L’interdizione dai pubblici uffici è prevista come pena accessoria dagli articoli 28 e 29 del codice penale. L’interdizione – perpetua o temporanea – priva colui che ne è soggetto dell’elettorato attivo e passivo: questi perde il diritto di voto e di eleggibilità in qualsiasi comizio elettorale, così come perde ogni altro diritto politico. In questo articolo s’intende affrontare la limitazione del diritto di voto e la conseguente impossibilità di partecipare alla vita politica della Repubblica per il condannato, con un focus sui soggetti che scontano la pena in carcere. Ad un approccio legislativo e giurisprudenziale seguiranno le riflessioni delle quattro mani che scrivono. 

1. I modelli

Con l’espressione “felony disenfranchisement” si intende la perdita del diritto di voto come conseguenza della condanna penale[1]. Nel contesto internazionale, i modelli adottati sono diversi: ad esempio, tra gli Stati aderenti al Consiglio d’Europa, alcuni[2] non prevedono mai limitazioni all’esercizio di voto a seguito della condanna penale; altri paesi invece, come Regno Unito[3] e Ungheria, impongono un divieto assoluto di voto per chiunque subisca una condanna detentiva, indiscriminatamente dal tipo di reato. A queste due ipotesi, estreme ed opposte fra loro, si aggiungono delle “soluzioni intermedie”: la sospensione del diritto di voto può essere discrezionalmente prevista dal giudice a seguito di un apprezzamento della gravità del reato nel caso concreto, ovvero il legislatore si può riservare la facoltà di individuare i criteri a cui automaticamente consegue l’interdizione. Quest’ultima è la c.d. esclusione selettiva astratta, che può riferirsi o alla particolare tipologia del reato o all’ammontare della pena. Qualora la scelta sia affidata esclusivamente al legislatore, il giudice mantiene comunque un ruolo limitato ed indiretto: può influire ex ante nella determinazione della pena principale, ovvero ex post nell’esame circa la sussistenza delle condizioni per la riabilitazione[4].

2. La disciplina italiana

Nel nostro ordinamento, l’art. 48 Cost. riconosce il diritto all’elettorato attivo e ne prevede i limiti nell’incapacità civile, per effetto di sentenza penale irrevocabile e nei casi di indegnità morale indicati dalla legge. Per ciò che riguarda la seconda categoria, è il codice penale a regolare in maniera più analitica la disciplina. L’interdizione dai pubblici uffici, da cui deriva la privazione dell’elettorato e dell’eleggibilità (ex art. 28, secondo comma, n. 1, cod. pen.), può essere permanente o temporanea: è permanente in caso di condanna all’ergastolo o a una pena detentiva superiore ai 5 anni; consegue di diritto, per la durata di cinque anni, alla condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a tre anni; può inoltre essere comminata, indipendentemente dal quantum della pena, per specifici delitti individuati da disposizioni di parte speciale, tra i quali rilevano i crimini contro la pubblica amministrazione e contro l’amministrazione dello Stato. Comporta interdizione perpetua (ex art. 29, ultimo comma, cod. pen.) la dichiarazione di abitualità o di professionalità nel delitto, ovvero di tendenza a delinquere. L’interdizione, in quanto pena accessoria, può estinguersi con la riabilitazione, concessa quando «siano trascorsi almeno tre anni dal giorno in cui la pena principale sia stata eseguita o siasi in altro modo estinta, e il condannato abbia dato prove effettive e costanti di buona condotta» (art. 178 cod. pen.). All’ultimo comma, l’art. 179 cod. pen., così come modificato dalla c.d. legge spazza-corrotti[5], sancisce che «la riabilitazione concessa a norma dei commi precedenti non produce effetti sulle pene accessorie perpetue. Decorso un termine non inferiore a sette anni dalla riabilitazione, la pena accessoria perpetua è dichiarata estinta, quando il condannato abbia dato prove effettive e costanti di buona condotta».

