Intervista a Patrizio Gonnella, presidente dell’Associazione Antigone. Abbiamo parlato del loro XVI Rapporto sulle condizioni di detenzione, di carcere e COVID-19, del 41-bis e di riforma penitenziaria. Una chiacchierata ad ampio raggio sul tema carcere.

D: Come ogni anno è uscito il vostro rapporto sul carcere. Al di là delle conseguenze derivate dalla pandemia, di cui parleremo dopo, quali sono le novità più importanti che emergono dalla vostra ricerca? E quali invece le conferme e i punti di continuità in linea col passato?

Il nostro ultimo rapporto in realtà è tutto costruito intorno alla grande emergenza determinata dalla pandemia e dai rischi connessi alla pandemia stessa, alle soluzioni prospettate per evitare i contagi a quel terribile momento che c’è stato intorno a marzo, il momento dei morti e delle violenze. Quindi ci siamo concentrati , principalmente, su questo periodo eccezionale, un momento di grande eccezione. Abbiamo riscontrato all’interno di questo ultimo nostro rapporto che fino a dicembre circa, fino a gennaio avevamo una crescita esponenziale della popolazione detenuta. Questa crescita si è fortunatamente in parte ridotta a fine febbraio. Eravamo arrivati a circa 62 mila detenuti con un tasso di sovraffollamento difficile da gestire, un tasso intorno al 120% . Si era del tutto anestetizzata la buona stagione di buoni interventi e di riduzione del numero dei detenuti che c’era stato in passato, durante gli anni successivi alla sentenza Torreggiani. Purtroppo abbiamo poi riscontrato che oggi la qualità della vita in carcere è peggiorata, questo già prima della pandemia, nell’anno precedente. E’ stato abbandonato quel progetto riformista nella vita interna del carcere, fondato sulla responsabilizzazione, ispirato alla sorveglianza dinamica. Forti pressioni da parte di organizzazione sindacali autonome hanno prodotto un peggioramento sulla qualità della vita e al ritorno a di un carcere tendenzialmente chiuso.

D: Come giudica la gestione dell’emergenza carceri da parte del Governo durante il Corona virus? E’ intervenuto in maniera adeguata?

Il governo è intervenuto perché costretto. E’ intervenuto tardi. Bisognava intervenire prima, in quanto le proteste sono arrivate dopo una situazione veramente drammatica: il paese è caduto in lockdown, i colloqui sono stati interrotti e il governo non ha spiegato tutto ciò. Era sacrosanto per evitare la diffusione della epidemia ma non bisognava farlo senza spiegarlo ai detenuti . Quindi ci sono state prima le proteste e le rivolte e solo dopo i primi interventi diretti a favorire la comunicazione attraverso le varie tecnologie  con l’esterno e poi quel “mini provvedimento” che favoriva la detenzione domiciliare all’esterno. Questo ha prodotto fino a fine aprile una progressiva riduzione della popolazione detenuta, fortunatamente. Da 61mila ai 53mila detenuti. Poi è partita una compagna mediatica-populista, condotta da esponenti del giornalismo superficiale da assalto televisivo, insieme a esponenti della magistratura e da avventurieri della politica. Questi hanno affermato che bisognava ritornare al passato, e quindi a seguito di alcune scarcerazioni di esponenti legati alla criminalità organizzata, sempre in tema di detenzione domiciliare, è stata messo un grande stop a questo controllo della pandemia. I numeri della pandemia in carcere non sono stati altissimi e questo vuol dire che erano assolutamente necessari quei provvedimenti di scarcerazioni dei più  vulnerabili e di costruzione di reparti per positivi al Covid, al fine di assicurare il distanziamento sociale e fisico, soprattutto in casi di positività. Quello che non ha funzionato all’interno è stata l’informazione interna: i detenuti sono stati informati e male e la situazione pandemica. Invece è stato importante l’aver aperto  alla possibilità della comunicazione all’esterno via Skype e Whatsapp e speriamo che questa rivoluzione digitale e tecnologica non si fermi. 

D: La magistratura di sorveglianza invece? Secondo lei che ruolo ha avuto, come si è comportata davanti a questa situazione inedita?

