Quale immagine emerge oggi sulla situazione in carcere, in considerazione del contesto pandemico, delle rivolte consumate nei 49 istituti penitenziari nel mese di marzo e delle misure successivamente predisposte dal decreto Cura Italia?

Un’immagine di freddo, congelata sotto più punti di vista. Un freddo che mi ricorda certi film sovietici di alcuni anni fa. Ci sono state rivolte gravi, gravissime, come non c’erano in Italia da decenni, con 13 morti, una cinquantina di istituti coinvolti, 72 evasioni poi anche rientrate; eppure, tutto ciò, forse anche distratti da altri fattori che ovviamente e comprensibilmente riguardavano le ansie all’esterno, non ha sviluppato minimamente un dibattito effettivo. Una riflessione congelata, che però non può essere stata realmente accantonata, perché prima o poi dovrà essere affrontata.  E poi la questione del Covid, che ha interrotto non tanto le visite, ma tutto un mondo che, su base volontaria o con altre forme progettuali, entrava in tanti istituti e rappresentava quella osmosi tra l’interno e l’esterno che io ho sempre visto come uno dei pochi elementi di validità positiva del nostro sistema detentivo; un fattore anche distintivo, dal momento che molti sistemi europei sono più chiusi del nostro. Si sono bloccate, però, anche le presenze istituzionali, e mi riferisco alle Università, alla Scuola, per cui la didattica a distanza all’interno delle sezioni detentive assume un diverso significato che nelle classi normali, così come all’interno delle strutture d’alta sicurezza, dove l’attività era sorretta dalle figure di singoli operatori. L’ultima immagine di glaciazione è, invece, segnata dalla doppia ansia che ha pervaso il carcere: quella di un contagio invisibile di cui noi stessi siamo portatori, a cui si aggiunge l’ansia propria della reclusione, di sentirsi in un luogo separato dalla collettività. Una situazione che, in alcuni casi, è degenerata in vera e propria angoscia. Oggi è più tenue per tre fattori, di cui uno è certamente la ripresa graduale dei colloqui, che tuttavia trova il proprio limite nell’abbandono di un principio un tempo vigente, quello della “territorialità dell’esecuzione penale”: nel carcere di Bologna non ci sono solo detenuti emiliani, così come in quelle di Roma non ci sono esclusivamente detenuti romani, perché è possibile una, per così dire, “transumanza” dei detenuti. Pertanto, non è ovvio che i parenti siano nella loro stessa regione, e ad oggi gli spostamenti interregionali sono interdetti. Questo limite, però, viene a sua volta temperato dal secondo fattore, che è l’utilizzo di meccanismi di comunicazione quali smartphone e Skype, attraverso i quali la persona detenuta ha potuto rivedere non soltanto la persona al colloquio, ma anche il proprio ambiente familiare o anche altri parenti che solitamente non vanno in visita. Un’esperienza, quest’ultima, che è bene non tramonti ora, che rimanga anche al finire della questione Covid. La terza attenuazione di cui facevo menzione è che, in fondo, i numeri del contagio all’interno sono stati abbastanza contenuti, con due o tre focolai, quindi non c’è stata l’espressione che si temeva. In conclusione, io vedo questi tre elementi come il lento scioglimento di una glaciazione. Ma come può sciogliersi una glaciazione? Può sciogliersi anche in un pantano, dove non risboccia nulla, oppure può sciogliersi in un terreno che può essere di nuovo arato. Ecco, il carcere ora è un terreno che deve essere riarato, non per ristabilire il modello precedente, dove tutto è concessione ed infantilizzazione, ma per proiettarsi molto più al dopo, al momento successivo il fine pena, alla responsabilizzazione dei detenuti e alla valorizzazione delle esperienze possibili, soprattutto quelle di ambito culturale e formativo.

La popolazione carceraria è diminuita fino a 52 mila unità. Una riduzione comunque non sufficiente, se si pensa alla capacità carceraria complessivamente ferma a 46mila. Come dobbiamo leggere questi dati Quanto ha inciso il decreto Cura Italia?

