Il 21 aprile è comparso su Repubblica un articolo di Roberto Saviano in cui si affermava, peraltro prendendo in prestito le parole di un discorso del Ministro Provenzano -il quale a sua volta citava impropriamente Leonardo Sciascia e Massimo Bordin- che il garantismo e la giustizia sociale dovrebbero essere una cosa sola, un unico concetto e un’unica filosofia, volti ad ottenere una giustizia più giusta. Alla luce di questo intervento, abbiamo colto l’occasione per riflettere proprio sul significato del garantismo che, in realtà, è storicamente, culturalmente e giuridicamente un concetto distinto e distante dal concetto di giustizia sociale, in quanto slegato da ogni considerazione di classe o di lotta ideologica.

Ospitiamo una riflessione di Damiano Aliprandi, giornalista de Il Dubbio:

C’è una bellissima canzone di Fabrizio De André che ad un certo punto fa: «Certo bisogna farne di strada da una ginnastica d’obbedienza fino ad un gesto molto più umano che ti dia il senso della violenza, però bisogna farne altrettanta per diventare così coglioni da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni». Da profondo libertario e anarchico qual era, provocatore purissimo, aveva lanciato un atto di accusa nei confronti di tutti quei benpensanti che credevano di ricorrere alla magistratura e alle carceri per ottenere una qualche forma di giustizia. Non sono però qui a decantare l’anarchia del cantautore, ma a definire che cosa sono i Poteri. De Andrè diceva che non esistono i poteri buoni. Forse, senza saperlo (ma secondo me lo sapeva eccome), ha in realtà espresso un concetto liberale che poi ritroviamo nella forma e nella sostanza della nostra Costituzione. I poteri ci sono, ci saranno e indubbiamente devono esserci. In un sistema liberale i Poteri servono per poter tenere insieme la nostra complessa società. Tutti noi dipendiamo da essi. Anche l’uomo più potente del mondo è soggetto ai poteri. Nessuno ne è escluso. Ma devono essere ben separati e bilanciati, senza soffocare l’individuo, altrimenti renderemmo carta straccia i principi fondamentali del nostro ordinamento.

Fin qui appare tutto scontato. Il concetto di garantismo, strettamente collegato al tema dei poteri, però, lo è un po’ meno. Il termine “garanzia” è un termine del lessico giuridico che designa qualsiasi forma di tutela normativa di un diritto soggettivo. Originariamente in diritto romano il termine “garanzia” indicava infatti una classe di istituti volti ad assicurare l’adempimento di obbligazioni e la tutela dei diritti patrimoniali. Relativamente recente è, invece, l’estensione del significato di “garanzia” in quanto tecnica di tutela dei diritti fondamentali, siano essi negativi (come i diritti di libertà cui corrispondono divieti di lesione), siano essi positivi come i diritti sociali cui corrispondono obblighi di prestazione da parte dei pubblici poteri. Il termine “garanzia” vede un’espansione del suo significato soprattutto in ambito penale e l’espressione “garantismo penale” nasce nella cultura giuridica italiana della seconda metà degli anni Settanta; collegandosi alla tradizione classica del pensiero penale liberale ed esprimendo la tutela dei diritti alla vita, alla libertà e all’integrità personale contro il potere punitivo; allargandosi a tutto il campo dei diritti soggettivi ( diritti fondamentali) e all’intero insieme di poteri sia pubblici che privati . Il Garantismo si oppone, di fatto, all’idea di un “potere buono” proprio come diceva De André. Dal momento in cui si declama un potere, piuttosto che un altro, si sfocia nel classico “giustizialismo”. Quando si pensa che per abbattere qualsiasi ingiustizia sociale bisogna ricorrere alla via penale, si considera “potere buono” quello giudiziario. Ecco l’errore.

Il garantismo è la garanzia al singolo individuo, ricco o povero, operaio o colletto bianco che sia, per proteggerlo dall’abuso da parte di qualsiasi potere. Pensare che il garantismo sia associato alla giustizia sociale, vuol dire decantare un ossimoro. La giustizia sociale è sacrosanta, ma pretendere che sia attuata tramite un’aula di un tribunale o inasprimento delle pene e azzeramento dei benefici penitenziari perché così “i potenti non la fanno franca”, vuol dire non solo creare una qualche forma di distopia, ma anche affossare definitivamente le persone vulnerabili.

Recentemente il ministro Provenzano e lo scrittore Roberto Saviano hanno detto che Leonardo Sciascia (e per loro, di conseguenza, anche Massimo Bordin), credeva nella giustizia secondo diritto, che è fatta anche di sostanza. Tutto vero. Ma cosa hanno aggiunto? Che per sostanza, Sciascia avrebbe inteso la giustizia sociale. Questo vuol dire non aver capito nulla del grande scrittore e intellettuale siciliano. Il Diritto non c’entra assolutamente nulla con la giustizia sociale. Un processo non può essere classista o ideologico. Sciascia – che fuggì via dal Partito Comunista per poi trovare rifugio in quello Radicale – ad esempio lo sapeva benissimo quando difese Enzo Tortora che certamente povero non era. Così come prese anche le difese di Adriano Sofri accusato (e poi condannato) di essere stato il mandante dell’uccisione di Calabresi. Non solo. Sciascia denunciò la tortura che un mafioso dovette subire in una caserma. Questo era Sciascia. Forma e sostanza. Oggi avrebbe difeso un immigrato, così come un Dell’Utri malato in carcere.

Per concludere, può essere utile un vecchio tweet di Bordin, in cui quest’ultimo si riferì all’ex guardasigilli Orlando. Racchiude in due parole tutto ciò che è stato finora scritto: «Abbiamo sacrificato la giustizia sociale confondendola col giustizialismo. Andrea Orlando ha detto l’essenziale».