3. L’esercizio del diritto

Alla disciplina legata alla titolarità del diritto – quando questa è presente – vanno necessariamente affiancate le modalità del suo esercizio. La procedura per votare è infatti estremamente tortuosa. Gli artt. 8 e 9 della L. 23 aprile 1976, n. 136, prevedono la costituzione di un seggio elettorale speciale nel luogo di detenzione. È previsto un onere importante per i detenuti che intendono votare: questi, con il tramite dell’Ufficio Matricola del carcere, non oltre il terzo giorno antecedente alla data della votazione, devono far pervenire una dichiarazione attestante la propria volontà al sindaco del comune nelle cui liste elettorali sono iscritti. La dichiarazione, che deve espressamente indicare il numero della sezione alla quale l’elettore è assegnato, deve recare in calce l’attestazione del direttore dell’istituto comprovante la detenzione dell’elettore, ed è inoltrata al comune di destinazione per il tramite del direttore stesso. Il sindaco, appena ricevuta la dichiarazione, provvede ad includere i nomi dei richiedenti in appositi elenchi distinti per sezione; gli elenchi sono consegnati, all’atto della costituzione del seggio, al presidente di ciascuna sezione, il quale subito prende nota sulla lista elettorale sezionale; di seguito, il sindaco procede immediatamente al rilascio dell’attestazione di avvenuta inclusione negli elenchi. Questa procedura elettorale si avvia al momento della pubblicazione di una circolare sull’esercizio del diritto di voto dei detenuti elettori che il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria invia ai vari provveditori regionali, i quali provvedono a inviarla alla direzione dei diversi istituti che, a loro volta, curano la loro affissione nelle bacheche.

4. I numeri

La complessità di questa procedura spiega la bassissima affluenza alle consultazioni negli ultimi anni. Nel 2014[6], alle consultazioni europee, hanno votato 1.236 detenuti su una popolazione complessiva di 58.092 ristretti, circa 24.000 dei quali esercenti ancora l’elettorato attivo. La partecipazione si aggira quindi intorno al 5,5% degli aventi diritto, quando nel resto del Paese questa è stata del 66,43% e nell’Unione Europea del 42,54%. Alle elezioni politiche del 24 e 25 febbraio 2013, i detenuti votanti furono 3.426, a fronte di una popolazione ristretta di quasi 66.000 unità e di circa 30.000 esercitanti il diritto di voto. È stato quindi l’11% degli aventi diritto a partecipare alla consultazione, mentre sul territorio nazionale l’affluenza della popolazione libera è stata del 75,2%[7].  

