Con il d.l. n. 152 del 6 novembre 2021 – «Disposizioni urgenti per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e per la prevenzione delle infiltrazioni mafiose» – sono state apportate, al Titolo IV, concernente «Investimenti e rafforzamento del sistema di prevenzione antimafia», importanti modifiche al Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione (d.lgs. n. 159 del 6 settembre 2011). In particolare, si modifica il regime delle “interdittive antimafia” con due misure: l’introduzione di un contraddittorio endo-procedimentale, che finora era solo eventuale, e di una nuova misura amministrativa, alternativa e meno afflittiva dell’interdittiva, denominata “prevenzione collaborativa”, per le ipotesi di tentativi di infiltrazione mafiosa occasionali.


Il fronte delle misure di prevenzione antimafia nasce e si sviluppa, già da alcuni decenni, dalla giusta considerazione che – in quanto subdolo, spesso latente e soprattutto rapidissimo nell’adattarsi ai mutamenti della società – il fenomeno mafioso, e in particolare quello delle infiltrazioni mafiose nelle imprese pubbliche e private, non può essere contrastato col solo strumento penale, troppo spesso tardivo e, soprattutto, insufficiente. Vi sono poi, spesso, “zone grigie”, situazioni in cui è difficile discernere se ci si trovi davanti a comportamenti complici o invece, più spesso, succubi della morsa intimidatoria, rispetto ai quali il rimprovero penale sarebbe irragionevole e ingiusto. Con l’intento di superare un approccio esclusivamente punitivo e repressivo, si è sviluppato un sistema che punta su numerosi strumenti alternativi, di tipo preventivo e di controllo, “calibrati” sul diverso grado di interferenza criminale e sulla base di giudizi prognostici, miranti a tutelare la continuità dell’attività delle imprese, nella prospettiva di una futura riabilitazione. Tuttavia, se è vero che lo strumento penale è l’extrema ratio di tutela, essendo la più incisiva nei confronti delle libertà individuali, ciò non toglie che anche le altre forme di contrasto alle mafie, tra cui appunto quelle lato sensu “preventive”, contenute nel Codice antimafia, possano mettere a rischio, se mal regolate e/o mal gestite, altre libertà fondamentali. Anche la prevenzione può toccare e spesso violare beni di rango costituzionale, quali, in primis, il lavoro e la libertà di iniziativa economica. Tra le varie misure di contrasto e controllo contenute nel Codice antimafia, quella sull’informazione è senz’altro una delle più paradigmatiche: si tratta di un provvedimento che viene adottato dal Prefetto nei confronti di imprese o società, superanti determinate soglie di valore, che intrattengono rapporti con la pubblica Amministrazione, e serve ad attestare la «sussistenza o meno di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate» (art. 84). È importante distinguere l’informazione interdittiva dalle vere e proprie misure di prevenzione, in quanto la prima viene emessa sulla base di una serie di elementi collocati ad un livello inferiore e precauzionale rispetto a quello necessario per l’applicazione di una misura di prevenzione che, inoltre, è un provvedimento a gestione giurisdizionale e non amministrativa. Il Prefetto ha un potere discrezionale molto ampio nella valutazione del pericolo di infiltrazione mafiosa: a rigore, con un ragionamento induttivo e in termini probabilistici, dovrebbe effettuare una prognosi – sostenuta da un affidabile grado di verosimiglianza e basata su indizi gravi, precisi e concordanti, esaminati in modo unitario e non atomistico – all’esito della quale risulti “più probabile che non” il pericolo di ingerenza della criminalità organizzata nell’impresa.

