Terminata l’esperienza di colui che in molti hanno definito il peggior Guardasigilli della storia della nostra Repubblica, restano solo le macerie. Ci si riferisce in particolar modo alla scellerata “riforma” in vigore dal 1 gennaio 2020, con la quale a decorrere dalla pronuncia di primo grado (sia essa di condanna o assoluzione) si è sostanzialmente neutralizzato il secolare istituto della prescrizione, dalle profonde radici costituzionali e fondamentale elemento di civiltà giuridica a garanzia dell’equilibrio dei rapporti tra Stato e cittadino (imputato o persona offesa che sia). La dannosità di tale riforma è poi ancor più evidente se si considera l’assurdo ragionamento per cui eliminare il limite temporale alla celebrazione dei processi aiuterebbe a ridurne la durata irragionevole, scaricando sul cittadino sottoposto al “processo senza fine” le inefficienze del sistema giudiziario. Le vigorose e costruttive istanze promosse negli ultimi anni dall’Unione delle Camere Penali − condivise da una petizione firmata da 150 accademici e raccolte anche dal Primo Presidente della Cassazione Giovanni Mammone −, dirette ad una sensibilizzazione sul tema (da sempre mistificato da disinformazione, incompetenza e luoghi comuni cavalcati dalle forze populiste), hanno trovato numerose adesioni sia nel mondo della politica che in una parte della magistratura (come mai si era registrato in passato). Tuttavia, queste ultime si sono rivelate non sufficienti ad impedire la soppressione dell’istituto della prescrizione. L’attuale assetto governativo, forgiato dal premier Mario Draghi, ha visto la nomina (in quota “tecnica”) a Ministro della Giustizia della professoressa Marta Cartabia, giurista e costituzionalista di indiscusso livello e prima donna Presidente della Corte Costituzionale. Sin dal suo insediamento (di appena due settimane fa), il tema della prescrizione è tra quelli maggiormente discussi e sul quale è lecito chiedersi se la prospettiva di un integrale révirement della riforma Bonafede possa rientrare tra le priorità del Guardasigilli, anche in considerazione dell’eterogenea composizione della maggioranza (al cui interno risiede il M5S, che dell’abolizione della prescrizione ha fatto una battaglia di identità).
La professoressa Marta Cartabia, milanese, dalla prestigiosa formazione accademica e di pensiero cattolico, negli ultimi anni ha mostrato di essere particolarmente sensibile ai diritti dell’individuo e dei detenuti, soprattutto al tema dell’effettiva rieducazione della pena, specie alla luce della drammatica situazione delle carceri italiane. In più occasioni ha visitato gli istituti penitenziari (all’interno del progetto “Viaggio in Italia”) e, durante la sua presidenza, la Corte Costituzionale ha emesso la storica sentenza n. 253/2019 in materia di permessi premio, concedibili anche ai detenuti per reati ostativi (ex art. 4-bis o.p.) senza il vincolo della collaborazione con la giustizia. Tuttavia, nonostante il suo estremo coinvolgimento nel rispetto dei diritti del detenuto nella fase esecutiva del processo penale, restano numerosi interrogativi sull’impostazione che il Guardasigilli intenderà imprimere relativamente agli istituti di garanzia dell’imputato nella fase cognitiva del processo penale, come appunto quello della prescrizione. Un tema spinoso, soprattutto se si considera che proprio sul lodo Bonafede il governo Conte bis è stato affossato e che il ministro Cartabia, tra le prime dichiarazioni sul punto, affermava di non aver alcuna fretta di proporre eventuali modifiche alla prescrizione, visto che gli effetti della riforma Bonafede si avranno circa tre anni dopo la sua entrata in vigore. Nell’ultima settimana, però, lo scenario pare assolutamente cambiato: da una parte, proprio la ministra Cartabia con l’ODG del 19 febbraio (cd. Lodo Cartabia) ha impegnato il Governo “ad adottare le necessarie iniziative di modifica normativa e le opportune misure organizzative volte a migliorare l’efficacia e l’efficienza della giustizia penale, in modo da assicurare la capacità dello Stato di accertare fatti e responsabilità penali in tempi ragionevoli (art. 111 della Costituzione), assicurando al procedimento penale una durata media in linea con quella europea, nel pieno rispetto della Costituzione, dei principi del giusto processo, dei diritti fondamentali della persona e della funzione rieducativa della pena”; dall’altra, la Commissione Giustizia di Montecitorio ha previsto che eventuali emendamenti alla riforma del processo penale debbano essere presentati entro il 29 marzo 2021.
Dunque, questi sono giorni di concitati confronti tra il Guardasigilli e le forze politiche di maggioranza: il M5S insiste per una riproposizione del lodo Conte bis, mentre la reintroduzione di un limite ai tempi del processo penale è sostenuta da Italia Viva, Forza Italia, Lega, +Europa e Azione (con varie formule in discussione, come ad esempio la prescrizione per fasi, simile alla precedente riforma Orlando). Anche il PD (probabilmente desideroso di affrancarsi dal populismo giudiziario dei pentastellati) ha fatto sapere tramite il proprio capogruppo in Commissione Giustizia, Alfredo Bazoli, di condividere una soluzione che tenga conto dei principi di rango costituzionale della ragionevole durata, delle garanzie dell’imputato e dei diritti della persona offesa. Una maggioranza solo numerica, però, non deve creare illusioni: senza un deciso passo indietro dei pentastellati, si formerebbe una spaccatura nel governo che il Guardasigilli e il premier Draghi vogliono assolutamente evitare e con cui verrebbe probabilmente accantonata ogni velleità di riforma della prescrizione e del processo penale. Il momento è dunque delicato e i tempi in cui la partita va giocata sono serratissimi. In assenza di proposte concrete e per questo non ancora valutabili, possiamo associarci alle parole del presidente dell’UCPI, per cui ad oggi l’unico elemento positivo è rappresentato dalla volontà di superare una riforma incivile come quella che ha abolito la prescrizione. Per ora, resta l’auspicio che il ministro Cartabia accolga soluzioni riformiste di ampia visione e di lungo periodo, che garantiscano quei diritti dell’imputato (in linea con i principi costituzionali, in primis art. 111 e 27 Cost.) tristemente travolti dall’attuale assetto.
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