Intervista a Carlo Melzi d’Eril, avvocato penalista presso il Foro di Milano, esperto in diritto dell’informazione e direttore, insieme ad altri, della rivista scientifica Media Laws- Rivista di diritto dei media, di cui è anche uno dei fondatori. Collabora con il Sole 24 Ore, ed è autore, insieme a Giulio Enea Vigevani e Caterina Malavenda, del saggio “Le regole dei giornalisti. Istruzioni per un mestiere pericoloso”, edito da Il Mulino.

D: La Corte costituzionale ha concesso un anno di tempo al Parlamento per emanare una nuova disciplina in tema di diffamazione a mezzo stampa coerente con l’orientamento consolidatosi nella giurisprudenza della Corte EDU. In cosa consiste tale orientamento e qual è la sua opinione a riguardo?

La Corte Edu, con un orientamento che si sta formando da tempo, ritiene che la sanzione detentiva per i reati “a mezzo stampa” sia contraria all’art. 10 CEDU, a meno che non sia utilizzata per i casi più gravi, come il discorso d’odio e l’incitazione alla violenza. Ciò in quanto la minaccia del carcere – ma anche risarcimenti o sanzioni pecuniarie molto elevati – può determinare un chilling effect sui cronisti, intimorendoli e così depotenziando la loro funzione di controllo del potere. Nelle ultime pronunce la Corte Europea sembra escludere tout court la diffamazione dai “casi più gravi” di reati a mezzo stampa, tuttavia forse tra questi potrebbero essere comunque ricondotte quelle ipotesi di diffamazione del tutto gratuita e con diffusione consapevole di notizie false, al fine di distruggere la reputazione di una persona.

D: Per la riforma del reato di diffamazione ex art.595 cp ritiene sufficiente un ampliamento della discrezionalità del giudice in merito alla determinazione della pena (mantenendo comunque l’ipotesi carceraria) o considera più appropriata l’abolizione della pena detentiva in quanto tale?

Oggi la diffamazione a mezzo stampa con l’attribuzione di un fatto determinato (quella contestata più di frequente ai giornalisti, almeno della carta stampata) è punita con la reclusione fino a sei anni. Tuttavia, con un generoso bilanciamento con le attenuanti generiche, l’aggravante prevista dall’art. 13 della legge stampa viene pressoché sempre disapplicata, sicché si torna all’ipotesi codicistica che prevede la pena alternativa. Tra sanzione detentiva e pecuniaria il tribunale opta, anche qui pressoché sempre, per quest’ultima. Tuttavia, nel solco della giurisprudenza europea, sarebbe opportuno che il legislatore mettesse mano alla materia, mantenendo semmai la reclusione soltanto per i casi più gravi di “special malice”, quando cioè sia provato che l’autore dell’offesa ha consapevolmente inteso ledere la reputazione altrui, per mezzo di affermazioni false.

D: Quando si affronta il tema della diffamazione, in Italia, è inevitabile parlare anche di gogna mediatico-giudiziaria. In un paese in cui sono all’ordine del giorno campagne diffamatorie a mezzo stampa accompagnate pubblicazione delle intercettazioni decontestualizzate e spesso penalmente irrilevanti, quali sono le cause e le possibili conseguenze di tale pratica? Quali le possibili soluzioni per arginarla?

Distinguerei i due piani. Come dicevo, manterrei la sanzione detentiva per i casi di campagne stampa in cui l’offesa è del tutto gratuita o si basa su fatti che l’autore sa falsi. Qui la previsione della reclusione mi pare necessaria per evitare che la lesione di bene giuridico di grande importanza come la reputazione possa essere “messo a bilancio” dagli editori con maggiori mezzi finanziari. Per quanto riguarda la diffusione delle intercettazioni irrilevanti per l’imputazione, una vera piaga del nostro sistema, bisognerebbe intervenire sulla disciplina della segretezza degli atti del processo penale, mantenendola fino a quando dal materiale spurio generato da questo particolare mezzo di ricerca della prova non siano stati stralciati gli atti contenenti elementi non pertinenti al tema di prova, e quindi irrilevanti per il processo. E non mi pare che la “controriforma Bonafede” sia giunta a una soluzione del problema.

D: Cambiando argomento, esistono tutele e una disciplina specifica per l’informazione online? Oltre all’aspetto dei diritti, quali possono essere le soluzioni per agire sul piano
deontologico?

In assenza di interventi del legislatore, che non ha ritenuto finora di dettare una disciplina specifica per la informazione on-line, si è mossa, come sempre più spesso succede, la giurisprudenza. Con due sentenze delle Sezioni Unite (prima in sede penale e poi in sede civile) la Corte ha introdotto nell’ordinamento una inedita definizione di “stampa”, a cui ha ricondotto ogni manifestazione di giornalismo professionale. Una tale definizione, ottenuta tramite quella che secondo molti è stata una forzatura dei canoni interpretativi, traeva origine dalla necessità di estendere la tutela prevista dall’art. 21 Cost. per la stampa nei confronti dei sequestri. E probabilmente avrebbe dovuto restare confinata a quell’ambito. Il rischio è che, viceversa, una simile definizione sia estesa all’intero ordinamento, con l’applicazione automatica di tutte le disposizioni incriminatrici previste per la stampa alla rete. Proprio quelle disposizioni oggi all’attenzione del Parlamento.

D: In conclusione, cosa dobbiamo aspettarci dall’evoluzione, ormai velocissima, del fenomeno dell’informazione e dalle connesse vicende normative? Quali le questioni di più attuale problematicità e, soprattutto, quali saranno quelle di domani?

Oggi, anche a causa dell’intervento della Corte Costituzionale, il legislatore deve mettere mano alla disciplina sanzionatoria della diffamazione. Questa potrebbe essere l’occasione per riformare nel suo complesso la disciplina che regola la libertà di manifestazione del pensiero e soprattutto che sanziona gli illeciti commessi nell’esercizio della medesima. In particolare on-line, ambito a oggi pressoché ignorato dal Parlamento.