Secondo Roberto Cavalieri, Garante regionale dei detenuti dell’Emilia-Romagna, “il volontariato penitenziario è il pilastro sul quale si realizza il contatto tra città e carcere” e svolge, di fatto, un ruolo attivo decisivo all’interno dei percorsi riabilitativi rivolti alle persone ristrette. Ciò, sempre affinché la detenzione sia “un momento costruttivo di preparazione alla libertà e non un parcheggio dove i documenti scadono, le persone si ammalano e perdono le competenze e le conoscenze“. Da queste premesse si è mossa l’iniziativa “Conoscere il carcere per progettare il volontariato”, conclusasi lo scorso dicembre e organizzata dal Garante dei detenuti Emilia-Romagna con una vasta collaborazione degli enti regionali. Del lungo ciclo d’incontri formativi nelle strutture carcerarie regionali e, più ampiamente, del mondo del volontariato, ci ha parlato proprio Roberto Cavalieri.
Da cosa è nata l’iniziativa “Conoscere il carcere per progettare il volontariato”? Qual è il suo fine?
È una delle tappe dedicate alla promozione dei diritti delle persone detenute oppure sottoposte a misure limitative o privative della libertà personale. Le precedenti iniziative, già realizzate nel corso di questo mio mandato di Garante regionale, hanno riguardato la residenza, il permesso di soggiorno, il lavoro penitenziario, il trattamento dei detenuti sex offenders. Sono iniziative di ricerca, analisi, riflessione e formazione dedicate a vari aspetti dei meccanismi che coinvolgono gli operatori penitenziari e i detenuti, e meritano attenzione. Tra questi, il volontariato penitenziario è il pilastro sul quale si realizza il contatto tra città e carcere. Il fine è stato quello di fare un’analisi di diverse tematiche in cui sono coinvolti i volontari penitenziari: contrasto alla povertà, scuola, lavoro, accoglienza, culto religioso, etc. Grazie ad un questionario siamo riusciti ad analizzare le reti nei diversi territori, dopodiché abbiamo portato i risultati della ricerca in un convegno dove alcuni esperti in materia penitenziaria hanno potuto commentarli.
Qual è il ruolo del volontariato all’interno degli istituti penitenziari?
Il volontariato penitenziario è previsto dagli articoli 17 e 78 dell’ordinamento penitenziario e riveste un ruolo molto importante nel lavoro dedicato al trattamento dei ristretti. In collaborazione con le direzioni degli istituti penitenziari e dei suoi collaboratori, il personale dell’area trattamentale e la Polizia Penitenziaria realizzano servizi e progetti a favore dei detenuti. Dalla ricerca emerge però un quadro critico circa la realizzazione piena del potenziale del volontariato. Dinamiche organizzative e poco confronto tra gli attori delle reti istituzionali (che vedono coinvolti anche gli enti locali, oltre alle direzioni delle carceri e alla magistratura di sorveglianza) comprimono molto il volontariato, con il rischio di ridurlo ad un mero erogatore di servizi dei quali spesso è molto difficile misurare l’efficacia o la priorità nel contesto penitenziario in cui si realizzano. È necessario agire in modo che il volontariato assuma il ruolo che gli è proprio così come previsto dall’ordinamento penitenziario. Pertanto, bisogna che le direzioni delle carceri, i magistrati di sorveglianza e gli educatori programmino almeno annualmente le attività e i servizi, qualificandoli per quelli che sono i reali bisogni dei detenuti.
Esistono delle caratteristiche che rendono progetti di questo genere particolarmente efficaci e replicabili anche in altre strutture? Può farci un esempio?
In ciascun penitenziario esiste almeno un progetto valido gestito dal volontariato, ma il problema è che molto spesso quel progetto si realizza in quell’unico istituto. Con ciò intendo evidenziare che siamo molto lontani dall’avere una rete regionale di volontariato capace di “esportare” un buon progetto in altri istituti e territori. E la cosa più grave è che l’amministrazione penitenziaria non si fa promotrice di trasferire le buone pratiche tra gli istituti. Così, in un carcere si trova un ottimo servizio di distribuzione d’indumenti per i detenuti, ma lo stesso servizio non esiste in un altro carcere. Quest’aspetto va superato perché bisogna offrire ai detenuti, almeno del medesimo circuito, le pari opportunità nella vita detentiva, altrimenti c’è sempre chi sta peggio di altri. A questo proposito devo dire che sono un poco pessimista, perché vedo sempre tante resistenze da parte di tutti. Pensi che il convegno sul volontariato penitenziario è stato la prima esperienza simile in regione. Spero che porti a qualcosa, che abbia disseminato conoscenza e che sia stata un’occasione per prendere atto dell’esistenza di questo problema.
Secondo Lei, quali sono le criticità più evidenti nel rapporto fra il mondo del volontario e le amministrazioni penitenziarie della regione Emilia-Romagna?
Lo studio che abbiamo realizzato evidenzia due fonti di problemi. Da una parte, l’amministrazione penitenziaria non si confronta a sufficienza con il territorio, non presenta le proprie caratteristiche e le scelte organizzative, né tantomeno il proprio piano trattamentale. Dall’altra, nel volontariato non esistono i giovani, ed è un mondo rappresentato da persone troppo adulte, che dedicano solo qualche ora alla settimana al carcere. Lo stato di emergenza che vivono le carceri e il numero crescente di bisogni impongono un ammodernamento di questo sistema, a partire dal coinvolgimento di giovani laureati e dall’ideazione di formazioni e preparazioni specifiche per i diversi settori di detenuti di alta sicurezza e media sicurezza, per gli anziani e i giovani adulti, per gli italiani e gli stranieri. I detenuti non sono tutti uguali. Alla complessità si risponde con strategie complesse, non con la semplificazione, che porta solo criticità.
Lo scorso dicembre si è concluso il ciclo di visite formative, dedicate ad operatori del volontariato, presso i dieci istituti penitenziari della regione. Quali sono le principali sfide che gli istituti penitenziari in questione devono affrontare oggi, e quali sono le prospettive per il volontariato nel sistema penitenziario regionale?
Quello delle visite formative in carcere, ovvero portare volontari di altri territori a visitare un carcere per conoscerne l’organizzazione e il funzionamento, è stato un modo per stimolare la conoscenza della complessità dei nostri istituti e, per così dire, “portarsi” a casa delle buone pratiche. C’è stata una partecipazione straordinaria, di oltre 200 volontari. Il tema trasversale ai dieci istituti della regione è la povertà, spesso accompagnata dalla tossicodipendenza, dal disagio psichiatrico e dai fallimenti. Nell’arco di 3 anni abbiamo accumulato oltre 300 detenuti in più e sta andando sempre peggio. È necessario offrire servizi di accoglienza nei territori e sfruttare la detenzione come un momento costruttivo di preparazione alla libertà e non come un parcheggio dove i documenti scadono, le persone si ammalano e perdono le competenze e le conoscenze.
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