Io qui ho accesso al dato in tempo reale, quindi le fornisco i dati che ho a disposizione. 52.800, per l’esattezza. Eravamo arrivati a 61.000, quindi è chiaro che ci sia stato un calo. Abbiamo una capienza regolamentare intorno a 50.535, ma in questo momento, alle 10:00 del 18 maggio, ce ne sono 4.118 non disponibili, il che comporta che la capienza effettiva si riduca a 46.426.Bisognerebbe far coincidere questi due valori, ma la difficoltà sta anche nella caratteristica del nostro sistema per cui è formato da molti circuiti detentivi, quindi i detenuti non possono essere spostati dall’uno all’altro, come per esempio dall’alta sicurezza affollata ai detenuti di media sicurezza e viceversa, e non posso mettere un protetto altrove. C’è un sistema di importanti costrizioni. Prendo ora a riferimento il carcere più affollato, che stamattina risulta essere ancora Taranto: ha quasi il doppio delle presenze di quelle che potrebbe avere, 586 detenuti in 307 posti disponibili. Questo dato, in realtà, è più complesso, perché nello stesso momento a Taranto c’è una sezione di 28 posti dove ci sono 9 detenuti, e un’altra sezione di 92 posti dove ce ne sono 234, quindi quasi il triplo. Tuttavia, non si può spostare, non si può spalmare in un sistema con tanti circuiti e le relative impossibilità di connessione degli uni con gli altri. Allora, è evidente la necessità di ridurre sia i numeri dei detenuti sia i circuiti all’interno dello stesso istituto. Questo è il primo punto di tipo amministrativo e non normativo, affinché il sistema possa avere maggiori omogeneità. Per quanto riguarda i numeri, invece, intervengono tre fattori: uno normativo, uno di pratica del magistrato di cognizione e uno di custodia cautelare. Partendo dall’ultimo, il procuratore Salvi ormai da tempo ha richiesto una maggiore attenzione alla disposizione della misura cautelare in carcere; una questione estremamente condivisibile. Ciononostante, continuiamo ad avere troppe situazioni del genere, secondo il criterio per cui la legittimazione consensuale dei provvedimenti ha preso il posto di quella legale, che invece deve informare sempre il giudice e che si fonda sul fatto che il ricorso alla custodia cautelare in carcere deve essere misura estrema, indipendentemente dal fatto che l’attuazione rigorosa di tale principio [attiri sempre cattive campagne pubblicitarie. Pertanto, c’è sempre più una tendenza, non volontariamente scelta ma implicitamente determinata, per cui sulla spinta del consenso si ricorre a questa misura come prima risposta al reato, quindi come anticipazione di pena, il che è una deviazione dell’ordinamento. Per quanto riguarda invece il giudice di merito, aprendo in questo esatto istante le finestre dell’applicativo sulla mia popolazione le posso dire che ci sono attualmente in carcere 916 persone condannate –non in residuo pena –ad una pena inferiore ad un anno, e altre 2.363 tra uno e due anni. Ma quale percorso rieducativo può intraprendere in carcere una persona con pena inferiore ad un anno, considerato anche che la prima osservazione trattamentale, secondo la stessa legge, deve essere fatta entro sei mesi? Chi sono, allora, queste persone? Sono quasi sempre la minorità sociale esterna, persone senza fissa dimora, che non hanno trovato risposta nel territorio. Allora, in questo secondo fattore s’innesta un discorso più ampio, non soltanto la magistratura ed il carcere, ma anche il territorio, anche la politica, che non deve distruggere le politiche di welfare esterno, perché queste persone avrebbero dovuto trovare risposta all’esterno del carcere e non finire all’interno. Un tempo c’erano reti di aiuto e controllo territoriale, e mi riferisco alla vostra Bologna, dove c’è stata decine di anni fa una grande esperienza di città e territorio, di come questo dovesse contribuire a ridurre il rischio dell’esposizione al reato. Un territorio che sa rispondere e che costruisce delle reti non porta in carcere persone con pena inferiore ad un anno; sul punto non si può, tuttavia, trascurare anche la responsabilità del giudice di merito. E qui, racconto l’ultimo elemento, il legislatore. Che possibilità può avere il giudice? Forse molto poche, perché non sono mai state introdotte pene alternative. Sono state invece introdotte misure alternative alla pena detentiva, ed è stata data la centralità alla detenzione, declinando così quel plurale, che la Costituzione fornisce all’art. 27 quando parla di “pene”, al singolare, come se parlasse soltanto di carcere, salvo poi modularla con le misure alternative. Allora il legislatore dovrebbe, innanzitutto, ripensare il penale ed introdurre finalmente pene alternative, perché questo penale qui, anche con misure deflattive più forti, senza un ripensamento lascerà sempre quei 916 in carcere. In conclusione, per quanto riguarda l’incidenza del decreto “Cura Italia”, secondo il dato di venerdì sera la detenzione domiciliare, dal 18 marzo al 15 maggio, è stata data a 3.282 persone di cui 919 con il braccialetto elettronico, mentre le rimanenti 2.363 o l’hanno avuta perché con residuo pena inferiore a 6 mesi o senza braccialetto perché ricorse alle legge 199/2010, utilizzando in maniera attiva l’impianto normativo. Quindi, delle riduzioni di cui parlavamo, ne possiamo attribuire 3.282 al decreto o alla legge del 2010 a cui esso si rifà; altre tremila invece sicuramente ai minori ingressi in carcere, perché ci sono stati meno reati e in parte s’è attenuato il ricorso alla custodia cautelare, mentre le rimanenti duemila sono quelle situazioni che, secondo me, molti distretti di tribunali di sorveglianza hanno accelerato, con la paura del Covid. Queste, le complessive ripartizioni.

