Di recente, il dibattito politico è tornato ad incentrarsi sul complesso tema della legittima difesa domiciliare, riesumando slogan elettorali quali “la difesa è sempre legittima”, sfociati due anni fa nell’approvazione della L. 36/2019. Frutto di una politica criminale apertamente populista, la riforma ha in apparenza cristallizzato il diritto a difendersi tra le mura domestiche (e non solo), suscitando così nella società un (infondato) sentimento di sicurezza. Il diritto penale, segnatamente nelle ultime legislature, non è certo rimasto estraneo al fenomeno di una legislazione approssimativa, volta più alla ricerca di consenso che non al soddisfacimento di necessità di ordine politico-criminale; pertanto, non senza eccessivo stupore, anche in questa occasione si è assistito ad un intervento normativo ben poco soddisfacente dal punto di vista tecnico. Se, da un lato, l’operatore del diritto deve inevitabilmente prendere atto delle carenze che presentano i risultati, sforzandosi non poco nella ricerca di un’interpretazione costituzionalmente tollerabile della legge, dall’altro è quanto mai doveroso sconfessare, a beneficio della collettività, le improvvide grida di rassicurazione che provengono dai fautori della riforma [1]. In un terreno rimasto immutato per più di 75 anni, si sono inseriti, in poco più di 13, due stravolgenti interventi modificatori all’impianto della causa di giustificazione della legittima difesa. La prima forma di legittima difesa domiciliare conosciuta dal nostro codice penale è stata introdotta nel 2006 al secondo comma dell’art. 52 c.p., comportando non pochi problemi interpretativi dovuti alla previsione di una presunzione assoluta di proporzionalità tra offesa e azione difensiva necessitata. La ratio era, già allora, quella di estromettere a priori un vaglio giurisdizionale sulle condotte animate dall’autodifesa nei confronti di un’offesa altrui. Non si può nascondere come la tanto annunciata portata innovativa della norma, a causa della sua superficialità tecnica, fu ben presto smentita ad opera della giurisprudenza di legittimità [2]: nel prevedere la presunzione di proporzionalità tra offesa e difesa, il legislatore non fece i conti con l’altro indefettibile requisito richiesto per la configurazione della scriminante, ovverosia la necessità di agire per salvaguardare un proprio o altrui diritto dal pericolo attuale di un’offesa ingiusta. Ne conseguì che, pure nei luoghi domiciliari (e in quelli ad essi equiparati), a nulla valeva la presunzione di proporzionalità in assenza del requisito della necessità.

Percorrendo un binario quantomeno discutibile, orientato più al contrasto delle interpretazioni giurisprudenziali che del fenomeno criminale, il legislatore del 2019 ha nuovamente voluto restringere l’ambito di operatività del potere giurisdizionale [3], introducendo un nuovo quarto comma all’art. 52 c.p.: “Nei casi di cui al secondo e al terzo comma agisce sempre in stato di legittima difesa colui che compie un atto per respingere l’intrusione posta in essere, con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica, da parte di una o più persone”. Oltre alla vaghezza della norma in sé (prima su tutte la portata del termine “intrusione”), si fatica a comprendere quale sfera di applicabilità residui per il secondo comma dell’art. 52 c.p. (introdotto con L. 59/2006): lo testimonia la circostanza per cui molti autori considerano tale disposizione implicitamente abrogata [4]. Le criticità assumono poi rilevanza sistemica osservando la norma introdotta al secondo comma dell’art. 55 c.p. (eccesso colposo): “Nei casi di cui ai commi secondo, terzo, quarto dell’articolo 52, la punibilità è esclusa se chi ha commesso il fatto per la salvaguardia della propria o altrui incolumità ha agito nelle condizioni di cui all’articolo 61, primo comma, n. 5) [ndr. minorata difesa], ovvero in stato di grave turbamento dalla situazione di pericolo in atto”. Appare evidente la discrasia tra le due disposizioni: se si agisce sempre in stato di legittima difesa, non si vede la necessità di tale ulteriore causa di esclusione della colpevolezza, la cui portata potrebbe invece essere utilmente ricondotta ad un indicatore tipizzato della colpa nell’eccesso colposo [5], forse l’unico elemento di pregio della riforma. La possibile considerazione logica è che lo stesso legislatore, forse presagendo o temendo una prossima declaratoria di illegittimità costituzionale del quarto comma dell’art. 52, abbia inteso rafforzare il proprio proposito di una generalizzata non punibilità all’interno delle mura domestiche. In tale contesto, la superficialità comunicativa politica è divenuta estremamente pregiudizievole per il cittadino: contrariamente agli slogan profusi, da un lato il comma 4 è applicabile alle sole intrusioni attuate con violenza e minaccia, dall’altro il comma 2 è limitato alla sola difesa della propria o altrui incolumità, lasciando escluse le offese, ancorché ingiuste, ai diritti patrimoniali. Il dato non è di poco conto, perché mentre nelle piazze si decanta l’approvazione di una legge assimilabile più a un diritto incondizionato alla difesa che alla causa di giustificazione di un fatto altrimenti penalmente rilevante, nelle aule del Parlamento e – ancor più importante – in quelle di giustizia, non si è dello stesso avviso [6]. La realtà giuridica che viene consegnata al magistrato, al professionista e al cittadino indebitamente confortato risulta, quindi, connotata da una straordinaria iper-imperatività della legge, dolosamente orientata alla riduzione e all’annullamento della funzione giurisdizionale, con ciò sollevando più di un dubbio sulla tenuta della riforma ad un vaglio di legittimità costituzionale. 

