Il tema delle intercettazioni è da tempo una costante del dibattito pubblico sulla giustizia. Dopo lo scandalo CSM si è ricominciato a parlarne. Ci sarà davvero una svolta sul tema? Con questo esecutivo è molto difficile che avvenga. Intanto, ecco un’analisi sulle “patologie” e sui rischi dell’abuso di questo strumento.
Per analizzare lo strumento delle intercettazioni non si può che cominciare prendendo atto dell’ elevatissimo il numero delle intercettazioni disposte, o meglio dei “bersagli” sottoposti ad intercettazioni: nel 2017 ammontavano ad oltre 127.000 (ultimi dati aggiornati forniti dal Ministero della Giustizia) per una spesa di 168,8 milioni di euro.
Enormità dei dati che emerge comparandoli con quelli di altri Stati. Secondo un rapporto del 2004 del centro studi tedesco Max Planck Institute for Foreign and International Criminal Law in Italia vengono sottoposti ad intercettazioni 76 abitanti ogni 100.000, in Francia 23,5, in Germania 15, in Gran Bretagna 6, negli Stati Uniti 0,5.
Numeri che dimostrano un’evidente anomalia italiana, seppure al netto delle profonde differenze esistenti tra i Paesi confrontati, che può forse trovare giustificazione, almeno in parte, nella scarsa diffusione della cultura liberale e nella conseguente subordinazione dei diritti dell’individuo nei confronti dell’invadenza del potere dello Stato e dei suoi possibili abusi.
Eppure la disciplina normativa pone numerosi limiti e controlli alle intercettazioni. Queste sono ammesse solo nei procedimenti aventi ad oggetto alcune gravi fattispecie di reato stabilite dalla legge. Le operazioni, richieste dal P.M., devono essere autorizzate dal G.i.p. mediante un decreto motivato quando vi sono gravi indizi di reato e l’intercettazione è assolutamente indispensabile ai fini della prosecuzione delle indagini. Inoltre è posto alle operazioni un limite temporale di 15 giorni seppur prorogabili.
Il problema riguarda pertanto la prassi applicativa. Le intercettazioni vengono spesso autorizzate senza un controllo effettivo ed incisivo. Fenomeno che può ricondursi alla più ampia problematica dell’introduzione di finestre di controllo giurisdizionale nella fase delle indagini di cui è dominus il P.M. Ma ancor di più può ricondursi alla crisi della cultura della giurisdizione che solo la separazione delle carriere tra magistratura inquirente e giudicante può frenare.
Nel tempo le intercettazioni hanno assunto un ruolo sempre più preminente tra i mezzi di investigazione, sostituendo altri mezzi tradizionali, fino ad essere considerate ben più che un mero strumento di ricerca della prova, acquisendo una forza probatoria eccessiva senza tener conto dei possibili fraintendimenti legati alla decontestualizzazione di una conversazione orale.
Problematiche che permangono ed anzi si ampliano con riferimento alle intercettazioni mediante captatori informatici (i cosiddetti “trojan horse”), software-spia installati in dispostivi elettronici (ad esempio smartphone) che permettono di controllare e attivare da remoto i dispostivi (così da poter registrare e riprendere quanto avviene in prossimità del dispositivo), di effettuare dei pedinamenti mediante sistema satellitare e di acquisire i dati contenuti nel dispositivo stesso.
Com’è facile immaginare, tali nuovi strumenti hanno potenzialità invasive smisurate e pongono nuove dilemmi da risolvere (è ad esempio possibile modificare i dati contenuti in un dispositivo ed eliminare le tracce delle operazioni compiute).
Sul punto la reazione del legislatore, resasi necessaria data la difficoltà di ricondurre i nuovi strumenti a norme pensate per realtà diverse, è stata timida, parziale e tardiva.
E’ recentissima la “Segnalazione al Parlamento e al Governo sulla disciplina delle intercettazioni mediante captatore informatico” del Garante per la protezione dei dati personali.
L’autorità di garanzia ha posto l’attenzione sulle criticità tecniche e legali tuttora esistenti legate all’utilizzo di questi nuovi strumenti intercettativi, indicando alcune possibili soluzioni adottabili ed invocando interventi normativi incisivi.
Il Garante ha fatto espresso riferimento ad un preoccupante fatto di cronaca, esemplificativo dei possibili abusi legati all’utilizzo dei trojan. Secondo un’inchiesta giornalistica, per un errore tecnico, un software spia sarebbe stato inserito in programmi informatici connessi ad app poste su piattaforme accessibili a tutti. Il rischio denunciato dal Garante è che queste app-spia si trasformino in “pericolosi strumenti di sorveglianza massiva”.
Se l’introduzione dei trojan è l’unica novità in materia, un problema costante è quello della divulgazione arbitraria del contenuto delle intercettazioni sui mass media.
Fughe di notizie da parte della Polizia Giudiziaria o delle Procura permettono ai giornalisti di pubblicare intercettazioni che dovrebbero invece essere riservate.
Gli effetti sono ben noti: fomentare il circo mediatico-giudiziario, instaurare processi sommari, mettere alla gogna dei presunti innocenti (e spesso anche delle persone neppure indagate). Il tutto sulla base di intercettazioni, spesso penalmente irrilevanti, di cui vengono strumentalizzate frasi decontestualizzate ed a volte fraintese o mal riportate.
Fenomeno che ha evidenti risvolti negativi non solo sulla reputazione e sulla vita privata del soggetto interessato ma anche in ambito processuale in quanto contribuisce a tratteggiare il profilo personologico dell’indagato, creando una suggestione nell’opinione pubblica ed esercitando una forte pressione nei confronti dei giudicanti, contribuendo a fomentare la deriva verso un diritto penale d’autore.
Negli anni si sono succedute numerose proposte di intervento legislativo per porre un freno a tale deriva, mai andate in porto anche per le critiche mosse ed i paventati timori di una censura nei confronti della stampa.
In realtà non si tratta di limitare la libertà di stampa ma di trovare un giusto equilibrio tra vari interessi in conflitto di eguale rilevanza, anche costituzionale, quali il diritto di cronaca e la tutela della riservatezza.
L’introduzione di nuove norme non è però necessaria, basterebbe l’effettiva applicazione delle norme vigenti.
Ad esempio, l’art. 114 c.p.p. che dispone il divieto di pubblicazione di atti e di immagini, divieto punito blandamente a titolo di contravvenzione, o l’art. 115 c.p.p. in forza del quale la violazione dell’art. 114 c.p.p. costituisce illecito disciplinare.
Vi sono gli artt. 684 c.p., che punisce la pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale ma con una pena irrisoria, e 326 c.p., che punisce la rivelazione ed utilizzazione di segreti di ufficio, norme di fatto raramente applicate, nonostante l’obbligatorietà dell’azione penale.
Le problematiche legate alle intercettazioni son ben note da tempo, le cause non vanno ricercate nella disciplina vigente ma nella sua concreta attuazione da parte di tutti gli operatori interessati.
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