Abbiamo raggiunto il Cardinale Matteo Maria Zuppi, Arcivescovo di Bologna e Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, reduce da una visita alla Casa Circondariale “G. Dozza” di Bologna, dove ha incontrato i detenuti in occasione della consegna del Codice ristretto (una guida sui diritti delle persone detenute). Non è la prima volta che il Cardinale dimostra attenzione e umanità per il difficile contesto penitenziario bolognese e italiano, e proprio per questo motivo abbiamo voluto rivolgergli qualche domanda.


*crediti foto in calce all’articolo

Don Matteo Zuppi, qualche mese fa, durante un’altra sua visita presso la Casa circondariale di Bologna, una persona detenuta si è tolta la vita inalando del gas da una bomboletta. Dall’inizio dell’anno, si è trattato del 26esimo suicidio in carcere, ma vogliamo chiamare per nome quella donna: Alica. Questo, per non dimenticare che dietro al dramma del suicidio c’è sempre un volto e una storia. Eppure, l’elevato numero dei suicidi[1] è sintomo di un’emergenza strutturale delle nostre carceri. Non possiamo non citarlo accanto al fenomeno del sovraffollamento, che rappresenta già “in ingresso” una prima dissociazione del detenuto dal proprio corpo, privato dello spazio minimo vitale. Non a caso, lei lo scorso 8 luglio ha partecipato, a Bologna, alla “Maratona oratoria” dell’Unione delle Camere Penali Italiane contro i suicidi in carcere, per denunciare che “non c’è più tempo”. Si può intervenire? Come?

Anzitutto bisogna provare a capire, al di là delle singole storie, nello specifico che cosa rivela questo dato così rilevante, che non soltanto non diminuisce, ma è in crescita. Quindi, occorre capire il segnale e cosa si dovrebbe fare per correre ai ripari, cioè come cercare delle soluzioni a un mistero che poi resta sempre tale. Responsabilmente tutti dobbiamo interrogarci sui motivi, al di là di dire semplicemente cosa non funziona e cosa accresce. Nella mia ultima visita alla Dozza, un detenuto ci ha detto che non è soltanto un problema di sovraffollamento. Certamente no, anche se le condizioni di sovraffollamento riducono l’attenzione alla singola persona. Quando si ha un numero doppio di detenuti e non si ha un numero doppio di organico (spesso sotto il minimo), la polizia penitenziaria è costretta a una vigilanza necessariamente meno precisa, perché deve fare i conti con un numero maggiore di persone detenute. È chiaro che si tratta di un fattore per cui è più difficile stabilire un rapporto causa-effetto. In particolare, la minore attenzione sicuramente si nota nel campo della psichiatria, che spesso accompagna alcuni fenomeni e scelte drammatiche come è togliersi la vita. Si tratta di percorsi difficili, che passano anche per la manifestazione di crisi dell’equilibrio, la depressione o quantomeno una certa confusione: tutti momenti e condizioni che richiedono sempre grande attenzione. Su questo, penso che ci sia ancora tanto da compiere.

Spesso la tragicità del sovraffollamento e del suicidio si ripropongono, analogamente al carcere, anche nei CPR, alla luce di flussi migratori sostenuti e costanti. È il dramma di una detenzione amministrativa disumana. Alcuni mesi fa, il suicidio di Ousmane Sylla nel CPR di Ponte Galeria a Roma ci ha riportati al tema di quei migranti “prigionieri” nel nostro Paese, privati del loro status di persone. Si crede di rispondere a una domanda di sicurezza, ma confinare le persone migranti in queste strutture non aumenta, al contrario, la nostra insicurezza sulle garanzie fondamentali di ogni individuo?

È una soluzione che ci dà la presunzione di essere più sicuri, quindi è doppiamente sbagliato: perché certamente non siamo più sicuri, ma lo crediamo; poi, restiamo ancora più impauriti quando ci accorgiamo che non c’è la sicurezza che ci veniva indicata. Non c’è niente di peggio che il “non-senso”. Molte volte questi stati di detenzione “senza senso” sono davvero pericolosi, incattiviscono, fanno sentire a chi è già precipitato all’inferno che non vi è alcuna possibilità di uscirne. Ma noi, per vincere l’inferno e tirarne fuori chi davvero vi è stato, dobbiamo dare una speranza. E allora il contrario dell’inferno, dove uno solitamente precipita per le proprie scelte, non può essere questa condizione, altrettanto infernale, come è la condizione di tanto sovraffollamento. Il contrario dell’inferno non può essere un “limbo”. Bisogna dare speranza, aprire una luce. Questo è quello che davvero dà sicurezza e restituisce identità, come è anche in carcere per la rieducazione, che è il fine delle pene (al plurale) e quindi anche del carcere.

