La Corte costituzionale, con un’importante sentenza (sent. 18/2022), ha oggi dichiarato illegittima la censura sulla corrispondenza del detenuto in 41 bis con il difensore. Tale limite, infatti, secondo la Consulta comprimeva e violava il diritto di difesa. Il Fatto Quotidiano, ça va sans dire, non ha perso l’occasione di onorare il proprio titolo di “gazzetta della manetta”, un trofeo orgogliosamente conquistato sul campo fin dal 2009, anno in cui ha iniziato ad inondare il Paese di  populismo penale e intercettazioni pubblicate in violazione del segreto istruttorio. Sul profilo Twitter del giornale, infatti, accompagnata da un link per accedere a un articolo della rinomata sezione “Giustizia e impunità“, campeggia una grafica in cui si legge a grandi lettere che la Consulta avrebbe sbagliato a «cancellare la censura sulla corrispondenza fra i detenuti al 41 bis e avvocati» perché così «i boss potranno ordinare omicidi e stragi per lettera».

Nulla di nuovo: è risaputo che da quelle parti le garanzie individuali non siano tanto apprezzate. L’avvocato penalista, per il Fatto, come emerso più volte ed in particolare in questa occasione, altro non è che un fiero sodale del criminale, una sottospecie di fuorilegge in giacca e cravatta o, nella migliore delle ipotesi, un delinquente mancato. D’altronde ha ragione il professor Giovanni Fiandaca: «Travaglio non è un interlocutore meritevole di particolare attenzione», et pour cause. Eppure, ogni tanto, per “difendere il diritto di difendere” è necessario infilare le mani nella melma e camminare a fatica nel fango quotidiano, facendosi strada tra l’assenza di valide argomentazioni e la miseria di chi più volte ha sorriso per un suicidio. Siccome potrebbe apparire eccessivo ricordare che la pratica di sovrapporre e confondere dolosamente la “difesa del diritto” con la “difesa del delitto” ricorda figure come Andrej Vyšinskij o Roland Freisler, questa volta, per uscire indenni dalla traversata nella palude, è più che sufficiente sedersi comodamente e leggere la pronuncia della Consulta da cui tutto è cominciato.

Un passaggio, in particolare, è decisivo: «il visto di censura prevista dalla norma opera automaticamente, anche in assenza di qualsiasi elemento concreto che consenta di ipotizzare condotte illecite da parte dell’avvocato e riflette una generale e insostenibile presunzione di collusione del difensore dell’imputato», ha sostenuto il Giudice delle leggi. Questa presunzione, continua la sentenza, finirebbe «per gettare una luce di sospetto sul ruolo insostituibile che la professione forense svolge per la tutela non solo dei diritti fondamentali del detenuto, ma anche dello stato di diritto nel suo complesso». Parola dopo parola, ecco sgretolarsi il pregiudizio colpevolista. Lettera dopo lettera, ecco diradarsi l’ombra dell’aprioristica collusione. La cultura del sospetto che lascia spazio al Diritto. La Costituzione e il garantismo penale che, almeno per oggi, si sono rivelati più forti di chi tenta quotidianamente di eroderli a colpi di gogna mediatica e perenne emergenza.