Il punto focale del fallimento del legislatore, tanto del 2006 quanto ancor di più del 2019, risiede tuttavia nell’erroneo obiettivo perseguito: l’intento non era, infatti, quello di scriminare condotte ritenute meritevoli di tutela, effetto che già si aveva sotto la vigenza dell’originario codice Rocco, bensì quello di scongiurare l’inizio di un procedimento penale a carico dei soggetti che si fossero difesi da un’aggressione; sottrarre, cioè, qualsiasi atto “asseritamente” difensivo dal vaglio giurisdizionale, che poteva (e può) durare anche anni. Sulla scorta di tale premessa, il contatto con la materia è stato privo di qualsiasi approccio razionale, e l’unico risultato ottenuto, anche a causa della voluta approssimazione comunicativa, è stato un consenso pressoché pieno ma per niente informato [7]. Ma vi è di più: il doveroso vaglio della magistratura su ogni vicenda passibile di rilevanza penale viene oggi inevitabilmente a scontrarsi con un dato normativo estremamente farraginoso, figlio di una legislazione schizofrenica, in una materia già di per sé ricca di insidie valutative. Il residuato, contrariamente al voluto, è una dilatazione dei tempi processuali [8]. La deriva populista che sta travolgendo il diritto penale deve far riflettere: l’annullamento del potere del giudice, dunque del ruolo accertativo del processo, in favore di una legge che opera presunzioni assolute, senza margini di contestualizzazione al caso concreto, rischiando così di parificare irragionevolmente situazioni anche profondamente diverse tra loro quando in gioco ci sono la vita e l’integrità fisica, si pone in contrasto con i più importanti principi di uno Stato di diritto. Il potere legislativo deve preoccuparsi delle esigenze politico-criminali e non dell’attività, costituzionalmente tutelata, dei giudici. Sebbene nell’ottica di chi sostiene questa ideologia il ruolo del giudicante sia assolutamente marginale, la Costituzione all’art. 112 consacra (ancora) l’obbligatorietà dell’azione penale, designando quindi l’aula di giustizia quale unica e insostituibile sede ove accertare la rilevanza penale di un fatto, legittima difesa inclusa. Non si possono non condividere, allora, le obiezioni di chi sostiene che la promessa di escludere la giurisdizione dall’esame del caso sia fasulla, e quella che “la difesa è sempre legittima” non possa essere validamente mantenuta [9].


[1] FINOCCHIARO, in “Quando la difesa è legittima?” a cura di Gaetano Insolera, Raffaello Cortina Editore, 2020, pp. 25 ss.
[2] Cass. pen. Sez. I, sent. 02.05.2007, ud. 08.03.2007, n. 16677, Cass. Pen. Sez. I, sent. 24.06.2008, ud. 14.05.2008, n. 25635, Cass. pen. Sez. I, sent. 16.06.2010, ud. 27.05.2010, n. 23221.
[3] CONSULICH, “La legittima difesa assiomatica. Considerazioni non populistiche sui rinnovati artt. 52 e 55 c.p.”, in Giurisprudenza Penale Web, 2019, 5.  
[4] GAROFOLI, “Manuale di Diritto Penale”, VI Edizione, Nel Diritto Editore, 2020, p. 202.
[5] GAMBERINI, in “Quando la difesa è legittima?” a cura di G. Insolera, Raffaello Cortina Editore, 2020, pp. 11 ss.
[6] Cass. pen. Sez. V, sent. 02.10.2019, ud. 13.06.2019, n. 40414. 
[7] Nello stesso senso GAMBERINI, op. cit.
[8] BERTELLI MOTTA, “Eccesso colposo in legittima difesa: il difficile equilibrio fra tutela dell’aggredito e tutela dell’aggressore”, in Giurisprudenza Penale Web, 2020, 1, nota a Cass. pen. Sez. III, sent. 10.12.2019, ud. 10.10.2019, n. 49883. 
[9] FINOCCHIARO, op. cit.