5. La giurisprudenza della Corte EDU

La limitazione del diritto di voto in conseguenza della sottoposizione a condanna penale definitiva costituisce un’ipotesi di compressione dei diritti politici diffusa in numerosi Stati nel mondo. A causa della sua natura, una sanzione accessoria siffatta determina conseguenze sia per il diritto individuale in quanto tale, sia per i valori democratici che dipendono dall’esercizio di tale diritto. Pertanto, in alcuni ordinamenti, le disposizioni che prevedono questa tipologia di restrizione sono state sottoposte allo scrutinio di legittimità costituzionale. A livello internazionale, il tema è stato affrontato in modo peculiare dagli organi giurisdizionali di Canada e Sudafrica. Per quanto riguarda lo Stato nord-americano, la Corte Suprema ha dichiarato illegittima la disciplina che privava del diritto di voto i condannati ad una pena detentiva di due o più anni, perché quest’ultimo è fondamentale per la democrazia e, inoltre, perché la misura non è proporzionata rispetto alle giustificazioni poste a base della sua previsione, tra le quali il legislatore aveva indicato l’accrescimento del senso civico e del rispetto dello Stato di diritto (sentenza Sauvé  n. 2 contro Procuratore Generale del Canada del 2002). Invece, per quanto riguarda lo Stato africano, la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima la disciplina che privava del diritto di elettorato i condannati ad una pena detentiva senza possibilità di beneficiare della sospensione condizionale, in quanto applicabile indistintamente a prescindere dalla concreta gravità del reato commesso (sentenza Minister of Home Affairs contro National Institute for Crime Prevention and the Reintegration of Offenders del 2004). Diversamente, nei paesi appartenenti al Consiglio d’Europa, alcune discipline nazionali – al fine di verificarne la conformità convenzionale – sono state sottoposte allo scrutinio della Corte EDU, in relazione alla dedotta violazione dell’articolo 3 del Protocollo n. 1 alla Convenzione EDU, che statuisce: «Le Alte Parti Contraenti si impegnano ad organizzare, ad intervalli ragionevoli, libere elezioni a scrutinio segreto, in condizioni tali da assicurare la libera espressione dell’opinione del popolo sulla scelta del corpo legislativo». Segnatamente, la disciplina italiana è stata portata all’attenzione della Corte di Strasburgo per il tramite di un ricorso presentato da Franco Scoppola, la cui vicenda giudiziaria è nota in conseguenza di un’altra decisione della Corte che ha riconosciuto la retroattività della lex mitior in materia penale (sentenza Scoppola n. 2 contro Italia). In prima battuta, la Corte EDU, in composizione camerale, ha ritenuto all’unanimità che la normativa italiana violasse il parametro prospettato nel ricorso; tuttavia, il Governo italiano ha proposto – e ottenuto – il rinvio della questione alla Grande Camera (supremo consesso della Corte), la quale ha ribaltato l’esito precedente quasi all’unanimità (16 voti contro 1); da quest’ultima decisione (sentenza Scoppola n. 3 contro Italia) prendono le mosse le nostre riflessioni.
La Corte EDU ha ritenuto che il diritto di voto, sia nella sua forma attiva (diritto di partecipare alla votazione) sia nella sua forma passiva (diritto di partecipare ad una competizione elettorale), costituisce un elemento fondamentale «per gettare e consolidare le fondamenta di una vera e propria democrazia retta dallo Stato di diritto» (§ 82). Ciò nonostante, tale diritto non è assoluto perché ogni Stato ha la possibilità di individuare limiti[8] alla sua estensione, correlati alla «visione della democrazia» (§ 83) propria di ogni Paese contraente. Conseguentemente, alla Corte rimaneva il compito di valutare la legittimità delle limitazioni attraverso lo strumento del giudizio di proporzionalità. In particolare, i giudici di Strasburgo dovevano accertare che le restrizioni «non riduc[essero] i diritti in questione al punto di intaccarli nella loro stessa sostanza e di privarli della loro effettività» (§ 84), il che è possibile soltanto nel caso in cui le stesse «perseguano uno scopo legittimo» (§ 84) mediante strumenti proporzionati allo scopo prefisso. Nel caso specifico, la Corte EDU ha affermato che la perdita del diritto di voto quale sanzione accessoria di una condanna penale persegue plurimi scopi legittimi, tra cui vanno segnalati «la prevenzione dei reati» (§ 90) e il «buon funzionamento e [il] mantenimento della democrazia» (§ 91). La ritenuta insussistenza di alcuna violazione di questo primo gradino del giudizio di bilanciamento ha condotto la Corte a vagliare la ragionevolezza teleologica della disciplina, ovverosia la proporzionalità dei mezzi rispetto ai fini. È necessario premettere, quale punto di partenza del ragionamento giuridico, che in una precedente pronuncia (sentenza Hirst n. 2 contro Regno Unito) la Corte aveva espresso il principio secondo il quale violano il suddetto articolo 3 le normative nazionali «che colpisc[ono] automaticamente un gruppo indifferenziato di persone, sulla sola base della detenzione di queste e indipendentemente dalla durata della pena loro irrogata, dalla natura o gravità del reato commesso e dalla situazione personale delle stesse». Al contrario, la Corte ha ritenuto la disciplina italiana conforme al requisito di proporzionalità in quanto «il legislatore si è premurato di modulare l’impiego di tale misura in funzione delle particolarità di ogni causa, tenendo conto in particolare della gravità del reato commesso [artt. 29 e 133 cod. pen., N.d.A.] e della condotta del condannato [art. 179 cod. pen. e art. 54 L. 354/1975, N.d.A.]» (§ 106). Tale conclusione ha permesso alla Corte di affermare che il legislatore italiano non ha oltrepassato il margine di apprezzamento ad esso riconosciuto in questo ambito e che, di conseguenza, non sussiste la violazione dei principi della Convenzione EDU prospettati dal ricorrente. È opportuno, tuttavia, segnalare un elemento di contrasto tra le conclusioni espresse nella sentenza Scoppola n. 3 e lo ius superveniens nella legislazione italiana. Infatti – come spiegato supra – la legge c.d. spazza-corrotti ha notevolmente aggravato i requisiti che permettono di beneficiare dell’istituto della riabilitazione. In questo modo, la ragionevolezza ravvisata dalla Corte è fortemente alterata – se non integralmente travolta – a causa delle modifiche peggiorative che sono intervenute su uno dei due fattori determinanti la proporzionalità, ossia sulla condotta del condannato. È auspicabile che, in un futuro ed ipotetico giudizio legibus sic stantibus, i giudici di Strasburgo tengano conto di tale profilo critico. Peraltro, ad avviso di chi scrive, gli scopi legittimi della pena individuati dalla Corte non hanno forza persuasiva tale da giustificare la compressione del diritto di voto, in quanto è necessario garantire al massimo grado la sua estensione e tutelarlo da ogni indebita limitazione, tenuto conto che da esso dipende la sopravvivenza di ogni ordinamento liberal-democratico. Questo punto verrà analizzato compiutamente più avanti.

