Con l’approvazione da parte del Senato, il disegno di legge di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere dell’ormai ex governo giallo-verde è diventato legge poco più di un mese fa. Diverse le novità apportate: si passa dalla previsione di una corsia preferenziale per lo svolgimento delle indagini, che saranno più rapide, all’introduzione di particolari fattispecie di reato quali: revenge porn, sfregi al viso, matrimoni forzati. 

Nello specifico, il provvedimento stabilisce che la polizia giudiziaria dovrà comunicare al pm le notizie di reato relative a maltrattamenti, stalking, violenza sessuale e lesioni aggravate compiute all’interno del nucleo familiare o tra conviventi; la vittima dovrà essere ascoltata dal magistrato entro massimo tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato. E’ bene sottolineare l’introduzione di pene più severe per i reati commessi in contesti familiari o nell’ambito di rapporti di convivenza, in particolar modo sono state aumentate le pene per chi commette stalking o violenza sessuale.
Nel primo caso la pena detentiva passa dall’attuale cornice edittale (6 mesi nel minimo/5 anni nel massimo) al minimo di 1 anno e al massimo di 6 anni e 6 mese; mentre nel secondo, le pene passano dalla forbice 6/12 anni, al minimo di 5 anni e al massimo di 10.
Inoltre, nel caso di atti sessuali con minori di 14 anni ai quali è stato consegnato o anche solo promesso, denaro o altra utilità, la violenza diventa aggravata.

E’ evidente come la legge trascuri qualsivoglia forma di prevenzione del reato, specialmente dal punto di vista culturale e sociale. Si riscontra una proliferazione di fattispecie volte a contrastare tali fenomeni a valle, senza predisporre alcun rimedio preventivo a monte. Al fine di arginare tali problematiche la soluzione deve essere tale da radicarsi nelle viscere culturali della società: in parole povere occorre investire. Nei centri antiviolenza, innanzitutto, potenziati per dare sicurezza immediata alle donne che escono da relazioni di abuso; nella formazione delle Forze dell’Ordine, che è resa obbligatoria ma non finanziata. Occorre inoltre l’introduzione del discorso sui ruoli di genere fin dalla più tenera età.
Una reale prevenzione del fenomeno non può prescindere, quindi, da un’impostazione preventiva di natura educativa. Prospettato in tal modo, il ‘Codice Rosso’ altro non è che un ‘palliativo’, una riforma penal-populista a costo zero disposta al fine di poter sbandierare una pretesa sensibilità al fenomeno criminale. Di concreto c’è ben poco. L’incidenza pratica che si ricerca con la riforma, inoltre, di certo non è data dall’inasprimento delle pene. Sulla supposta relazione tra inasprimento delle pene e significativa diminuzione dei reati è da tempo noto che non ci sono nessi eziologici evidenti né a livello statistico, né empirico. La gravità della sanzione non assicura un effetto di deterrenza, sicché appare criticabile la tendenza del legislatore a inasprire continuamente le pene detentive. I reati dipendono da una serie di variabili relativamente indipendenti dalla pesantezza della pena. E la durezza incide molto meno di quanto si creda sulla prevenzione del reato.

Al fine di suffragare tale tesi vi sono numerosi studi svolti in Italia, in alcuni Paesi europei e negli Stati Uniti i quali portano alla conclusione che risultano più efficaci e durature, ai fini della riduzione della criminalità diffusa nei quartieri, misure quali l’aumento dell’illuminazione stradale o la cura dell’arredo urbano, piuttosto che l’aumento della presenza delle forze dell’ordine o l’inasprimento delle pene detentive. Non basta, cioè, punire e farlo gravemente se l’obiettivo è quello di ridurre la genesi dei fenomeni criminali, ma occorre investire, economicamente e culturalmente, affinché siano marginalizzati i contesti di violenza e prevenute, per il tramite educativo, le manifestazioni del fenomeno.