L’emergenza sanitaria legata alla diffusione del COVID-19 ha reso impellenti le discussioni riguardanti il processo a distanza in ambito penale. In queste poche righe non si analizzerà la disciplina vigente nel dettaglio, ma ci si limiterà ad evidenziare i rischi della modalità telematica sia nell’immediato che in una prospettiva futura: in Italia nulla è più definitivo del provvisorio

L’avversione di molti penalisti, e non solo, nei confronti della celebrazione del processo da remoto non è una lotta reazionaria nei confronti delle nuove tecnologie, non è una sottovalutazione o negazione della straordinarietà dei momenti che stiamo vivendo, non è una mera presa di posizione da azzeccagarbugli, non è un arroccamento corporativo, è invece una difesa del giusto processo e del diritto di difesa. Il processo celebrato a distanza non può essere giusto: si minano i princìpi dell’oralità e dell’immediatezza, si comprime il diritto di difesa dell’imputato allontanandolo dal suo difensore. Già nell’Ottocento, Francesco Carrara (come ricordato dall’Avv. Lorenzo Zilletti, Responsabile del Centro Marongiu, in “Dieci braccia di distanza”: Francesco Carrara e la distanza dal Processo sulla rivista dell’UCPI Diritto di Difesa) denunciava la grave limitazione del diritto di difesa che derivava dal porre in aula il cliente a dieci braccia di distanza dall’avvocato, non poteva immaginare cosa avrebbe riservato il futuro. L’utilizzo dei mezzi tecnologici non potrà mai sostituire adeguatamente la presenza in aula non potendo garantire l’istantaneità e la tempestività degli interventi orali. Conosciamo tutti i ritardi e le difficoltà delle videoconferenze finanche nelle conversazioni quotidiane. Come ricordato nelle recenti Osservazioni del Centro Marongiu sul processo a distanza, il giusto processo si celebra davanti al giudice terzo ed imparziale non con il giudice in collegamento da remoto.

​L’impossibilità di procedere alla discussione o alla cross examination in videoconferenza potrebbe portare, nella prassi, ad una ulteriore contrazione dell’oralità e dell’immediatezza dovuta all’incentivazione del contraddittorio cartolare e dell’acquisizione degli atti di indagine. Celebrare un processo mediante strumenti elettronici, con tutti i soggetti collegati da remoto, e non in un’aula di tribunale è degno di uno scenario distopico in quanto implica la smaterializzazione e la disumanizzazione della Giustizia. Il processo penale è un rito che si celebra: l’architettura dell’aula, le toghe, i gesti, non sono residuati di un’altra epoca o meri orpelli bensì dei simboli essenziali della sacralità della celebrazione che pone al suo centro l’uomo.

Si potranno ritenere queste considerazioni eccessive, sproporzionate ed infondate rispetto alla situazione attuale che prevede il processo a distanza solo per alcune rare eccezioni, peraltro limitate temporalmente. Il timore, però, è che si estenda la sua applicazione come già invocato da parte di alcuni. D’altronde, in Italia nulla è più definitivo del provvisorio, in particolare nell’ambito del diritto penale ove l’eccezione è spesso trasformata in regola. La legislazione emergenziale è stata, infatti, il cavallo di troia tramite cui sono state introdotte norme limitative dei diritti che da temporanee sono diventate stabili. Le emergenze, vere o presunte tali, non cessano mai, divengono infinite o si susseguono senza soluzione di continuità. Il timore è altresì fondato sulla scarsa adesione ai princìpi del sistema accusatorio, messo in discussione perennemente dagli orfani dell’inquisitorio. I precedenti, pertanto, non fanno ben sperare. L’attacco ai princìpi del diritto penale liberale continuerà. I diritti e le libertà fondamentali non sono negoziabili né centellinabili, la loro compressione ne è già la negazione. Vigiliamo.