Pubblichiamo di seguito una riflessione sul cd. Ddl Zan “misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità”. Lo scritto è stato pubblicato in data 10 aprile 2021 sulla pagina Facebook dell’associazione e riportato in seguito sul sito web.

Il ddl Zan e la convinzione (sbagliata) di poter combattere ogni ingiustizia e ogni male sociale con il diritto penaleSi sta discutendo molto in questi giorni del cosiddetto ddl Zan, cioè della proposta di legge recante “misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità”. Approvato dalla Camera dei deputati il 4 novembre 2020, il suo iter si è attualmente “bloccato” per via dell’ostruzionismo della Lega in Commissione giustizia al Senato. La discussione, infatti, è stata nuovamente rimandata perché il presidente della Commissione, il senatore leghista Andrea Ostellari, ha proposto di accorpare i ddl che hanno il medesimo oggetto (ex art. 51 del regolamento del Senato) e di inviare tutto alla presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati per il passaggio in sede referente. Ecco la nostra opinione a riguardo.

1. Il ddl Zan: una parte opportuna e necessaria di politiche attive, una inopportuna e controproducente di natura penaleLa strumentalizzazione politica non aiuta mai una discussione razionale sul diritto penale. Per questo, abbiamo ritenuto importante intervenire sul tanto discusso ddl Zan, da mesi nel mirino di diverse polemiche, alcune del tutto prive di fondamento, altre invece più ragionevoli e condivisibili, illustrando le ragioni per cui riteniamo che sia necessario affrontarlo osservandolo da una duplice prospettiva: una parte necessaria di politiche attive, una parte non condivisibile di natura penale.Il disegno di legge recante “Misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità”, a tutti noto come ddl Zan, infatti, si potrebbe suddividere in due parti. Una, che noi riteniamo assolutamente meritoria e necessaria, composta da una serie di proposte di sensibilizzazione, monitoraggio e di prevenzione che comportano anche il ruolo attivo delle amministrazioni locali e della Scuola (tra cui l’Istituzione della Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia, l’elaborazione con cadenza triennale da parte dell’UNAR di una strategia nazionale per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni per motivi legati all’orientamento sessuale e all’identità di genere, la rilevazione statistica a cadenza triennale da parte dell’ISTAT per misurare anche le opinioni, le discriminazioni e la violenza subite e le caratteristiche dei soggetti più esposti al rischio). L’altra, quella più discussa e che noi riteniamo inopportuna, volta sostanzialmente ad un ampliamento della legge Mancino mediante un emendamento dell’art. 604 bis del codice penale (Propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa) e all’art. 604 ter dello stesso codice (Circostanza aggravante).

2. Procediamo per gradi. Quali modifiche verrebbero apportate sugli artt. 604 bis e 604 ter del codice penale?In caso di approvazione di questa parte relativa al penale che noi contestiamo, verrebbe punito con la reclusione fino ad un anno e sei mesi o con la multa fino a 6.000 euro non più solo chi “chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”, ma anche chi lo fa per motivi “fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità”. Ancora, si punirebbe con la reclusione da sei mesi a quattro anni anche chi, oltre a “istiga[re] a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi” lo fa “motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità”. Inoltre, al secondo comma, primo periodo, dell’art. 604 bis c.p. che prevede il divieto di “ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: “oppure fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità”. Si ricordi che “chi partecipa a tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi, o presta assistenza alla loro attività, è punito, per il solo fatto della partecipazione o dell’assistenza, con la reclusione da sei mesi a quattro anni. Coloro che promuovono o dirigono tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da uno a sei anni”. Infine, all’art. 604 ter che consiste in una circostanza aggravante “per i reati punibili con pena diversa da quella dell’ergastolo commessi per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso”, si aggiungerebbe dopo le parole “o religioso”, le parole “oppure per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità”.

