Abbiamo raggiunto Alessandro Barbano, già Direttore del Mattino, oggi Condirettore del Corriere dello Sport e autore, tra gli altri, del saggio “L’inganno. Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene”. La chiacchierata si è sviluppata attorno alla sua ultima fatica, “La gogna. Hotel Champagne, la notte della giustizia italiana” (Marsilio, 2023), un libro che costituisce una vera e propria inchiesta sul caso Palamara. Un’opera in cui il giornalista non solo ha ricostruito ed evidenziato tutte le storture investigative dell’affaire, ma nella quale ha riflettuto, con ampio respiro e con sensibilità garantista, anche sulle implicazioni politiche, mediatiche e sistemiche della vicenda.

*crediti foto in calce all’articolo


Barbano, nel libro ha scritto che «l’indagine sulla notte dell’Hotel Champagne si è svolta con metodi che con la legge hanno poco a che fare, come un processo fuori controllo, in cui troppi soggetti, pubblici e privati, interni ed esterni al sistema giudiziario, hanno giocato un ruolo opaco». È una considerazione forte. Ci spiega come è giunto a questa conclusione?

Una premessa necessaria: si potrebbe dire che la mia è un’illazione, ma si tratta di un’illazione corroborata da alcuni elementi che la trasformano in qualcosa di più, quantomeno in un’ipotesi investigativa. Questo libro, in fondo, ha un contenuto investigativo: si tratta di un’inchiesta sull’inchiesta, se così vogliamo dire. Chiarito questo, c’è un primo aspetto da analizzare, quello del rispetto della legalità formale: i presupposti di legge per disporre l’intercettazione con il trojan horse c’erano? Erano sussistenti i requisiti di gravità e di indispensabilità tali da giustificare l’utilizzo del captatore informatico? Di primo acchito direi di no. E ancora: perché i singoli decreti autorizzativi di proroga delle intercettazioni si fondano su ragioni che nulla hanno a che vedere con l’ipotesi di reato originaria? È la classica tecnica della pesca a strascico. E di nuovo: la ricostruzione offerta da Longo, il magistrato pentito e primo accusatore di Palamara, cioè l’impulso iniziale di tutto l’affaire, era logica e consequenziale? Che coerenza aveva il suo racconto? L’uso delle intercettazioni nei confronti di Palamara, poi, rispetto a quanto riferito da Longo, volendo aderire a quel percorso, era di stretta attualità come atto investigativo? È attraverso questa serie di interrogativi, e non solo, che ho ricostruito la vicenda, cercando di evidenziare le diverse criticità o perplessità che emergono sulla gestione delle indagini.

Al di là della questione sui presupposti di legge necessari ad autorizzarne l’utilizzo, Lei ha sollevato diversi dubbi anche sulla gestione concreta delle operazioni intercettive svolte col captatore, riportando a sostegno della sua tesi anche diverse valutazioni tecniche…

Ci sono molti buchi nell’attività di intercettazione, come se il trojan avesse lavorato a corrente alternata. C’è stata una gestione apparentemente e a più tratti arbitraria di questo strumento. Ecco perché è normale domandarsi chi e per quale ragione abbia spento il trojan proprio durante la cena al ristorante Mamma Angelina a Roma tra il capo della Procura di Roma Giuseppe Pignatone e il suo sostituto Luca Palamara. Si è disattivato in un orario nel quale normalmente era in piena funzione, in una fase della giornata nella quale solitamente registrava ogni attimo della vita dell’ex presidente dell’associazione nazionale magistrati. Nel libro ho provato a dare una risposta, ragionando anche sui problemi e sulle commistioni nati dalle deleghe di utilizzo del captatore. Al netto della questione particolare, comunque, spero che si apra una seria riflessione sul mondo del captatore informatico. Tanto sull’aspetto dei requisiti e dei limiti che devono regolarne l’utilizzo, quanto sulla gestione pratica, dai server alle capacità, non sempre idonee, di chi poi deve concretamente adoperarli. Come ho scritto, la polizia giudiziaria del caso si è praticamente autodichiarata inesperta nell’utilizzo del trojan. Eppure questo mezzo ha effetti micidiali: andrebbe trattato con la cura con cui si tratta un’atomica e invece spesso viene gettato nelle vite degli altri come si trattasse di un petardo. In ogni caso, sempre parlando di intercettazioni, c’è un altro aspetto, un primato assoluto di questa inchiesta che merita di essere evidenziato…

Ci dica

Quello dell’Hotel Champagne penso sia il primo caso in cui il contenuto delle intercettazioni è stato divulgato addirittura durante lo svolgimento delle indagini. Quando i giornali pubblicano i primi stralci, Palamara è ancora intercettato. Non si è aspettato un attimo: si è voluta immediatamente screditare la figura di Palamara. Si è voluto creare uno scandalo, che scandalo in fondo non è, almeno nella lettura che ne ho proposto.