È possibile, secondo Lei, che l’attenzione eccezionale rivolta all’utilizzo della strumentazione tecnologica – come Skype e gli smartphone – venga poi conservata per arricchire la normalità carceraria? Il nuovo Dl Bonafede riesce in quest’ armonizzazione?

Voglio partire dalla premessa che senza la capacità d’utilizzo delle tecnologie non c’è reinserimento possibile nella società. La società cambia, e cambia anche dal ritmo che le tecnologie impongono. Non possiamo pensare di reinserire i soggetti con un un’idea di lavoro prefordista, o al più fordista ma certamente non postfordista, dove il lavoro è ancora connesso ad una bieca manualità, il plusvalore cognitivo non esiste e tutto è collegato a modelli arcaici. Le istituzioni detentive hanno sempre avuto paura delle tecnologie, nel farle entrare, sospettose che queste potessero diventare occhi verso l’esterno. E’ chiaro che deve esserne studiato l’utilizzo e che non può essere consentito un utilizzo di tipo criminale, come nel caso degli smartphone infilati anche nelle cavità del corpo per dare contatti all’esterno; ma ogni strumento può essere utilizzato in maniera criminale, anche la vanga per zappare la terra può essere utilizzata per colpire, e non per questo non devo permettere lo strumento che esiste. Questo deve essere governato e controllato, ma se non viene introdotto non si offre la possibilità di capire il mondo esterno né tantomeno, un giorno, almeno uno straccio di possibilità lavorativa, che un analfabeta tecnologico oggi non ha. Tecnologie che invece, paradossalmente, erano già entrate per le udienze in videoconferenza a distanza, talvolta anche per i colloqui con il magistrato di sorveglianza. Ecco, facendo esclusione delle udienze di grande criminalità che comporterebbero uno spostamento molto complesso di criminali, laddove la vicinanza e la prossimità nel dialogo è estremamente importante, le tecnologie sono state fatte entrare; al contrario, dove erano utili, come ad esempio per accedere ad una banca dati utile a preparare un percorso di studi, non è stato permesso. Il paradosso, quindi, è che le tecnologie sono state fatte entrare con facilità come riduttore fattuale dei diritti del detenuto, ma non come amplificatore delle sue possibilità. Io terrò molto questo punto, non so quanto vincente davanti ad un’opinione pubblica che, a volte, pensa ancora che la tecnologia sfugga di mano. Mi auguro che il periodo che abbiamo vissuto l’abbia sensibilizzata. Ho conosciuto sistemi detentivi più arretrati del nostro, che non danno accesso alla penna e alla carta pensando chissà cosa potrebbe scrivere la persona. Mi torna in mente un film, “Il postino” con Massimo Troisi, dove gli insegnano le metafore, che sono inafferrabili perché chissà cosa passa per le metafore. Bene, noi abbiamo la stessa idea rispetto alla tecnologia: chissà cosa passa. Quindi, se vogliamo parlare seriamente d’inserimento, dobbiamo mettere insieme il tempo interno al carcere, che si ripete stancamente, e il tempo esterno, che sulla spinta tecnologica cambia in continuazione. Non potranno mai coincidere, ma è doveroso ridurre fortemente la distanza.