3. Perché, quindi, non condividiamo la proposta? Il diritto penale è una risorsa scarsa; le risorse da attivare, per un serio cambio di prospettiva, sono di tipo educativo, formativo, culturale e sociale.La proposta, seppur ispirata da condivisibili ragioni di tutela della comunità LGBTQI+, è viziata dall’ormai radicata convinzione che si possa trovare il rimedio a ogni ingiustizia e a ogni male sociale attraverso strumenti di tipo penale. La stessa architettura su cui la proposta penale del ddl in questione poggia, quella della legge Mancino, infatti, è caratterizzata da ragioni di natura puramente simbolica, si direbbe di marketing elettorale, che mal si conciliano con il ruolo residuale e di extrema ratio che dovrebbe caratterizzare il diritto penale nel nostro ordinamento. La nostra critica, dunque, si muove nel solco di una più ampia e generale critica nei confronti della legge Mancino, incapace, come ha dimostrato l’esperienza, di raggiungere i fini che si è posta, oltreché gravata da un chiaro vizio in termini di tassatività, offensività e di materialità.Come ha scritto il Professor Sergio Moccia nel suo notissimo saggio “La perenne emergenza. Tendenze autoritarie nel sistema penale”, le misure di cui al decreto legge 26 aprile 1993 n. 122, convertito con modifiche dalla legge 25 giugno 1993 n. 205, “ampliano la portata di figure di reato già esistenti e che, comunque, non sono servite in alcun modo ad arginare il fenomeno. Infatti, la normativa emessa sull’onda delle emozioni derivanti da intollerabili episodi di discriminazione razziale, concretizzatisi in gravi fatti di reato, può ben a ragione essere considerata un’altra tipica espressione di quella legislazione simbolica, che riesce a combinare, in maniera esemplare quanto deprecabile, i difetti dell’insipienza sul piano tecnico, della discutibilità sul piano dei principi e dell’ineffettività sul piano dei risultati”. Infatti, “quando gli episodi di incivile razzismo rappresentano fatti offensivi di beni giuridici, rispondono egregiamente allo scopo le affidabili fattispecie tradizionali di reato, poste a tutela dei singoli beni in questione, come la vita, l’incolumità personale, l’onore, il patrimonio e così via”.Stessa cosa si può dire per il ddl Zan che, d’altronde, altro non è che un’estensione della legge in questione. Tra l’altro, scrive sempre Moccia, “l’aspetto caratterizzante della normativa è dato, a nostro avviso, dalla previsione di diverse fattispecie di opinione che vanno ad arricchire il patrimonio, già cospicuo, lasciatoci in eredità dal legislatore fascista: esse, lungi dal poter risolvere i problemi, se realmente le si volesse applicare, rischiano di rafforzare il fenomeno. E’, infatti, puramente illusorio, se non mistificatorio, pensare di poter combattere fenomeni di barbarie, culturale e non, con fattispecie di opinione. Anzi, la conseguenziale punizione a campione […] finisce per vittimizzare l’autore e, quindi, per fungere da fattore di possibile aggregazione di consensi intorno al fenomeno che si intendeva combattere, raggiungendo, in tal modo, l’effetto opposto a quello sperato”. E conclude: “La risposta, in termini di effettività, tesa a superare un fenomeno etico, politico, culturale, connotato da forte inciviltà, si ottiene solo rimuovendone le cause socio-individuali, attraverso un impegno più profondo e complesso di quello che può consentire il diritto penale: un atteggiamento di mera repressione esprime soltanto i disvalori dell’inefficienza e della caduta delle garanzie”. Alla luce dei fatti, come dare torto all’autore, che già allora riteneva il delitto d’opinione un evergreen repressivo?

