La crisi del diritto penale liberale, l’addio alla ricerca del minimo sacrificio sacrificio necessario, l’aggressione sempre più violenta nei confronti delle garanzie individuali. Un’analisi del presente attraverso tre esempi di leggi penali liberticide e (potenzialmente) in contrasto con lo Stato di diritto, dal governo giallo-verde al governo giallo-rosso.

Introduzione: l’erosione del modello del diritto penale liberale

Il diritto penale pare oggi essersi congedato dall’ideale illuministico di un diritto penale del limite, di un complesso di garanzie poste a presidio del reo e di un insieme di limiti all’esercizio arbitrario dello ius puniendi. Una potestà punitiva che, al contrario, aveva caratterizzato il modello penalistico nelle epoche antecedente la “rivoluzione dei lumi” quale forma di riaffermazione del potere assoluto del sovrano messo in discussione dalla perpetrazione del delitto. 

Uno spettro si aggira  pericolosamente nella riflessione odierna sul diritto penale, una concezione tanto atavica quanto saldamente radicata nella coscienza collettiva: l’idea che il reato, nella sostanza, si risolva sempre in un’intollerabile offesa all’autorità costituita, in uno svilimento della propria potestà, in una delegittimazione della propria funzione al tempo nomotetica e politica. Ed in questo senso il diritto penale (e segnatamente la pena) svolgerebbe una funzione quasi catartica, di riaffermazione dell’assetto di potere messo in discussione dal miasma generato dal reato, attraverso la forza e la dirompenza della punizione. Null’altro se non la più classica triade hegeliana: il divieto penale quale tesi, il delitto quale antitesi finalizzato a mettere in discussione la vigenza del precetto, la pena quale riaffermazione della norma violata dal delitto. Una riaffermazione che non pare scindibile dalla violenza della reazione, oggi declinata soprattutto sotto l’ambigua forma della spettacolarizzazione della punizione. 

Un diritto penale avvertito sempre maggiormente quale panacea di ogni disfunzione sociale, quale formula risolutiva per far fronte a qualsiasi situazione emergenziale, vera o presunta tale. Una disciplina, quella penalistica, interessata da una preoccupante estensione ubiquitaria, quale forma di controllo sociale attraverso la minaccia – prima – e l’irrogazione – poi – della punizione. Non è un caso che l’ultimo pamphlet del Prof. Filippo Sgubbi sia icasticamente intitolato “Il diritto penale totale” (Il Mulino): una materia che si costituisce sempre maggiormente come mera scienza della mortificazione del reo, per di più attraverso una dilatazione tentacolare dei limiti del perimetro dell’illiceità penalmente riprovata. Incorrere in una violazione della legge penale sta diventando, insomma, un rischio sociale, quasi tollerato da una coscienza collettiva anestetizzata dal richiamo suadente della punizione elargita e resa ostensibile. L’antropologo francese Didier Fassin nel suo saggio “Punire. Una passione contemporanea” (in Italia Feltrinelli) parla di una delocalizzazione del processo dalla sede naturale (le aule di giustizia) ad una sede artefatta (i talk-show televisivi), con una brama di spettacolarizzazione delle vicende processuale – e delle annesse vite dei soggetti coinvolti – paragonata ad una nuova forma di pornografia. Un processo che si spoglia di quella sacramentalità, di quella liturgia delle forme non fini a sé stesse, ma funzionali a rendere la dinamica processuale un itinerario di razionalità per la produzione di una decisione quanto più prossima alla verità storica dei fatti. Lo “splendore dei supplizi” che Foucault fedelmente descrive in “Sorvegliare e punire” non è, dunque, venuto meno, ma si è trasformato: oggi il supplizio è mediatico, ha abbandonato la truculenza degli squartamenti per assumere le vesti del più viscido annichilimento spirituale. 

La degenerazione di cui stiamo parlando è comune alle diverse esperienze politiche che si sono succedutesi negli ultimi anni. Nessun governo recente, nessuna frazione partitica può vantare un’illibata innocenza in quanto la torsione in senso propagandistico-elettorale del diritto penale ha interessato tutte le recenti fasi politiche. A dimostrazione che la decadenza di cui parliamo è, prima che giuridica e politica è di natura culturale e quindi, soprattutto, valoriale. 