Beccaria sosteneva che, affinché la rieducazione sia possibile, il carcerato non deve essere spogliato della sua dignità umana. Secondo Lei, l’affettività e la sessualità compongono questa dimensione? Se e quanto l’ordinamento cura attualmente queste sfaccettature nel detenuto?

In particolare la sessualità, distinta dall’affettività perché ambito più vago. L’inibizione della sessualità, secondo me, rischia di debordare dal senso astratto della pena alla pena corporale. Il nostro sistema abolisce, come tutti i sistemi del diritto contemporaneo, quindi dal secolo scorso, la corporeità della pena, perché la dignità dell’individuo e la sua integrità fisica e psichica sono due elementi irrinunciabili. Così come collocando per anni una persona in un sistema in cui non riuscirà mai a vedere più di un metro e mezzo di distanza, io finirò per ridurre la sua capacità di vista e dunque infliggere una punizione al suo corpo, anche l’inibizione della sessualità aggredisce una funzione naturale dell’uomo che può far retrocedere la pena a pena corporale. Questo ragionamento, però, non è mai stato accettato sull’argomentazione che il nostro sistema accoglie l’istituto dei permessi, capaci di aprire alla vita relazionale anche all’esterno del carcere. Questo discorso venne sollevato nei decenni passati per non permettere le visite senza sorveglianza, quindi intime, ma non regge al fatto che la tematica dei permessi negli anni è stata superata perché sottoposta all’ostatività. Quindi,  quantomeno per coloro che non possono usufruire dei permessi, il discorso dell’inibizione della libertà sessuale torna ad essere determinante. E’ un discorso culturale difficile, nel nostro Paese ed anche in altri, perché nei 47 dell’Europa, 32 permettono gli incontri intimi. Penso, però, alla cattolicissima Spagna, che ha la nostra stessa tradizione e, nonostante ciò, rende possibili gli incontri con i propri partener, eterosessuali o omosessuali che siano. Bene, se io dicessi in Spagna che tale possibilità è abrogata, i primi a ribellarsi sarebbero gli operatori penitenziari, che mi accuserebbero di follia perché questo è uno degli elementi che tiene calma la realtà carceraria. Se invece qui in Italia propongo l’introduzione, sono proprio gli operatori di polizia penitenziaria ad insorgere contro. Quindi, dietro c’è qualche elemento archetipico. Devo aggiungere che su questo tema, mai dichiarato dalla Corte di Strasburgo come violazione dell’art. 3 della Convenzione, quello che tutela contro trattamenti inumani e degradanti, inizia a farsi strada un nuovo approccio, che però parte dall’articolo della Convenzione che garantisce i legami affettivi e la costituzione di una famiglia per valorizzare non tanto il punto di vista del detenuto, ma quello del coniuge o del partner, ossia della persona esterna. Pertanto, questo è il modo diverso con cui si sta cercando di aggirare la problematica.

Lei non ha lesinato in passato parole su una “costruzione soggettiva” del carcerato, affinché “non si senta escluso” e possa condurre “una vita il più simile possibile a quella all’esterno”, guardando anche “al fuori” del carcere. Ascoltando anche le sue parole di oggi, sembra favorevole ad un ribaltamento della paradigmatica centralità del carcere in favore di quelle che Lei propone come pene alternative. Quale dovrebbe essere allora, secondo Lei, l’operatività dell’istituzione totale, ossia del carcere, nella sua residualità? 