Torniamo proprio al carcere. Di recente la Corte costituzionale ha riconosciuto il diritto all’affettività per le persone detenute. È stata una pronuncia importante, se si considera che la cornice di garanzie penitenziarie in tema di relazioni (corrispondenza, telefonate, colloqui) presenta da sempre forti limiti intrinseci. Di fronte a questa svolta, la critica di alcuni è quella (per usare un’espressione forte) di un “carcere come bordello”, al di là dei rischi in materia di sicurezza. Non si può, invece, pensare che la garanzia di una relazione affettiva e intima in carcere possa essere una mano tesa verso la risocializzazione?

Lo è certamente, nel senso che porta proprio a mantenere rapporti e relazioni. Per qualcuno, tuttavia, anche questo, purtroppo, viene visto in un’idea meramente punitiva, come a dire “ci mancherebbe altro, gli diamo pure questa”. Ma noi dobbiamo uscire da un’idea soltanto punitiva, da un’idea meramente vendicativa, da un’idea medievale, con tutto il rispetto per i medievali che in molti casi erano molto più civili di noi. Su molte cose siamo tornati indietro. Non si tratta di “mettere una gogna” e di “farla pagare”, cioè di usare una logica vendicativa: perché c’è sì la punizione indispensabile per la sicurezza, ma soprattutto deve esserci quella per la rieducazione, che ci dà vera sicurezza. Se, però, mancano strumenti per una vera rieducazione, e il legame affettivo è uno di questi, si resta in una logica soltanto punitiva, che incattivisce e peggiora la situazione. E aggiungo che anche la relazione che può instaurarsi nell’ambito della giustizia riparativa, al di là degli aspetti tecnici e dei suoi meccanismi previsti dalla riforma “Cartabia”, può contribuire, nell’aspetto dell’incontro gratuito tra vittima e colpevole, a superare il male commesso e restituire quel tessuto di comunità che il male ha rovinato.

Oggi in Italia ci sono 26 bambini detenuti insieme alle loro madri. Si tratta di piccoli che non hanno alcuna colpa, ma per cui rimane forte il diritto di restare insieme alle loro mamme. Talvolta, sullo sfondo, per le madri sussistono esigenze di sicurezza ostative a misure alternative al carcere; ma che questi piccoli ne condividano la pena è un sacrificio davvero necessario? Le istituzioni possono fare qualcosa?

Certo, le istituzioni dovrebbero creare luoghi alternativi al carcere. Come ha detto Marta Cartabia, a volte vi sono situazioni ostative per cui è estremamente difficile “portare fuori” la mamma e permetterle di restare fuori dal carcere, ma consistono più che altro nella mancanza di luoghi adatti. Finché non pensiamo in una direzione diversa, inevitabilmente ci saranno situazioni ostative che potranno più facilmente tenere i bambini in carcere. E questa è un’assurdità.

Sul versante della giustizia minorile, il Governo ha ultimamente adottato una strategia in chiave puramente repressiva. Il Decreto c.d. Caivano, che tra le altre cose aumenta i casi di carcere preventivo, è il simbolo di una “risposta dura” dell’ordinamento e dell’idea di una “rieducazione forzata” per il minore. Perché per ragazze e ragazzi inseriti in contesti di criminalità si parla tanto di prevenzione sociale, ma poi l’unica soluzione rimane l’extrema ratio del carcere?

Perché investiamo troppo poco e manca un sistema. Siamo in una fase esperienziale, anche importante, di itinerari sociali che però non trovano una sistematizzazione istituzionale. Ed è quello che appunto va fatto. Di fondo, un po’ dobbiamo liberarci dell’idea del carcere meramente punitiva. Se noi resteremo di fatto, pur con qualche maquillage, in una logica soltanto punitiva, non cambierà mai nulla. E non va bene. La visione deve essere diversa da quella attuale: avremo più sicurezza e forse ci determineremo a mettere in piedi sistemi di cura, attenzione e rieducazione per i minori come anche per gli adulti.

Un’ultima domanda “secca”. Don Matteo, pensando alle nostre carceri, punizione e rieducazione della persona sono incompatibili?

No, sono assolutamente complementari. È chiaro che la detenzione è una punizione, e che in alcuni casi i magistrati o i direttori degli istituti penitenziari, in fase di esecuzione della pena, stabiliscono alcune punizioni dinanzi a comportamenti scorretti. Guai se questo non ci fosse, perché equivarrebbe a omologare qualunque tipo di scelta. Tuttavia, se non c’è la parte rieducativa, allora la pena è fine a se stessa e quindi non serve; anzi, diventa motivo in più di rabbia e incattivimento.


[1] Al momento dell’intervista, i suicidi in carcere avevano raggiunto il numero di 57. Ad oggi, il dato è già aumentato: si è intorno a 60.

*foto ricavata dall’articolo “Dottorato honoris causa della Sapienza al cardinale Zuppi” pubblicato sull’Avvenire