  1. La Spazzacorrotti e il diritto penale del nemico:

Senza alcuna pretesa di esaustività ma a sostegno di quanto scritto finora, è utile passare in rassegna alcune tra le numerose riforme in materia penale che si inscrivono nel perimetro che si è cercato di delineare. La legge n. 3 del 2019, cosiddetta legge “Spazzacorrotti”, è emblematica della catabasi che il diritto penale sta attraversando. Della riforma in parola non può non colpire, in primo luogo, il linguaggio gergale, di per sé fortemente evocativo dell’intento, non celato, di un utilizzo del diritto penale come arma di lotta, come instrumentum regni, per rispondere alle diverse forme di criminalità che, a seconda delle contingenze, destano maggior allarme sociale. Nel caso di specie si tratta della criminalità dei “white collar”, che il linguaggio della legge intenderebbe spazzare via, come se la risposta al reato debba essere intesa come una tabula rasa, come una disinfestazione coûte que coûte del male. E allora nulla vieta la creazione di statuti differenziati, di modelli emergenziali speciali per combattere una criminalità percepita come sempre più intollerabile. In questo senso è paradigmatica l’inclusione nel novero dei reati cosiddetti ostativi, di cui all’art. 4-bis comma 1° della legge sull’ordinamento penitenziario (l. 354 del 1975), di alcuni reati contro la pubblica amministrazione, secondo quel modello reattivo di risposta alla criminalità amministrativa che inclina verso l’equiparazione di quest’ultima a forme ben più gravi di criminalità organizzata, come quella di stampo mafioso. La concessione dei benefici penitenziari – ad esclusione dei permessi premio, dopo la storica sentenza n. 253 del 2019 della Corte Costituzionale – indicati nel medesimo articolo è, dunque, preclusa ai condannati per i reati contro la p.a. inclusi nel novero ostativo a meno di una loro utile collaborazione con la giustizia (salvo che ricorrano le ipotesi di collaborazione impossibile o oggettivamente irrilevante disciplinate dal comma 1-bis del medesimo articolo). 

2. La riforma della prescrizione e l’idea illiberale del processo senza fine:

Indubbiamente la modifica normativa operata dalla legge “Spazzacorrotti” che ha destato maggiore scalpore è la novella in materia di prescrizione: una riforma che prevede il blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, con un’ostentata indifferenza al contenuto assolutorio o meno della medesima. Una riforma corredata dal fasto dei suoi auspici e da una presentazione in pompa magna, che agisce sul sintomo e non sull’eziologia di un problema grave come quello rappresentato dalla irragionevole durata dei processi. La prescrizione, infatti, rappresenta un limite ultimo, temporale al dispiegarsi nel tempo della potestà punitiva e della dinamica processuale e alla conseguente esposizione dell’imputato a quella che finisce per essere, de facto, già una poena naturalis, fonte di ingenti patemi. Una riforma inadatta sia nel contenuto sia rispetto agli scopi perseguiti e potenzialmente in contrasto con una pluralità di principi di rilievo costituzionale. Si pensi. evidentemente, alla ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 della Costituzione; ma si pensi anche all’art. 27, terzo comma, ed al principio della finalità rieducativa della pena: gli uomini, come tutte le entità del Reale, sono soggetti in fieri, le persone cambiano e un individuo che ha commesso un reato svariati anni or sono difficilmente mostrerà lo stesso bisogno di rieducazione avvertibile al momento della perpetrazione. Si pensi, infine, all’art. 24 ed al diritto di difesa che rimarrebbe un mero simulacro, una pallida ombra, in quanto a distanza di tempo non solo il corredo probatorio rischia di affievolirsi, ma la stessa ricostruzione dei fatti rischia di diventare incerta, ombrosa, difficilmente sintetizzabile nel teatro del processo.  