Non intendevo escludere le misure alternative, queste devono comunque essere presenti in riferimento alla pena detentiva, così come devono essere presenti le pene alternative al carcere. Per quanto riguarda il carcere, non dobbiamo dimenticare che in Italia abbiamo un problema della criminalità organizzata, che si pone come struttura capace di esercitare un potere alternativo al potere statuale. Questo porta al problema di stroncare l’elemento, non solo colpendo e sanzionando le singole azioni, ma anche i legami, i collegamenti. Volendo suggerire un’immagine, mentre un serial killer si pone come una linea retta in cui ogni tanto c’è un punto in corrispondenza del crimine commesso, la criminalità organizzata è una rete, un insieme, non ci sono soltanto i nodi, che sono le azioni, ma ci sono anche i legami, che rischiano di sostituire i legami normali che propone invece lo spazio pubblico condiviso. Quindi, da una parte i reati di criminalità organizzata, e dall’altra parte i reati di grande allarme, come quelli contro la persona, di violenza e via dicendo. Quello da cui andrebbe depurato il carcere è una serie di situazioni rispetto alle quali riesce a dare solo serialità e non può costruire programmi, come nel caso del consumo di sostanze e di quei reati finalizzati a procurarsele. Il carcere, così, andrebbe ridotto e portato in un ambito di una varietà d’interventi, molti dei quali anche di controllo, perché non si vuole di certo annunciare una “tana libera tutti”. Controlli, però, che dovrebbero avere più sfaccettature e possibilità, che dovrebbero premettere anche di dare risposte più efficaci. Volendo fare un esempio, se tu produci ed inquini fortemente, è più efficace che ti dia gli oneri di risanare il territorio o che ti dia 18 mesi di carcere? Molto probabilmente, l’accollo delle spese del territorio. Quindi, quello che è interdittivo, risarcitorio, ristorativo di ciò che c’era precedentemente, potrebbe essere molto più efficace di quello che invece è soltanto privativo della liberta. Una forma di giustizia riparativa.

Foucault svelava le nervature culturali sottese dalla realtà carceraria affermando che “uno tra i problemi più scomodi della società è quello carcerario”. Non a caso, recentemente il dibattito pubblico s’è accanito sulla scarcerazione di alcuni boss mafiosi- Francesco Bonura, Vincenzino Iannazzo e Pasquale Zagaria-, sebbene fosse legata a gravi ragioni di salute, ritenute ulteriormente sensibili in questo contesto epidemiologico. Secondo Lei, come si lega questa polemica alle campagne culturali che usualmente orbitano attorno al mondo penale?

Foucault diceva anche che il carcere è il residuo dell’immagine del teatro del supplizio. La volontà di supplizio mai espunta nella collettività che in qualche modo e certe volte, nell’esibizione della pena, è riassunta e sintetizzata. Questo, negli ultimi giorni, l’abbiamo visto. Non è accaduto qualcosa di per sé grave, ma una campagna culturale che ha visto dei protagonisti, da alcune trasmissioni televisive ad alcuni quotidiani, in un segno simile a “la loro salute conta meno della sicurezza esterna”. Capisco che, a volte, è un bilanciamento molto complicato perché, come detto precedentemente, la lotta alla criminalità organizzata è doverosa. Ma quando si parla di tutela della salute, ossia l’unico diritto per il quale il costituente, solitamente molto parco di aggettivi, ha utilizzato l’aggettivo “fondamentale” all’art.32 cost., si parla di un diritto nella doppia immagine: della persona alla propria salute e della collettività esterna ad essere tutelata. Nei casi capitati recentemente, s’è parlato come se fossero stati tirati fuori tutti i peggiori criminali. Allora, adesso devo dare qualche numero: in 248 casi, si è trattato di decisioni del giudice di merito relativamente alla custodia cautelare in carcere, in cui il solo giudice, di fronte ad alcune situazioni patologiche o elementi di comorbidità, ossia possibilità di contagio in considerazione di particolari situazioni di salute preesistenti, ha assunto tale decisione. Questo, in varie Corti per tutta Italia. Complessivamente quasi 200 giudici. E’ difficile pensare ad un complotto per il quale si sono messi d’accordo tutti i giudici, come sembrerebbe ogni tanto ascoltando qualche trasmissione televisiva. Tornando ai dati, se 248 casi hanno riguardato, come detto, persone in custodia cautelare, in 32 casi invece posizione miste, in parte scontavano la pena, in parte in custodia cautelare, e in altri 217 casi persone definitive. Quindi, soltanto in questi ultimi possiamo coinvolgere la tanto vituperata magistratura di sorveglianza. Di questi 217, però, 4 erano quelli che potremmo definire boss perché al 41-bis. Tra questi, uno potrebbe essere considerato un ex boss, perché all’alta sicurezza 1 si va dopo che si è stati al 41-bis, mentre gli altri 3 si trovavano invece all’alta sicurezza 3, che rappresenta insieme di legami, relazioni e di ciò che definisco “brodo di cultura” intorno alla criminalità organizzata. Non che non siano un problema, ma definirli tutti boss mafiosi non è propriamente corretto. Dei quattro, il primo, Bonura, ha suscitato più clamore, una persona a cui erano rimasti 9 mesi di pena da scontare, che al momento attuale ormai sarebbero stati 7. Ma cosa si può discutere in questo caso? E’ un’anticipazione di qualche mese di una lunga pena. Per quanto riguarda Zagaria, invece, si trattava di una struttura per continuare la chemioterapia, e serviva una struttura adeguata all’interno del carcere o comunque di una struttura detentiva perché questo fosse possibile. In questo caso, proprio come Garante nazionale, da due anni e mezzo avevo segnalato che, avendo trasferito tanti detenuti di 41-bis e di alta sicurezza in Sardegna, l’amministrazione sanitaria locale e quella penitenziaria non si erano accordati sulla costituzione di un centro clinico attrezzato per detenuti, in gergo SAI, all’altezza di ospitare un 41-bis. E già quasi tre anni fa avevamo segnalato che quando un 41-bis sta molto male, bisogna trasportarlo nel continente, quindi mettere in campo una serie di attenzioni. Un problema, questo, sempre sottovalutato, e che si è riproposto adesso perché mentre il diritto alla salute del detenuto continuava a sopravvivere, non c’erano tuttavia altre strutture sul territorio. Gli altri due, infine, erano 41-bis non ancora definitivi.Il risultato è stato la costruzione di un’opinione pubblica pronta a congetturare quasi che ci sia stato o un accordo o una debolezza di un sistema rispetto ad un problema che di fatto, numericamente, era inconsistente. C’è stato il rischio anche che passasse l’idea che le procure fossero sovradeterminate rispetto alla decisione del magistrato. Per fortuna, l’ultimo decreto (Dl Bonafede 28/2020 del 30 aprile) non va in quella direzione: dice che devono periodicamente fare delle revisioni, la prima dopo quindici giorni  e le altre mensilmente, per verificare la sussistenza delle condizioni, ed in più che deve essere chiesto il parere preventivo alla DNA, una cosa che già accadeva e questo decreto semplicemente mette in maniera più prescrittiva. Però, di fatto, il tutto è rimasto nelle mani del magistrato, perché è lui che ancora deve decidere, e deve farlo non sulla base dell’acquisizione del consenso la domenica sera a qualche trasmissione, ma sulla base di ciò a cui la Costituzione lo chiama. 

