Si è aperto, il 2 settembre, il processo per gli attentati terroristici alla redazione di Charlie Hebdo e al supermercato kosher Hyper-cacher di Parigi. Di rimbalzo, al tempo, circa 4 milioni di corpi erano scesi nelle piazze per riaffermare i valori della république: laicità, libertà di stampa, di pensiero, persino di bestemmia. Il processo, che durerà circa 10 settimane, sarà una vera e propria eccezione nella storia del Paese. Ma quali sono i motivi per cui si tratta di un processo storico?

Si è aperto il 2 settembre il processo per gli attentati terroristici alla redazione di Charlie Hebdo e al supermercato kosher Hyper-cacher di Parigi. In quel gennaio del 2015, in cui l’Être Charlie riuniva l’umma dei laici, Le Monde aveva definito gli eventi l’11 settembre francese. All’alba degli spari, Michel Houellebecq, che si è recentemente visto dedicare un volume dei Cahiers de l’Herne, privilegio che un tempo spettava ai grandi o ai morti, affollava le librerie preconizzando la Sottomissione, accusato di divinazione da chi non si rassegnava a vivere in un mondo senza profeti. Circa 4 milioni di corpi erano scesi nelle piazze per riaffermare i valori della république: laicità, libertà di stampa, di pensiero, persino di bestemmia.

Ci è ritornato recentemente Emmanuel Macron nel suo intervento a Beirut, a poche settimane da quanto avvenuto nel porto della capitale libanese. I francesi hanno il diritto di essere blasfemi. L’aveva detto parlando dell’affaire Mila, la sedicenne omosessuale minacciata per aver offeso l’islam; e lo ripete oggi, nel centocinquantesimo anniversario della nascita della terza Repubblica. In Francia, aggiunge, “non c’è spazio per chi in nome di Dio vuole imporre le leggi di un gruppo”. In mezzo, nelle ore che separano l’appuntamento di Beirut dalle celebrazioni al Panthéon, il tricolore brucia nelle strade del Kashmir pachistano e sunnita. Perché il profeta Maometto (che Dio lo benedica), onde evitare idolatrie, non può essere rappresentato attraverso le immagini; figuriamoci dileggiato, come è successo di nuovo sulle pagine di quei recidivi di Charlie Hebdo. Oggi, passate un po’ di moda le raffinatezze dell’islam des lumières, che ambiva ad una religiosità senza fanatismi – del resto “non ci sono costrizioni nella religione” (Corano, al-Baqara, 256) -, e che sembrava essere nonostante tutto il terreno d’incontro tra il paese della Marianna e la religione dei saracini; il dibattito sull’islam in Francia vive una nuova stagione e si anima di problemi diversi o comunque diversamente formulati (il processo ci costringerà a scegliere tra razzisti e assassini? Oggi Dreyfus è musulmano? C’è continuità tra il messaggio di Charlie e quello dell’estrema destra?).

Ma torniamo al processo. Gli autori principali dei fatti (i fratelli Said e Cherif Kouachi e Amedy Coulibaly) sono morti. Gli imputati sono 14 (di cui 3 assenti), a vario titolo accusati di aver dato agli attentatori un sostegno logistico. Ma perché si tratta di un processo storico? Il ministero della giustizia, in una nota, individua 3 ragioni. Innanzitutto, la Corte d’assise, generalmente composta anche da giudici laici, questa volta ne è sprovvista. La partecipazione popolare è infatti esclusa da una legge del 2017, che prevede, in caso di atti di terrorismo, che il collegio giudicante sia formato solamente da un presidente e da 4 giudici a latere. In secondo luogo, per le cifre: 171 tomi di procedura, 200 parti civili, 94 avvocati, 144 testimoni, 90 testate accreditate di cui 27 straniere, 14 periti. Ma c’è un altro aspetto che rende il processo, che durerà circa 10 settimane, una vera e propria eccezione nella storia del Paese. A differenza di noi cugini d’intralpe, infatti, abituati a vedere nelle reti del servizio pubblico stralci dei risvolti processuali di noti fatti di cronaca, in Francia è generalmente vietato riprendere i processi, pena una multa di 18000 euro. Una legge voluta nel 1985 dal ministro socialista Robert Badinter, tuttavia, prevede una deroga. In particolare, è possibile riprendere un processo quando c’è interesse storico. Questa possibilità, prevista dal codice del Patrimonio, si affianca all’altro caso in cui si ammette abitualmente la registrazione, e cioè quando è auspicabile una riconsiderazione della questione (in appello, in Cassazione o per la revisione del processo), ex art. 308 del Code de procédure penale. In 35 anni, l’occasione si è presentata unicamente 12 volte. Le condizioni sono di buon senso: è necessario che la registrazione non pregiudichi “il dibattimento né il libero esercizio dei diritti della difesa”. Prima che la registrazione possa essere riprodotta, però, bisogna aspettare ben 50 anni, salvo che non si tratti di un processo per crimini contro l’umanità. È comunque la prima volta che si consente la registrazione di un processo per terrorismo. Ed il processo è quindi storico non solo perché tale l’ha ritenuto il Primo Presidente della Corte d’Appello di Parigi, Jean-Michel Hayat, autorizzandone le riprese. E neanche perché costituisce un unicum nella storia dell’Hexagone. Ma, assai banalmente, per quello che quei fatti significano nella vita e nella memoria dei francesi e dell’Europa. E perché un processo, nonostante la chiara funzione catartica, non è ad ogni modo una resa dei conti, né una palestra per esercizi di esemplarità, ma può essere una sfida per riaffermare i valori della libertà e per lo Stato di diritto.