3. Lo Stato e “le vite degli altri”, l’Italia come 1984?

Un’altra riforma che rivendica piena cittadinanza nel percorso degenerativo di cui abbiamo tentato di tracciare le linee essenziali è quella operata dalla legge 28 febbraio 2020, n. 7 che ha convertito con modificazioni il decreto-legge 30 dicembre 2019, n. 161. Due gli aspetti più controversi della normativa in parola: l’ampliamento dell’utilizzo del trojan e la consacrazione del metodo della “intercettazioni a strascico”. Il captatore informatico inoculandosi nei dispositivi elettronici dilata la possibilità di controllo che l’autorità ha nei confronti dei consociati. Un controllo occulto, pervasivo degli spazi più intimi laddove si svolge la personalità dell’individuo. Volendo andare direttamente al centro della questione, il problema è quello del rapporto fra autorità e libertà. Una libertà compressa in forza di preminenti esigenze investigative. Il trojan è infatti in grado di captare conversazioni: attualmente la legge pone il vincolo di utilizzo dello strumento solo al fine di registrare le conversazioni fra presenti (le cosiddette intercettazioni ambientali), ma le potenzialità di controllo del mezzo tecnologico sono enormi. Una delle maggiori preoccupazioni riguarda il progressivo ampliamento dello spettro di reati per i quali può essere utilizzato: ab origine era limitato ai reati di maggiori gravità (sopratutto reati riconducibili alla criminalità organizzata di stampo mafioso), ma oggi è adoperabile anche per quelli contro la p.a. commessi da pubblici ufficiali e incaricati di un pubblico servizio puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni. La legge 7/2020, come detto, consacra anche il metodo della cosiddette intercettazioni a strascico che legittima l’utilizzo delle captazioni raccolte e autorizzate per un determinato reato iniziale per la prova di un reato diverso da quello per cui l’autorizzazione era stata concessa, senza che per i reati diversi sia stata previamente valutata la sussistenza dei presupposti previsti dalla legge per autorizzare l’intercettazione. Un’ampliamento piuttosto evidente della capacità di penetrazione dell’autorità nella sfera di riservatezza dei consociati, che lascia intravedere sullo sfondo l’idea di un diritto penale quale strumento di controllo sociale, al fine di abbattere la criminalità ed eliminare i comportamenti ritenuti disfunzionali. Un diritto penale quale strumento improprio di pedagogia sociale attraverso la coazione.

4. L’attacco all’abbrevviato e la massimizzazione della pretesa punitiva con i suoi paradossi:

Sulla stessa scia si colloca anche la legge 12 aprile 2019, n. 33 con la quale si è prevista l’inoperatività del giudizio abbreviato per i reati puniti in astratto con la pena dell’ergastolo. Si tratta di una riforma che si colloca a pieno titolo nel declino ideologico che affligge la disciplina penalistica, volta a massimizzare la pretesa punitiva fortemente avvertita nel tessuto popolare. Non ci si limita a contenere l’allarme sociale che determinati reati particolarmente esecrabili inevitabilmente generano, ma si punta a soddisfare la sete di giustizia (rectius vendetta) attraverso l’esemplarità della punizione. Quasi che l’esigenza populista del punire sic et simpliciter possa frustrare quell’indefettibile percorso di razionalità in cui consiste il processo, quasi che i reati per i quali è prevista la pena dell’ergastolo non possano conoscere quale esito di tale itinerario razionale l’assoluzione. Si tratta di una riforma che, in forza di una paradossale eterogenesi dei fini, finisce per frustrare quelle stesse esigenze di economia processuale rivendicate dal legislatore storico. Una riforma che ingolferà la già oberata macchina della giustizia, rendendo vano qual percorso di valorizzazione degli strumenti di deflazione processuale che, in parte, era stato pur timidamente intrapreso dal legislatore. Strumenti, questi, finalizzati a rendere più celere l’attività giurisdizionale, evitando che il processo da itinerario di razionalità – scandito da step procedurali posti a garanzia non solo del reo, ma della stessa corretta amministrazione della giustizia -, da schermo ieratico alla pulsione vendicativa della folla sguaiata, possa trasformarsi esso stesso in una pena, o, perlomeno, in un’anticipazione di essa, secondo lo schema tipico della tortura inquisitoriale descritto da Foucault.

5. Una costante e profonda discesa

La degenerazione del diritto penale da scienza dei limiti ad repressione totalitaria ed amorfa (secondo l’ideale illuministico), a bene di consumo per gli appetiti incancreniti della coscienza sociale interessa, dunque, tutte le esperienze politiche recenti, segnando un’inquietante linea di continuità sotto l’insegna della disaffezione alla cultura delle garanzie e di assuefazione alla cultura del sospetto, mai anticamera della verità. Una coscienza più vigile di quella attuale avvertirebbe il pericolo insito in questa catabasi, una coscienza che ad oggi non si vede minimamente, neanche all’orizzonte.