Non è un caso che, in risposta, sia sopraggiunto il Dl Bonafede 28/2020 del 30 aprile, che introduce, tra le altre, alcune misure urgenti in materia di ordinamento penitenziario. Sembra di capire che, secondo Lei, fattualmente non cambi molto. Però quale impatto culturale potrebbero avere le specificazioni soggettive che contiene? 

Chiamerei questo decreto “La riduzione del danno” che questi urlacci hanno determinato nell’opinione pubblica, nell’idea del lassismo esagerato, del magistrato come un tremebondo signore intimidito da una presunta circolare e contemporaneamente del “devono stare dentro fino all’ultimo giorno”. Il decreto, pur concedendo molto al fatto culturale per cui fosse doveroso fare un decreto, quando invece non era necessario alcun decreto, ha ridotto il danno. Danno che però, dal punto di vista culturale, è pieno, perché mette come sotto tutela il magistrato, che ora deve anche riferire alla DNA. Il messaggio peggiore che manda il decreto è che “ci sono degli urlacci sulla stampa, allora s’interviene con il decreto legge su una materia che riguarda la libertà personale delle persone”, quando invece dovrebbe esserci una riserva di legiferare su questi temi in maniera tale da non essere influenzati dall’ opinione pubblica. Questo, però, devo dire che accade da tempo. Ricordo quando, tempo fa, si andò a fare uno dei primi decreti sicurezza, c’era stato un episodio raccapricciante a Roma, e l’allora vicepresidente del Consiglio disse “farò introdurre un reato!”. Si introducono reati e procedure a spot. E questo, è sempre un danno culturale.

In conclusione, a margine di tutto quanto si è detto sulla temperie culturale, si può notare che ci si appella sempre al principio di proporzionalità della pena per giustificare le recrudescenze punitive di vario genere, quando sarebbe forse opportuno cominciare ad invocare l’altra immagine dello stesso principio, per proporre seri e personalizzati percorsi rieducativi del detenuto…

Certamente. Il principio di proporzionalità non può essere declinato solo in un modo.