La magistratura di sorveglianza è intervenuta a macchia di leopardo. In alcuni casi non rendendosi conto della gravità assoluta della situazione, in altri invece rimboccandosi le maniche con provvedimenti urgenti e importanti, presi per favorire uno svuotamento delle carceri da chi era verso la fine della pena. Quindi come sempre non è possibile dare un giudizio unitario ma a macchia da leopardo. 

D: Parliamo di voi. Nel concreto, quali sono stati gli interventi più importanti che avete proposto per rispondere alla pandemia in carcere? Sono stati accolti?

Noi in questa fase ci siamo mossi su due campi: proporre iniziative e normative dirette a decongestionare il sistema penitenziario e a favorire la comunicazione con l’esterno attraverso gli strumenti informatici. In questo secondo caso, siamo stai ben ascoltati fortunatamente. Nel caso della detenzione domiciliar noi chiedevamo ben altro e chiedevamo ben altra incisività rispetto dai provvedimenti presenti nel Decreto Legge del governo di marzo. Poi,dall’altro lato, abbiamo lavorato per tutelare i diritti dei detenuti a rischio in questa fase. Abbiamo messo in piedi una struttura di oltre cinquanta persone tra cui giovani, esperti e avvocati che davano risposte in tempo reale a distanza a chiunque ci scrivesse e abbiamo prodotto anche, purtroppo, alcuni esposti per violenze e torture e uno di questi (il caso di Santa Maria Capua Vetere) è arrivato all’avvio dell’azione giudiziaria per tortura. 

D: Durante questo periodo, è stato fatto un primo passo sull’utilizzo delle nuove tecnologie per favorire i contatti con l’esterno a beneficio del detenuto. Misura la cui effettività varia in base alla capienza dell’istituto e alla disponibilità di apparecchiature, spazi e personale dell’A.P. Crede che il mantenimento dell’identità digitale del detenuto possa superare la provvisorietà del momento emergenziale?

Il carcere non è fuori dalla vita delle persone. Non bisogna far entrare una persona in un carcere e bloccarla dalle potenzialità tecnologiche e poi rimetterla fuori e dire ‘ora ti risocializzi’. Come si risocializza se in realtà è un essere anomalo, essere che non può usare tutto ciò che noi usiamo. In più mantenere i contatti, specie per i detenuti stranieri e per chi detenuto lontano da casa è fondamentale. La circolare che ha concesso l’utilizzo di questi strumenti spero che divenga la normalità, che vada oltre i tempi della pandemia. Gli spazi ad hoc per fare un collegamento Skype non è necessario che ci siano. È solo una questione di volontà di superare questo pregiudizio che nulla ha a che fare con la sicurezza. Basta mettere delle forme di controllo ‘parentale’ che non permettano al detenuto di collegarsi a siti considerati non accettabili. Comunque per tutto ciò che non è ricollegabile all’alta sicurezza, si può fare tranquillamente. 

D: Quale è stato l’effettivo utilizzo dei braccialetti elettronici in questo periodo? Perché, secondo lei, l’utilizzo e l’effettiva applicazione di questi strumenti è sempre stato così ostacolato dalla politica?

Se ne parla su due terreni: uno la disponibilità che risulta essere scarsa, come in passato, con costi molto elevati. Era stato garantito la presenza di circa 500-600 braccialetti al mese. Il primo mese ci sono stati, il secondo mese non abbiamo avuto contezza di questo. I numeri non sono sufficienti rispetto alle richieste. Detto questo, c’è probabilmente anche un eccesso di richiesta di controllo. Per alcuni casi è necessario, non per tutti quelli che hanno avuto accesso in misura alternativa. Penso, ai tossicodipendenti il controllo deve essere sociale, medico, umano e non tecnologico. 

D: Mettendo da parte la pandemia, la polizia penitenziaria è la categoria professionale numericamente più presente negli istituti penitenziari, mentre per gli educatori si rileva una presenza nettamente inferiore. Quanto incide questo sull’effettiva perseguibilità del fine rieducativo della pena?

