Abbiamo intervistato Alessandro Gamberini, noto Avvocato penalista del Foro di Bologna e Docente di Diritto Penale nella facoltà di Giurisprudenza dell’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna. Partendo dai recenti fatti di violenza sessuale avvenuti a Palermo, con lui abbiamo discusso della necessità di un cambiamento culturale (prima di un intervento di matrice penale) per fronteggiare problemi di natura sociale, ma anche della linea politica del governo in materia e, in particolare, della proposta inerente alla castrazione chimica, cavalcata da alcuni esponenti della maggioranza.


Quando i fatti di cronaca generano ampie riflessioni e un acceso dibattito, può accadere che certa politica colga l’occasione per strumentalizzare, in chiave penalpopulistica, gli umori più bassi e i sentimenti più ribollenti. Così è avvenuto anche per il caso di Palermo, a seguito del quale esponenti del governo si sono espressi in termini drastici, invocando pene draconiane o misure come la castrazione chimica. È il giusto modo di approcciare il problema, o bisognerebbe prima agire su altri piani?

Il tema è noto. Non è da oggi che certa classe politica, di fronte a fatti di cronaca raccapriccianti che generano determinate (e comprensibili) reazioni nell’opinione pubblica, utilizza questo tipo di retorica. Tuttavia, nel caso che commentiamo, quel che colpisce maggiormente è la truculenza del linguaggio. Così come trovo raccapricciante la proposta di Salvini (per l’introduzione della castrazione chimica, ndr). Più in generale, io credo che in talune materie, ad esempio quella riguardante la libertà sessuale, occorra partire dalla tutela delle donne, vittime privilegiate di femminicidi, stupri ed altre forme di aggressioni, stalking; soprattutto bisogna partire da dati culturali che sembrano essere ignorati dai soggetti che si muovono sul terreno politico. Così, se vengono esaltati personaggi come il generale Vannacci che va blaterando sul ruolo delle donne e sulla persona umana, queste teorie assolutamente inaccettabili diventano il fondamento culturale di quel tipo di aggressività che si manifesta nei confronti delle donne, indicate come proprietà dell’uomo ed assegnate a un ruolo a cui devono accedere per loro vocazione naturale. Pensando, ancora, ai femminicidi, solitamente chi si macchia di questo delitto poi si costituisce o si suicida. Allora, è evidente che la pena non potrà mai avere mai nessuna capacità di dissuasione: colui che compie il gesto è consapevole di compierlo al prezzo della propria vita. Di questi temi, tuttavia, se ne occupano in pochi. Men che meno questa destra al governo.

Soffermiamoci sulla proposta che ha appena citato. Il Ministro Salvini, per promuovere la castrazione chimica come pena da infliggere a chi commette violenze sessuali, ha affermato che «se commetti uno stupro il carcere non basta, devi essere curato». È una soluzione accettabile?

Salvini non è nuovo a proposte del genere in materiale penale. Quando era al governo con i 5 stelle, ha fondato l’incremento del suo successo su iniziative simili. La proposta, tipica di una certa cultura della destra di questo paese, esprime l’idea che ci siano delle scorciatoie: “Introduciamo la castrazione chimica e non succederà più nulla”. Figuriamoci. La castrazione chimica è una misura orripilante, in quanto significa un intervento direttamente sul corpo del condannato; e allora perché non la tortura o il taglio delle mani? È evidente che dal punto di vista politico-culturale non ci sia nessuna riflessione dietro, c’è soltanto l’idea di lanciare una proposta che desti scalpore e appaghi la voglia di sangue del suo elettorato. In questo caso, poi, riferito a dei ragazzini che, nonostante abbiano commesso una cosa gravissima, restano dei ragazzini, è una follia. Inoltre, bisognerebbe comunque aspettare che la condanna diventi definitiva, e allora si riproporrebbe lo stesso orrore che si produce di fronte alla pena di morte: anni e anni di attesa estenuante, prima di procedere ad un rito sanguinario.

È di dominio pubblico la notizia secondo cui i sei imputati per i fatti di Palermo sono stati destinatari di minacce da parte di altri detenuti, al punto che la direzione del Carcere di Palermo ha richiesto al DAP il loro immediato trasferimento. In un contesto già drammatico, stupisce e inquieta che la reazione di una certa classe politica non sia quella di condannare queste situazioni, ma di legittimarle. Il sottosegretario alla Giustizia Del Mastro, per esempio, ha affermato che i sei ragazzi sono «belve» che dovrebbero «marcire in galera», e che per loro andrebbe peggio se lui «potesse averli tra le mani». Cosa gli risponderebbe?

Un sottosegretario che si esprime in questi termini rappresenta un’ulteriore degenerazione del populismo, cavalcato con termini particolarmente raccapriccianti, soprattutto se si pensa che questa dichiarazione fa parte di un’intervista su un quotidiano nazionale (La Repubblica, ndr). La battuta che ha fatto il Sottosegretario alla Giustizia altro non è che un’istigazione a delinquere e d’incitamento all’utilizzo della violenza senza mediazione; esattamente il contrario di ciò che è il diritto penale, ossia una violenza mediata e legalizzata, a cui è concesso d’incidere esclusivamente sulla libertà personale in quanto extrema ratio di fronte a fatti gravissimi. Tutti sanno che le persone imputate di questo tipo di reati sono spesso vittima di violenza da parte di altri detenuti. Con queste dichiarazioni vergognose, il meccanismo che delega all’ambiente carcerario ulteriori forme di violenza viene legittimato ed alimentato. Infatti, sono immediatamente scattate le minacce e la necessità di trasferimento.

