa legittimare la creazione ordinamentale di “vite di scarto”, che possa relegare l’individuo colpevole in una dimensione di minorità esistenziale, che possa considerarlo un qualcosa di ontologicamente distinto dal consorzio umano. 

Il diritto alla salute è intimamente connesso al diritto alla vita che non solo trova riconoscimento nell’ambito di quel sostrato assiologico che informa la nostra Carta Costituzionale, ma prima ancora – e a un livello più alto – è condizione necessaria per partecipare alla comunione dell’esistenza. A meno che non si voglia sostenere che la condanna per reati particolarmente esecrabili sia tale da legittimare la perdita di quello “statuto ineffabile” che definisce, di fatto, il nostro essere uomini. Non si corre il rischio di incappare nella fallacia del pendio scivoloso se si afferma che una logica di questo tipo è alla base di pene drammaticamente in contrasto con il più elementare senso di umanità, su tutte la pena capitale. Se la Costituzione non è una vetrinetta nella quale i valori sono soltanto esposti in bella vista, se i diritti fondamentali, ivi suggellati, non sono orpelli dei quali ammantarsi alla bisogna, ma sono fondamenta strutturali della nostra società, allora il contenuto precettivo degli articoli 32 e 27.3 Cost. va preso sul serio e fatto oggetto di un riconoscimento ubiquitario, senza eccezioni di sorta. Involuzioni valoriali di questo tipo, prima che culturali e giuridiche, non solo minano le basi l’esistenza stessa di uno Stato di diritto – che, se tale, non può tollerare deroghe ai suoi contenuti minimi ed essenziali – ma arrivano a sdoganare l’assurdo per cui l’esistenza di certi uomini è talmente greve da assomigliare ad un peso del quale occorre liberarsi il più velocemente possibile, potendo perfino negare quel diritto basilare alla salute che definisce inequivocabilmente la dignità di ogni uomo, anche del peggiore dei criminali.

3. In conclusione: le scomposte reazioni della politica, l’importanza dell’autonomia della magistratura e l’assalto quotidiano alla giurisdizione.

In conclusione, la politica, come troppo spesso accade quando si tratta di diritto penale e ancor più di mafia, ha reagito alla notizia in maniera scomposta, adottando uno atteggiamento pretestuoso, strumentale quando non grave e al limite della serietà istituzionale. Matteo Salvini ha tuonato via social chiedendo conto al Governo di tale avvenimento, accusandolo di favorire la fuoruscita di pericolosi mafiosi dalle carceri. Il Movimento 5 Stelle, quasi fosse una colpa quella di garantire la dignità umana nell’esecuzione della pena, per rispondere al leader della Lega, ha tenuto a precisare, tramite il Ministro Bonafede, l’assenza di un nesso tra il Decreto Cura Italia e le scarcerazione di detenuti al 41 bis. Il Partito Democratico, addirittura, forse spinto da spirito di competizione nei confronti dell’alleato di governo, ha convocato la Commissione Antimafia per verificare la correttezza dell’operato dei magistrati di sorveglianza, in quanto “doveroso nei confronti delle vittime di mafia”. In queste tre notizie vi è tutta l’inopportunità di una classe politica che, lungi dall’intendere i principi dello Stato di Diritto come un riferimento fondamentale per orientare la loro attività, ne fa strame per ragioni di marketing elettorale, dando vita a quel fenomeno, ormai consolidato, del populismo penale. Di più, anche nell’ambito di un corretto svolgimento dei rapporti tra i diversi poteri dello Stato, quelle sopracitate appaiono come affermazioni e pressioni del tutto fuori luogo e si sostanziano in un vero e proprio assalto alla giurisdizione.

Un assalto puntuale, che avviene ogni volta in cui le decisioni dell’organo giudicante non sono in linea con le aspettative punitive della società. Sia che si tratti di condanne ritenute troppo lievi rispetto al reato commesso,  sia che si tratti di una patologica e malriposta concezione dell’assoluzione come sinonimo dell’impunità, i casi si sprecano. E le proteste dei comitati di turno o del pubblico fuori e dentro alle aule di giustizia sono sempre più frequenti e aggressive: è sufficiente seguire la cronaca per rendersene conto. I giudici, sono sempre più oggetto di una malsana e inopportuna pressione, in un contesto dove prevalgono e spadroneggiano le sole tesi dell’accusa; uno spazio di vera e propria giustizia parallela che, agli occhi di una società sempre più avversa al concetto di elités e alle istituzioni, appare “più vera” e “più giusta” di quella stabilita della giurisdizione stessa. Quest’ultima, come non mai, rischia di perdere il suo senso e il suo ruolo.