Abbiamo raggiunto il Prof. Marco Ruotolo, Ordinario di Diritto costituzionale presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi “Roma Tre” nonché Presidente della Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario nel 2021. Gli abbiamo chiesto della recente proposta proveniente dal Ministro Carlo Nordio sull’ampliamento dei colloqui telefonici per le persone detenute in media sicurezza, e i punti della riflessione sono stati molteplici: il riverbero della proposta in rapporto al fenomeno dei suicidi e le strategie sul tema, che interessano non solo le strutture materiali, ma anche il personale e la sua formazione.
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Il 2022, secondo quanto riportato dal Garante Nazionale, ha registrato il triste record di suicidi in carcere. Sono state ben 85 le persone ad essersi tolte la vita all’interno di un istituto penitenziario, circa una ogni quattro giorni: il numero più alto di sempre. Il 2023 non lascia ben sperare considerato che sono già 47 i casi di suicidio dall’inizio dell’anno. Vige un rapporto fra il fenomeno dei suicidi nelle carceri e le telefonate? Se sì, in quali termini, “liberalizzare” il tema della corrispondenza telefonica può contrastare e dunque, inevitabilmente, ridurre il fenomeno dei suicidi in carcere?
Il Garante Nazionale ha sempre mantenuto alta l’attenzione sul tema dei suicidi in carcere, inserendo la sua riflessione in un orizzonte ampio, che ruota attorno alla necessità di evitare che la restrizione della libertà personale si riduca a “tempo meramente sottratto”. Nelle sue relazioni annuali e nei rapporti prodotti in questi anni, Mauro Palma ha indicato la prospettiva da seguire, che non è quella dell’oggi e del dentro, ma quella del domani e del fuori. Il tema delle telefonate andrebbe inserito in questa dimensione, in quanto strumento rilevante per il mantenimento dei rapporti affettivi e delle relazioni sociali, ponte con il “fuori”, potenzialmente utile anche a tenere viva la speranza nel “domani”. L’incremento delle telefonate sarebbe un piccolo passo, necessario e da tempo invocato, per allentare la morsa dell’isolamento, per contrastare quel sentimento di abbandono che può portare ad una condizione di disagio estremo, soprattutto per coloro che hanno scarse o nulle possibilità di colloqui in presenza con i propri familiari. In un momento di sconforto una telefonata può persino salvare una vita, contribuendo ad allontanare eventuali intenzioni suicidarie. Lo ha ricordato, con altri termini, l’ex Ministra della Giustizia Marta Cartabia in una bella intervista pubblicata di recente su La Stampa, riferendosi anche alle proposte già avanzate dalla Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario da lei istituita e da me presieduta nell’autunno 2021. Quando abbiamo discusso il tema delle conversazioni telefoniche mi è tornato alla mente ciò che avevo ascoltato in occasione di una visita presso la redazione del giornale “Ristretti orizzonti” del carcere di Padova, compiuta con altri colleghi nel 2015 quale componente del Comitato di coordinamento degli Stati generali sull’esecuzione penale. Chiesi alle persone detenute quale fosse il bisogno che loro avvertivano come prioritario e la risposta fu pronta, oltre che unanime: “più telefonate!”. Nel dettaglio, però, quella richiesta esprimeva la più generale esigenza di una diversa regolamentazione del servizio, nella consapevolezza che le limitazioni temporali previste fossero principalmente legate ai costi delle conversazioni telefoniche, assai elevati al tempo della redazione dei testi normativi e oggi non più tali.
Cosa pensa della proposta del Ministro Nordio di ampliare da 4 a 6 il numero di telefonate per le persone detenute in media sicurezza?