Nello specchio deformato dei mass media, sembra che la “macchina della giustizia” debba essere unicamente orientata a comminare condanne esemplari a coloro che sono già stati giudicati colpevoli dal “tribunale del popolo”. Ciò produce un’indebita esaltazione del ruolo del pubblico ministero che, da accusatore (e parte del processo), viene elevato ad unico e vero interprete della volontà della giustizia. Di conseguenza, il giudice che non sposi la tesi propugnata dall’accusa viene linciato e pubblicamente messo alla gogna, mentre l’avvocato (e il diritto di difesa) addirittura considerato un intralcio al regolare compimento del processo. Cosa c’è di sbagliato in questa ricostruzione?

I reati legati alla sfera sessuale rappresentano una materia in cui è molto difficile attuare una difesa e l’avvocato, soprattutto quando difende cause radicalmente impopolari, è comunque attaccato. Addirittura, in taluni casi è minacciato e corre dei rischi con riferimento al suo ruolo e alla sua incolumità. Anche dal punto di vista del giudice, non è facile. Quando si discosta dall’aspettativa di condanna – che è sempre il dato di fondo da cui si parte – viene subito messo alla gogna, o comunque la sentenza viene indicata come anomala. Addirittura, io ricordo polemiche per la concessione di una semi infermità mentale: è evidente che ci può essere un errore nel concederla, ma se c’è un accertamento peritale che la consiglia al giudice, egli può applicarla al contesto e magari una pena di anni 30 viene ridotta ad anni 15 (sempre di pena carceraria pesante si tratta). Anche in questi casi, la polemica è in agguato perché viene smentita l’aspettativa che i mass media costruiscono: che ci sia immediata ed esemplare condanna, senza remissione e senza valutazione concreta degli avvenimenti.

Per concludere, una considerazione sulla linea politica del governo. Secondo lei esiste davvero una distanza tra le posizioni di Nordio e quelle del governo? Nordio ha sempre espresso posizioni liberali, poi, però, alla prova di governo…

Nordio è diventato Ministro della Giustizia accompagnato da una fama di uomo liberale. Personalmente, io ho sempre pensato che una delle ragioni della fama liberale di Nordio fosse dovuta al fatto che era un PM fuori dal coro, e perciò è sempre stato visto, in particolare dagli avvocati, come una luce nel buio. Da parte mia, Nordio non ha mai goduto di particolare stima. Non lo considero una persona di particolare spessore e non sono il solo a pensarlo. Di certo siamo di fronte ad una figura culturalmente modesta e la sua modestia culturale è emersa fin dall’origine, quando ha affrontato in modo pressapochista temi come la riforma delle intercettazioni o la separazione delle carriere dei magistrati. Dunque, non mi sorprende che non riesca ad attuare riforme volte a ripristinare certe forme di garanzie o a rimettere in sesto un sistema giudiziario che, negli ultimi anni, spesso non è più stato in grado di compiere accertamenti penali condivisibili. Perché è questo il punto fondamentale: l’accertamento penale è sempre fallibile, ma è la ragionevolezza del metodo tramite cui si produce un certo risultato che determina la sua accettazione sociale, ormai venuta a mancare perché l’itinerario è sempre più irragionevole e sbilanciato sul versante della pubblica accusa, quand’anche la pubblica accusa venga smentita nel corso del processo o addirittura anni dopo. Io non penso, per tornare alla domanda, che Nordio sarà capace di fare riforme che pongano rimedio, fermo restando che è anche difficile immaginare delle riforme che effettivamente pongano rimedio ai problemi che sconta la giustizia penale. Infatti, bisogna sempre ricordare che la giustizia è fatta di metodi, di sistemi e anche di uomini: esiste un’antropologia giudiziaria, un’antropologia culturale dei magistrati. I protagonisti dell’amministrazione della giustizia e alcune cose che si sono verificate negli ultimi anni sono frutto anche di un decadimento complessivo (dal punto di vista culturale e professionale) dei protagonisti della funzione. Non si può pensare di aver la bacchetta magica e di introdurre, ad esempio, forme di separazione delle carriere e credere che questo rimedierà tutto.

L’introduzione del codice di procedura penale del 1989, improntato sul modello accusatorio, può essere un esempio di questo tipo?

Esatto, il codice del 1989 è un sistema. Poi, nelle modalità tramite cui è stato applicato, vi sono state delle degenerazioni frutto del modo in cui viene amministrata la giustizia. Una soluzione a queste degenerazioni, figlie anche del fatto che l’ambito del diritto penale va sempre più espandendosi, sarebbe una riduzione drastica dell’area del penale – così da deflazionare la macchina della giustizia e il carico di lavoro dei magistrati – e l’abbandono dell’idea, ormai radicata nell’immaginario collettivo, secondo cui il processo penale può essere luogo salvifico di soluzione dei conflitti sociali. È necessario che il diritto penale ritorni a quel che è: l’extrema ratio per fronteggiare fenomeni sociale pericolosi, che non possono essere affrontati in altri modi e che devono trovare una sanzione; sanzione che, è bene sottolinearlo, non dev’essere automaticamente il carcere.