Gli effetti dell’interdittiva sono molto pesanti, in quanto implicano l’impossibilità per il soggetto colpito «di stipulare contratti con la Pubblica Amministrazione o di ricevere autorizzazioni, concessioni ed erogazioni»; inoltre, «eventuali contratti già stipulati sono risolti per recesso e autorizzazioni e concessioni sono revocate» (art. 94). Una considerevole compressione della libertà di iniziativa economica, giustificata, secondo la Corte costituzionale, dalla «perniciosità del fenomeno mafioso» e dal pericolo di lesione della libera concorrenza, della dignità e della libertà umana (sent. n. 57/2020). Il fine è di impedire che un imprenditore che sia comunque coinvolto, colluso o condizionato dalla delinquenza organizzata possa essere titolare di rapporti, specie contrattuali, con la Pubblica Amministrazione. Il provvedimento ha natura provvisoria, con una durata di 12 mesi, ma è di fatto rinnovabile finché ne persistano i presupposti. L’intero sistema delle misure di prevenzione è divenuto, negli anni, un «sottosistema parallelo al processo penale vero e proprio, in grado di colpire con altrettanta efficacia e sicuramente maggiore facilità e celerità diritti fondamentali dei proposti, in assenza di adeguate garanzie e sulla base del mero sospetto», come denuncia l’Osservatorio misure patrimoniali dell’Unione Camere Penali Italiane. Da strumento a presidio della legalità degli appalti pubblici e a garanzia delle imprese che operano con piena correttezza sul mercato, l’interdittiva è finita per essere spesso uno strumento pericoloso, senza precise tutele e potenziale tagliola per molti imprenditori, anche solo sospettati di “avere contatti con” o “subire pressioni da”. Le misure in materia di interdittiva antimafia approvate dal Governo sembrano voler segnare un’inversione rispetto a questa tendenza, da un lato, per assicurare maggiori garanzie procedimentali agli imprenditori che rischiano di esserne colpiti e, dall’altro, di salvaguardare la continuità aziendale, nella prospettiva “terapeutica” di una ri-legalizzazione dell’impresa e di un suo reinserimento nel circuito dell’economia legale, una volta eliminati i rischi di contatto e interferenza con soggetti o gruppi criminali. Sul primo versante, allo scopo di assicurare uno spazio di difesa tendente a scongiurare l’emanazione di questo provvedimento, è stato previsto che, prima di emettere un’interdittiva, il Prefetto – nel caso in cui all’esito delle verifiche disposte ritenga sussistenti i presupposti per l’adozione della stessa – instauri un contraddittorio con l’azienda sospettata di infiltrazioni, la quale potrà difendersi con osservazioni scritte, presentando documenti e chiedendo di essere audita. Terminata la procedura in contraddittorio, il Prefetto, ove non proceda al rilascio dell’informazione antimafia liberatoria, potrà procedere o adottando l’interdittiva “classica”, o disponendo l’applicazione di una nuova misura denominata “prevenzione collaborativa”: seconda novità di questo decreto-legge, introdotta nel Codice con l’art. 94-bis. Il Prefetto può disporre la misura della prevenzione collaborativa, invece che dell’interdittiva, quando «i tentativi di infiltrazione mafiosa sono riconducibili a situazioni di agevolazione occasionale»: si tratta di una misura meno afflittiva dell’interdittiva, mirante a predisporre un percorso controllato e monitorato per aziende che, appunto, sono state toccate solo occasionalmente dalle organizzazioni mafiose. Una logica recuperatoria mirante alla salvaguardia della continuità d’impresa di aziende non mafiose, ma solo oggetto di occasionali tentativi di infiltrazione, le quali dovranno osservare, per un periodo non inferiore a sei e non superiore a dodici mesi, una serie di stringenti misure di controllo, che consentono però alle stesse, a differenza dell’interdittiva, di continuare comunque a operare, sebbene appunto sotto la stretta vigilanza dell’Autorità statale. Allo scadere del periodo, accertata l’assenza di altri tentativi di infiltrazione, il Prefetto potrà rilasciare la liberatoria.

Queste modifiche costituiscono sicuramente un punto importante nel percorso di riforma del sistema della prevenzione antimafia, che necessita, però, di proseguire. Certamente sembra colmarsi, almeno in parte, quel deficit di ragionevolezza del precedente sistema, in cui l’art. 84 equiparava imprese riconducibili tanto a situazioni di contiguità mafiosa compiacente quanto a situazioni di contiguità, invece, solo soggiacente, in cui gli imprenditori si trovano ad essere succubi della prepotenza mafiosa. Resta ancora evidente il deficit di predeterminazione dei presupposti applicativi delle interdittive, e certamente lo stesso concetto di “occasionalità”, caratterizzante ora la nuova prevenzione collaborativa, è assai elastico e vago, e dunque inevitabilmente rimesso alla valutazione discrezionale del Prefetto. Sarebbe il caso, più radicalmente, di ricondurre questi procedimenti nell’alveo giurisdizionale, non più in quello amministrativo; di sottoporre tali scelte a un vero contraddittorio e al vaglio di un giudice, non più di un Prefetto, attuale dominus del procedimento, al tempo stesso accusatore e decisore. Il vaglio giurisdizionale sulle misure prefettizie, infatti, resta tutt’ora affidato al controllo solo formale del giudice amministrativo sul provvedimento, difficilmente censurabile anche a causa della genericità dei presupposti applicativi. Più in generale, persistono dubbi su un istituto, quello della interdittiva antimafia, che non sempre si rivela utile in un’ottica di “pulizia” e rescissione dei contatti tra le aziende colpite e le mafie, né efficace in un’ottica recuperatoria e di reinserimento nel circuito dell’economia legale, con il rischio che il risultato sia quello di tagliare fuori dal mercato – con un provvedimento non giurisdizionale e che si trasforma in pena de facto – imprenditori che sono solo vittime del condizionamento mafioso o, comunque, innocenti fino a sentenza definitiva.