4. Sulla circostanza aggravante. Anche per quanto riguarda l’opportunità di prevedere una nuova circostanza aggravante, possiamo rispondere con il passo sopracitato: “Può risultare non in dissonanza con i compiti che un diritto penale razionale ed efficiente può legittimamente assumere, la previsione di una circostanza aggravante […]. Siamo tuttavia dell’opinione, secondo cui in un’ottica di razionalizzazione del diritto penale, che passa anche attraverso una riflessione complessiva sul disvalore dei singoli fatti di reato e sull’entità delle sanzioni previste, si può rinunciare senz’altro al macchinoso sistema delle circostanze, per affidare a ragionevoli limiti edittali, previsti per ogni singola fattispecie, l’ambito entro cui tenere, proficuamente, conto dei diversi indici di commisurazione ai fini dell’inflizione della pena in concreto”. Si aggiunga, tra l’altro, che la normativa vigente, prevede già l’aggravante dei futili motivi, aspetto che, a maggior ragione, rende superflua la configurazione di un’aggravante specifica, la cui introduzione, evidentemente, non sia ispirata esclusivamente ad opzioni di strumentalizzazione in chiave elettorale del diritto penale.

5. Una breve riflessione sulla “clausola di esclusione” sulla libertà d’espressione. All’art. 4 (Pluralismo delle idee e libertà delle scelte), il disegno di legge, come ha scritto sul Riformista David Romoli, “assicura poi la piena libertà di esprimere opinioni ‘purché non idonee’ a determinare il pericolo [concreto] di conseguenti atti violenti. Formula, difficile negarlo, a maglie tanto larghe da rendere arduo determinare una casistica tanto precisa da escludere il reato d’opinione. Del resto la ratio delle leggi moltiplicatesi nell’ultimo decennio è proprio quella di ‘rieducare’ a colpi di divieti e sanzioni, di intervenire sulle mentalità prima e più che non sugli atti. Con una missione non confessata ma neppure troppo nascosta simile: tracciare un confine preciso che metta al riparo dal reato d’opinione è semplicemente impossibile”. Inoltre, questa clausola di esclusione della punibilità appare come una sorta di excusatio non petita del legislatore, che probabilmente avverte il pericolo che l’incriminazione possa svolgere un effetto di sovraestensione rispetto a condotte non solo penalmente irrilevanti, ma addirittura capaci di colpire l’esercizio di un diritto costituzionalmente garantito, rischiando così di incorrere nel cosiddetto “chilling effect”, e cioè nell’effetto dissuasivo che potrebbe impedire l’esercizio di un proprio diritto nel timore che da ciò possa scaturire una sanzione.

6. Considerazioni conclusive. Proprio perché consapevoli del lungo cammino che deve essere percorso nel nostro Paese per contrastare l’odioso fenomeno della discriminazione nei confronti delle persone appartenenti alla comunità LGBTQI+ e, più in generale, per superare una cultura ancora purtroppo intrisa di pregiudizi e di avversione nei confronti della libertà sessuale, non crediamo che sia il diritto penale lo strumento adeguato a cui affidare il complesso e articolato compito di sensibilizzazione utile per ottenere una solida e condivisa svolta sul tema. Altre le risorse ed altri i luoghi in cui battagliare. Non le sanzioni e le manette, ma la cultura e l’istruzione. Non le aule di tribunale e le carceri, bensì le scuole, le università, i centri culturali e di aggregazione. Se è vero, infatti, che con il diritto penale si otterrebbe una rapida e apparentemente efficace risposta, è altrettanto vero che l’unico cambiamento che permane nel tempo è quello culturale. Nessun reato cambierà una convinzione sociale ancora troppo diffusa – anche e soprattutto quando viziata da odiosi e arcaici pregiudizi – se essa è ancora radicata nel sentire dei consociati. Non siamo in grado, per le competenze che abbiamo, di indicare nello specifico il percorso da intraprendere. Per queste proposte, infatti, sarebbe necessario un ampio e ponderato dibattito parlamentare, in grado di coinvolgere le diverse professionalità e competenze, nell’ottica di strutturare un efficace percorso capace di contrastare con mezzi e strumenti alternativi al diritto penale i fenomeni che la proposta di legge intende punire. Ci limitiamo, quindi, in conclusione, a segnalare l’assoluta inadeguatezza dello strumento penale per i fini proposti e ad accogliere con grande interesse tutta la parte di politiche attive dell’iniziativa legislativa in questione.