Spero che l’annuncio si traduca in una proposta più articolata. La Commissione che ho presieduto non si era limitata a proporre l’incremento del numero delle telefonate – stabilendo comunque indicazioni temporali minime, superiori alle attuali (con modifiche all’art. 39 del Regolamento penitenziario del 2000) – ma si era spinta a suggerire una vera e propria “liberalizzazione” delle telefonate per i detenuti appartenenti al circuito di media sicurezza, in assenza di particolari esigenze cautelari legate a ragioni processuali o alla pericolosità dei soggetti. Con una specifica azione amministrativa (circolare) si potrebbe consentire l’utilizzo di apparecchi mobili senza scheda, connessione internet (con impossibilità, pertanto, di accesso ai social) e con la possibilità di chiamare solo i numeri autorizzati. Ne avevamo verificato la praticabilità e la sostenibilità economica, con un’analisi specifica compiuta dal Dott. Carmelo Cantone, dirigente penitenziario componente della Commissione. Considerati i bassi costi, avevamo ritenuto possibile l’acquisto direttamente da parte dei detenuti (al c.d. sopravvitto), senza oneri per l’Amministrazione. Quest’ultima soluzione, senz’altro rivedibile ponendo i costi a carico dell’Amministrazione per evitare diseguaglianze dovute alle disponibilità economiche dei singoli, era giustificata anche dall’esigenza di evitare lungaggini burocratiche od obiezioni connesse alle spese che la stessa avrebbe determinato. Tutte le nostre proposte, per quanto possibile, sono state concepite cercando di evitare “nuove o maggiori spese” per le quali non avevamo le possibilità di indicare “i mezzi per farvi fronte”, come recita l’art. 81 della Costituzione. Ciò, sempre al fine di consentire una rapida approvazione delle stesse, in quanto a nostro giudizio rispondenti ad oggettive urgenze, che richiedono un intervento tempestivo. La crisi del Governo Draghi e la fine anticipata della legislatura hanno impedito di arrivare al risultato.
Durante la pandemia è stata pubblicata una nota circolare DAP in tema di colloqui circa l’equiparazione fra quelli a distanza mediante “Skype” e quelli di persona. Nella sua opinione, crede che equipararli in via definitiva possa risultare una via da perseguire?
L’esperienza già compiuta dal DAP conforta le soluzioni che abbiamo suggerito. Il sistema delle videochiamate, utilizzato ampiamente in periodo di pandemia, dimostra come, in assenza di impedimenti legislativi, l’azione amministrativa possa davvero portare a risultati importanti. Nella specie, è un dato di fatto che l’uso di Skype abbia contribuito ad allentare le tensioni, che crescevano proporzionalmente all’adozione di misure sempre più stringenti per evitare la diffusione del contagio. E sono anche convinto che quella circolare abbia contribuito a evitare decisioni tragiche da parte delle singole persone detenute, conseguenti ad un’avvertita condizione di totale abbandono. La nostra Commissione, in una prospettiva anche di responsabilizzazione, ha proposto al riguardo che fosse la singola persona detenuta a decidere se imputare la videochiamata a telefonata o a colloquio, così da determinare la durata e anche le relative implicazioni (artt. 37 e 39 del Regolamento penitenziario). Tra l’altro, in tal modo si è tenuto in considerazione il fatto che in alcuni casi i colloqui in presenza con i familiari non avvengono a causa della distanza tra l’istituto penitenziario e il luogo di residenza del parente e delle difficoltà economiche che spesso ostano a costosi trasferimenti. Le video chiamate possono essere realizzate tramite i cellulari già acquistati dall’Amministrazione (3.200, all’epoca dei lavori della Commissione), consentendo chiamate gratuite con uso di Skype o di applicazioni simili. Con le proposte indicate si risolverebbe pure l’annoso problema legato alle difficoltà di verifica dell’intestazione dell’utenza telefonica, soprattutto per i numerosi detenuti stranieri, che, nella migliore delle ipotesi, quando la procedura riesca ad andare a buon fine, devono sottostare a lunghi periodi di attesa.
In generale, al di là delle telefonate, quali possono essere i rimedi per contrastare il fenomeno dei suicidi?