Fortunatamente è stato appena  imbandito un nuovo concorso per nuovi 95 educatori, 45 direttori. Questo supplisce una carenza di personale storico. Abbiamo circa 35mila di poliziotti e un migliaio di educatori. Quindi questo rende molto difficile il perseguimento di quel fine costituzionale della pena che dovrebbe sere rieducativo. Ma anche la scarsità di direttori mette questi ultimi nella posizione di dirigere due o più carceri; questo rende difficile il management del carcere. C’è anche bisogno di un ricambio generazionale perché il carcere produce bornout, produce stanchezza.

D: Purtroppo, anche in questi giorni abbiamo notizia di nuovi suicidi nelle carceri. Quanto incide l’assenza di un numero adeguato di psicologi, educatori e in generale di risorse umane su questo fenomeno? Esiste una correlazione tra questi due aspetti?

Sicuramente esiste una correlazione tra un numero scarso di operatori socio- sanitari e i suicidi. Il suicidio è sempre una scelta di disperazione individuale ma quella disperazione va intercettata tramite la conoscenza di quella persona. Se il detenuto continua ad esser un numero, la sua disperazione sarà ignota a tutti e quindi produrrà l’evento suicidario. È necessario che ci sia  un numero sufficiente  di persone in modo tale che ogni persona sia realmente presa in carico. Quindi non c’è un legame diretto con il sovraffollamento, ma sicuramente è un legame indiretto fra suicido e sovraffollamento.

D: In questo periodo si è parlato tanto di 41-bis, per via delle polemiche inutili e dannose che conosciamo. Secondo lei il 41-bis è un istituto che ha ancora senso al giorno d’oggi? Al di là della sua possibile efficacia, lo ritiene compatibile con i principi costituzionali?

Il 41 bis è un tema difficilissimo da affrontare. C’è chi, quando ne parli o ti esprimi in un certo modo, ti inchioda dicendo che sei un sostenitore della mafia. Tolto questo stereotipo interpretativo, si può ovviamente criticare il 41 bis pur ritenendo che la mafia sia un tumore sociale. Detto questo, e ritenendo importante la differenziazioni del trattamento penitenziario con persone che hanno una storia mafiosa alle spalle, il 41 bis deve avere necessariamente dei limiti, non può avere una gestione illimitata nelle pratiche vessatorie e punitive. Si tratta di ragionevolmente prevedere che questa differenziazione di trattamento non si spinga a cancellare tutti i diritti, e a cancellare, ad esempio, il diritto alla salute che è universale.  L’art 32 non prevede un’ eccezione per determinate persone. Ecco, è necessario trovare un delicato equilibrio attraverso il contemperamento fra diritti e sicurezza pubblica. 

D: Per concludere. Ci dica i tre interventi fondamentali che bisognerebbe attuare per riportare le nostre carceri in una dimensione di civiltà e di costituzionalità. I tre interventi indispensabili, dai quali non si potrebbe e non si dovrebbe prescindere per una riforma penitenziaria garantisticamente orientata

Primo, un intervento extrapenitenziario. Iniziare a ragionare alla non esclusività del carcere come pena. Bisogna iniziare a pensare su altre pene, altrimenti non ce la faremo mai. Il carcere non può essere l’unica pena possibile per tanti reati. Ci vogliono altri tipi di pene. Secondo, la vita in carcere va resa veramente simile alla vita normale. La persona in carcere non deve sentirsi un qualcosa ed un qualcuno completamente spurio alla vita ordinaria e quindi il carcere deve riprodurre pezzi di vita ordinaria. Attraverso la scuola, i lavoro, le dinamiche sociali, nell’affettività. La seconda proposta può essere proprio questa: ripartire con briciole ed embrioni di vita normale di tipo affettivo, assicurando anche la sessualità all’interno delle carceri. Terzo intervento, assumere 1000 giovani direttori di penitenziari di tra i 25 e i 30 anni, ben formati. Mandarne due o tre per carcere per imparare il mestiere e quindi investire in una generazione che possa essere formata secondo lo spirito costituzionale. E’ un lavoro che produce bornout e quindi è necessario investire in una nuova generazione di persone che credano davvero nel fine costituzionale della pena.