6. La  giurisprudenza costituzionale

Nella sentenza commentata, la Corte EDU ha vagliato la legittimità delle restrizioni al profilo attivo del diritto di voto. Tuttavia, una recente sentenza della Corte costituzionale italiana ha affermato che gli stessi principi possono essere applicati anche al profilo passivo. Nella sentenza n. 35/2021, i giudici della Consulta hanno dichiarato che la sospensione cautelare dall’esercizio di una carica elettiva in conseguenza di una condanna (anche non definitiva), per talune specie di reato (legge Severino), non si espone a illegittimità costituzionale per contrasto con l’articolo 117, primo comma, Cost., in relazione all’articolo 3 del Protocollo n. 1 alla Convenzione EDU, come invece prospettato dal giudice rimettente. Infatti, la Corte di Strasburgo ha stabilito (sentenza Ždanoka contro Lettonia) che la valutazione sulla legittimità delle limitazioni al diritto di elettorato passivo deve essere condotta secondo parametri meno stringenti, rispondenti alla verifica della non arbitrarietà della scelta, in quanto la sanzione è funzionale al concetto di «democrazia capace di difendere sé stessa». Seguendo questo principio, la Corte costituzionale ritiene non arbitraria la disciplina disegnata dal legislatore italiano perché, da un lato, contempera ragionevolmente il principio di buon andamento e imparzialità dell’amministrazione con il diritto di elettorato passivo, mentre, dall’altro, dispiega i suoi effetti provvisoriamente e gradualmente. A parere di chi scrive, è opportuno mettere in luce che l’interpretazione fatta propria dalla Corte EDU – e avallata dalla Corte costituzionale – è potenzialmente foriera di un grave pericolo per lo Stato di diritto, in quanto potrebbe giustificare l’applicazione della limitazione del diritto di elettorato passivo nei confronti degli oppositori politici accusati ingiustamente di reati per i quali è irrogabile tale sanzione. Purtroppo, negli Stati in cui impera un sistema di democrazia illiberale, tra i quali vanno annoverati anche alcuni appartenenti all’Unione Europea – si pensi all’invocazione dell’art. 7 Tue nei confronti di Ungheria e Polonia[9] – il pericolo non è soltanto astratto.