Questa domanda richiederebbe una risposta molto articolata. Ci si dovrebbe interrogare sull’andamento pluriennale delle politiche penali e sociali che hanno senz’altro condotto a un incremento del ricorso al carcere. Sono convinto del fatto che il principale antidoto al crimine siano idonee politiche sociali, una vera e propria lotta alla povertà che toglierebbe senz’altro manovalanza alle organizzazioni criminali e ridurrebbe comunque quelle situazioni di marginalità che possono essere alla base di scelte di vita sbagliate. Ha ragione chi sostiene che a minor Stato sociale corrisponde più Stato penale. Se il carcere fosse davvero l’extrema ratio sarebbe possibile dare concretezza ai principi costituzionali di umanizzazione e rieducazione della pena. Il sovraffollamento è senza dubbio condizione di ostacolo alla loro realizzazione, alla costruzione di un percorso individualizzato di esecuzione della pena che ambisca a ricostruire il legame sociale che si è lacerato con la commissione del reato. Per raggiungere quest’obiettivo, pene o misure diverse dal carcere si rivelano spesso più efficaci. Lo dovremmo dire con maggiore chiarezza, anche per convincere chi invoca più carcere, ponendo proprio l’accento sulla centralità del tema della sicurezza. Quest’ultima non sarebbe meglio garantita all’esito di un positivo percorso di reinserimento sociale? E se quell’esito può essere meglio perseguito con sanzioni o misure diverse da quella carceraria, non vale forse la pena puntare sempre più su di esse? Nell’attesa che maturi una diversa cultura della pena, che non si riduca all’equazione “pena=carcere”, è però essenziale che siano operati interventi concreti, che mirino a migliorare la quotidianità penitenziaria, rendendo la stessa meno “spersonalizzante”. Al tempo stesso occorre che il personale, nei suoi vari ruoli, sia valorizzato, riconoscendo la complessità di professioni che hanno il duplice, difficilissimo, obiettivo di garantire la sicurezza interna e di favorire processi di “riappropriazione della vita” idonei a re-includere, ad avviare un processo potenzialmente in grado di ridurre il rischio di ricaduta nel reato. Per farlo, occorre creare condizioni di sistema che consentano finalmente di considerare la risposta di giustizia come tesa a responsabilizzare in vista del futuro, più che a porre rimedio al passato; guardare al domani e al fuori e non limitarsi all’oggi e al dentro, per riprendere di nuovo le parole di Mauro Palma. Nelle proposte elaborate dalla Commissione che ho presieduto si trova una strategia complessiva di azione, che interessa anche le strutture materiali, il personale e la sua formazione. Sono difficilmente riassumibili in poche battute, in quanto comprendono dettagliati interventi sulla normativa primaria e soprattutto sul Regolamento penitenziario, nonché l’indicazione di 35 azioni amministrative. Prioritaria e di più facile realizzazione sarebbe la revisione del regolamento penitenziario del 2000, concepita e redatta in modo da poter essere compiuta a prescindere dalle pur suggerite modifiche della normativa primaria. Provo, comunque, a indicare alcune delle proposte, che si aggiungono a quelle relative alle conversazioni telefoniche: previsione della presenza, per almeno un giorno al mese, di un funzionario comunale, per consentire il compimento di atti giuridici da parte di detenuti e internati; costituzione di una struttura regionale di coordinamento e monitoraggio per il lavoro, con il compito di promuovere anche l’incontro tra domanda e offerta; pieno adeguamento della normativa alla disciplina di riforma della sanità penitenziaria, con specifica attenzione alla sofferenza psichica anche nella regolamentazione delle misure alternative; revisione della disciplina dei permessi, finalmente concedibili non solo per motivi di “particolare gravità”, ma anche di “particolare rilevanza”; configurazione della tracciabilità delle richieste di detenuti e internati e predisposizione di forme di reclamo giurisdizionale per l’ipotesi di mancate o tardive risposte; istituzione di una cabina di regia per l’istruzione in carcere, che valorizzi, in particolare, l’integrazione della didattica digitale con la didattica in presenza; spinta verso l’innovazione tecnologica, introducendo, tra l’altro, totem touch per le istanze dei detenuti e app per la prenotazione dei colloqui da parte dei familiari, nonché meglio impiegando, per ragioni di sicurezza, strumenti di video sorveglianza, metal detector, body scanner, sistemi anti-drone. In quest’ultimo ambito si è tra l’altro suggerito di standardizzare il sistema “MOVE”, in uso presso l’istituto “Rebibbia Nuovo Complesso” di Roma, che consente di gestire la circolazione dei detenuti dai reparti detentivi verso le varie zone dell’istituto (senza aggravare i carichi di lavoro del personale e garantendo una migliore fruizione dei servizi) e di implementare il controllo biometrico per semplificare in sicurezza le operazioni di accesso dei familiari che si recano ai colloqui. Sono proposte molto concrete, qui solo parzialmente richiamate e integralmente pubblicate sul sito del Ministero della Giustizia. Sono state ponderate e ampiamente discusse con “operatori” che a diverso titolo hanno maturato solide esperienze nella gestione dell’esecuzione penale. “Pronte all’uso”, oserei dire, almeno come base per interventi che appaiono davvero indifferibili se si vuole provare a migliorare la quotidianità penitenziaria e, in conseguenza, a contenere il rischio suicidario, spesso legato all’insostenibilità della condizione di isolamento e di avvertito abbandono.
*foto ricavata dall’articolo di Angela Stella sul Riformista, “Commissione Cartabia, parla Ruotolo: “Così riduciamo la distanza tra carcere e Costituzione”
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