È esagerato affermare che il vero scandalo, volendo utilizzare questo termine, non è stato tanto l’incontro all’Hotel Champagne ma l’indagine su questo incontro?

No, non è esagerato. Anzi, si potrebbe dire che è proprio così. Lo scandalo dell’Hotel Champagne è un classico caso di falso narrativo. Un falso narrativo cui ha concorso la diffusione, goccia a goccia, di brandelli di intercettazioni montati e rimontati ad arte dentro una costruzione mediatica diretta a suscitare indignazione, a creare dei capri espiatori, a criminalizzare la dialettica di un organo di rilevanza costituzionale. Poi sia chiaro, questa dialettica non è di per sé una dialettica esaltante, perché è specchio di trattative pattizie, rapporti di forza e scambi che fanno parte di quell’armamentario e di quella cassetta degli attrezzi della cultura associativa della magistratura, utilizzata specialmente nei rapporti interni tra correnti e naturalmente anche nelle relazioni coi partiti. Si tratta di una prassi criticabile, certo, che però, di fatto – non bisogna essere ipocriti su questo –, trova riscontro nel dettato costituzionale. Il CSM è un organo misto, con una democrazia assembleare di tipo politico, non ha un’organizzazione di tipo gerarchico, fondata, per esempio, sul merito. È un’architettura che tiene insieme elementi della politica ed elementi dell’ordinamento giudiziario. È naturale, allora, che le decisioni e le valutazioni, in assenza di una scala di merito connessa a una catena gerarchica, si fondino sugli accordi transattivi e di reciproco scambio tra le correnti in cui si articola la magistratura. Tutto questo ci può non piacere, e non ci piace indubbiamente, ma la soluzione non è criminalizzare questo meccanismo, soprattutto se ad “uso proprio”, scaricando tutto su un unico caso. Ecco perché si tratta di una ipocrita falsificazione narrativa.

Come si è giunti a tale situazione?

Questo approdo così poco onorevole dipende da una Costituzione formale che assegna al CSM un ruolo organizzativo di tipo politico e una Costituzione, per così dire, materiale, una prassi, che lo ha trasformato in un organo di governo e ha accentuato gli elementi di corporativizzazione del sistema. Sullo sfondo, poi, ha un peso fortissimo anche la crisi delle culture politiche che ha svuotato le correnti del loro contenuto ideologico ed ideale, trasformandole in cordate e in grumi di interessi.

A proposito, per concludere: la discesa agli inferi di Palamara è stata di fatto una catabasi solitaria e il tema della riforma della magistratura non è stato ancora seriamente affrontato. Quale è la prospettiva per il futuro?

Questa vicenda, al contrario di quello che doveva avvenire, ha accelerato e non ridotto la trasfigurazione in bande delle correnti: il processo ha criminalizzato le correnti ma ha lasciato in piedi le cordate. Per produrre un cambiamento bisogna decidere seriamente in quale direzione si vuole andare: si vuole mettere in discussione l’architettura politica del CSM? Allora bisogna immaginare un disegno costituzionale diverso, modificando il ruolo della magistratura in rapporto al sistema democratico. Si vuole trasformare la magistratura in un’alta burocrazia autonoma sotto l’egida del Parlamento? Sono tutti interrogativi fondati. In ogni caso, al netto delle riforme strutturali, è necessario ricostruire la cultura politica e civile di questo paese. Va ripensato profondamente il ruolo della magistratura: la sua funzione non è la lotta alla criminalità. La politica criminale è altro dal servizio che deve offrire la giustizia. La magistratura controlla la legalità, non crea le leggi e non gestisce la politica criminale, men che meno in uno Stato di diritto di civil law. Bisogna sottrarre la politica criminale, che di fatto viene indicata sempre più arbitrariamente dalle singole procure, alla magistratura e restituirla al Parlamento. Questo, insieme alla separazione delle carriere, e al cambiamento culturale delle correnti di cui parlavo prima, è il passo decisivo se vogliamo modificare in meglio l’assetto del sistema.


*foto di copertina del volume impiegata dal MAXXI per la pubblicizzazione dell’evento di presentazione dello stesso