7. Le conclusioni

Il suffragio universale è il fondamento della democrazia, è la grande conquista delle democrazie liberali del Novecento. Fu strumento per riconoscere l’eguaglianza sostanziale – in primis fra donna e uomo – dei diritti civili e politici. L’art. 21 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, sull’universalità del diritto di voto non prevede eccezioni: «Ognuno ha il diritto a prendere parte al governo del suo Paese, direttamente oppure tramite rappresentanti liberamente scelti […]. La volontà popolare è il fondamento dell’autorità del governo; tale volontà deve essere espressa attraverso periodiche e veritiere elezioni, effettuate a suffragio universale […]». C’è dunque da chiedersi quale sia la ratio di una norma che limita il diritto in base al solo quantum della pena, indipendentemente dalla tipologia di reato commesso. Manca una selezione di reati espressione di uno specifico disvalore da combattere con tale strumento interdittivo – si pensi, ad esempio, all’art. 416-ter cod. pen., che sanziona lo scambio elettorale politico-mafioso –, rispetto ad altri per cui quest’ultimo non assume alcuna rilevanza in relazione al fatto commesso, ma comporta gratuita sofferenza, per nulla funzionale agli scopi legittimi della pena. Difatti, non è semplice riconoscere l’esistenza di un nesso funzionale tra la limitazione del diritto di voto e l’obiettivo di prevenzione dei reati, a meno di considerare tale conseguenza l’effetto, difficilmente dimostrabile empiricamente, di qualsiasi sanzione penale. In realtà, a noi sembra che la limitazione abbia carattere meramente afflittivo.  A tale affermazione si collega la seconda critica, imperniata sul disposto dell’articolo 27, terzo comma, Cost., secondo il quale le pene devono tendere alla rieducazione del condannato: è di tutta evidenza che il recupero del reo ai valori sociali non può avvenire se il soggetto è spogliato del diritto di esprimere il proprio voto, perché esso è la massima espressione dell’esercizio della sovranità popolare, la quale costituisce l’essenza stessa della democrazia. Se lo scopo della pena è, tra gli altri, il reinserimento sociale del condannato, questo non può prescindere dalla sua partecipazione alla vita politica. Il detenuto non può essere solo l’oggetto del dibattito, deve esserne il soggetto attivo, l’interlocutore. Altrimenti, si giunge a sostenere, irrazionalmente, che la popolazione detentiva non sia condizionata dall’azione politica, o, peggio, che non abbia diritto all’autodeterminazione e all’espressione della propria preferenza politico-amministrativa. L’assurdità di questa tesi è ancor più lampante se si considera che la sanzione accessoria può perdurare anche oltre il termine della sanzione principale, dimostrando, da un lato, l’assenza di legami con il principio di rieducazione e, dall’altro, la sua connotazione afflittiva. Come osservato dal giudice David Thor Bjorgvinsson, che ha espresso l’opinione dissenziente nel caso Scoppola n. 3, il buon funzionamento e il mantenimento della democrazia si garantiscono ampliando la base degli aventi diritto e «facendo accettare» ai liberi il voto dei detenuti. Oltretutto, da tale riconoscimento deriverebbero numerose opportunità di coinvolgimento – e quindi di risocializzazione – dei reclusi, in quanto la legittima propaganda politica dovrebbe entrare negli edifici penitenziari, sia attraverso una libera informazione giornalistica e televisiva, sia attraverso l’incontro con i rappresentanti politici. D’altronde,  il diritto di voto è intimamente connesso alla libertà di informazione, al diritto ad essere informati, alla libertà di coscienza e al diritto a dissentire[9]. Se non ci si vuole limitare al mero riconoscimento formale, è necessario che vengano forniti gli strumenti per votare in maniera seria e consapevole. La preoccupazione è che, in un contesto in cui l’informazione non sempre è libera e accessibile, non è sufficiente riconoscere il diritto di elettorato attivo al più ampio numero di persone per ritenere di aver conseguito il diritto alla non discriminazione, l’eguaglianza formale e sostanziale e il rispetto della dignità umana.


[1] F. Guella, Concetto di democrazia e ruolo del giudice nella tutela dell’elettorato attivo dei condannati, in Diritto pubblico comparato ed europeo. Fascicolo 2, aprile-giugno 2016.
[2] A titolo di esempio: Albania, Croazia, Danimarca, Spagna.
[3] La Corte EDU ha ripetutamente condannando il Regno Unito per queste disposizioni; si veda ad es. la sentenza Hirst n. 2 contro Regno Unito.
[4] C. Pitea, Sul diritto di voto dei condannati e dei detenuti: il dilemma tra giustizia ‘individuale’ e giustizia ‘costituzionale’ dinanzi alla Grande Camera della Corte europea, in Diritti umani e diritto internazionale, vol. 6 (2012).
[5] L. 9 gennaio 2019, n. 3.
[6] Sfortunatamente non disponiamo di dati più recenti.
[7] R. Bartolozzi, Antigone, anno IX, n. 2/2014, pp. 248-256.
[8] È sufficiente avere a mente che l’art. 48 Cost. limita il diritto di voto ai cittadini, escludendo in tal modo le persone che risiedono stabilmente nel territorio della Repubblica italiana e che adempiono i loro doveri, in particolare quelli fiscali.[9] https://www.europarl.europa.eu/news/it/press-room/20200109IPR69907/stato-di-diritto-in-polonia-e-ungheria-situazione-deteriorata 
[10] P. Gonnella, I diritti dei detenuti (diversi dalle condizioni di detenzione) ancora non riconosciuti, in Questione Giustizia, speciale 1/2019, disponibile al seguente link.