“E’ un precedente importante che apre gli spazi di libertà di scelta nel fine vita nel nostro Paese; ora però spetta al Parlamento, finalmente, fare una legge per garantire a tutti il diritto, a determinate condizioni, di poter scegliere e poter essere liberi fino alla fine della propria vita”
Il 27 luglio, le parole di Marco Cappato celebrano la lettura del dispositivo della Corte d’Assise di Massa sul caso Trentini, malato di sclerosi multipla dal 1993 fino a quando, nel 2017, Cappato e Mina Welby non lo hanno aiutato, secondo contribuiti di natura sia burocratica che economica, a ricorrere al suicidio assistito in una clinica svizzera; immediatamente dopo, si sono autodenunciati. Lui e Welby – rispettivamente tesoriere e copresidente dell’Associazione Luca Coscioni – sono stati assolti; l’uno, dall’imputazione d’istigazione al suicidio (secondo lettura, “condotta di rafforzamento del proposito suicidiario”) perché “il fatto non sussiste”, l’altra, dall’addebito di aiuto al suicidio (“agevolazione della esecuzione del suicidio”) perché “il fatto non costituisce reato”. Entrambe formule assolutorie che obliterano la richiesta del pm Marco Manzi alla condanna ex art. 580 cp. per “istigazione o aiuto al suicidio” a 3 anni e 4 mesi, attenuata da “una serie di circostanze legate comunque ai nobili intenti delle condotte”. La pronuncia ha così slabbrato i margini già statuiti dalla Corte Costituzionale nella sentenza 242/2019 sul notorio caso di “Dj Fabo” – poi accolta dalla Corte d’Assise di Milano -, arricchendo uno dei requisiti di un’interpretazione estensiva. La Consulta infatti, illo tempore, lacerando l’inerzia del Parlamento per “l’esigenza di garantire la legalità costituzionale, che deve prevalere su quella di lasciare spazio alla discrezionalità del legislatore”, aveva sottratto un margine alla pur confermata incriminazione ex art.580 c.p. – volta a tutelare “le persone più deboli e vulnerabili da interferenze esterne in una scelta estrema e irreparabile” – in quanto non conforme a Costituzione: la condotta di aiuto o istigazione al suicidio è lecita nella misura in cui ricorrano una serie di circostanze, quali la sussistenza di una patologia irreversibile che sia fonte di sofferenze fisiche e psichiche, il mantenimento in vita per presidi di sostegno vitale, il già avvenuto inserimento in un ciclo di cure palliative e la capacità di prendere decisioni libere e consapevoli. Sebbene la sentenza in questione avesse valore di legge e fosse pertanto suscettibile d’essere applicata nei casi concreti, l’incertezza di compatibilità che aleggiava sul nuovo caso Trentini si concentrava specificamente su uno dei requisiti sostanziali: finora, la terapia farmacologica contro dolori e spasmi a cui era sottoposto Davide Trentini (soltanto parzialmente dipendente da respiratore) non era stata sussunta all’interno della categoria dei “presidi di sostegno vitale”, invece esaurita dai meccanismi di dipendenza da macchinari come la ventilazione assistita, invece presente in Dj Fabo. A fronte del dispositivo, pertanto, sembrerebbe accolta l’equiparazione tra dipendenza farmacologica e quella da macchinari, perorata dal consulente di parte Mario Riccio – l’anestesista che, nel 2006, accompagnò la volontà di Piergiorgio Welby prima sedandolo, poi staccando la spina, e per questo prosciolto. Tuttavia, bisognerà attendere il deposito delle motivazioni della sentenza (entro 45 giorni dalla lettura) per venire a conoscenza del percorso logico-giuridico premiato dalla Corte. Rimane acquisito, in ogni caso, lo scardinamento giurisprudenziale di quell’ostacolo ingombrante ed indefettibile che era l’elemento tecnologico.
Negli ultimi dieci anni, il tema del fine vita è stato fatalmente attratto dalle aule di tribunale, ormai sede rituale di scioglimento di quella delicatezza che il Parlamento lamenta, fino a considerarla indiscreta (come non ha potuto velare lo stesso premier Conte, meno di un anno fa, giustificando così la scelta di non procedere ad un’iniziativa governativa in merito).
Che la complessità di un tema venga elevata ad alibi per l’inesausta reticenza del Parlamento è già una contraddizione in termini: in una democrazia parlamentare come la nostra, il Parlamento s’anima del difficile gioco dialettico tra forze contrapposte (di minoranza e di maggioranza), poiché vocato a rappresentare la complessità del Paese, dunque ad esprimerla e valorizzarla in sede di dibattito e di legiferazione. La divisività delle materie non può essere estremo di fuga, ma al contrario è il perimetro dialogico naturale del Parlamento: affermare il contrario, significa squalificare la propria ragione d’esistenza.
L’intenzionalità del legislatore di rifuggire il tema del fine vita si svela nella sua crudezza già con la l.219/2017: con la previsione del consenso informato del paziente alle prestazioni terapeutiche, è stata concretizzata quell’autodeterminazione terapeutica che germina dall’art. 32 della carta costituzionale, esattamente dal diritto alla salute come diritto fondamentale dell’individuo affiancato dal divieto di obbligo al trattamento sanitario – al di fuori dei casi espressi dalla legge.
Di conseguenza, s’instaura tra medico e paziente un rapporto collaborativo – e non di signoria delle prestazioni terapeutiche in mano al medico – tale per cui il primo deve assecondare le richieste dell’assistito, a condizione che egli abbia perfetta consapevolezza dei rischi e delle conseguenze del suo rifiuto (“non inizio la terapia”) o della revoca (“interrompo la terapia”) del consenso. In più, l’altra innovazione legislativa consisteva nella “terapia del dolore” per l’erogazione di cure palliative a cui il malato non può sottrarsi, se non “nei casi di prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte, in cui il medico deve astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati”. Sarebbe stata naturale, anche solo in un momento successivo, la trattazione del fine vita, di rimbalzo a queste disposizioni necessariamente orientate in tal senso. Invece, è stata necessaria ancora una volta l’azione di disobbedienza civile di Marco Cappato, Caronte del dolore che però, come tiene a precisare, “non lo prolunga come fa invece il vero Caronte, ma aiuta a scioglierlo”, sfidando quei reati che, criminalizzando il suicidio in tutte le sue morfologie (ed è nella comprensione della totalità che emerge la criticità), nel 1930 intendevano segnare la supremazia ideologica dello stato fascista sull’individuo. Per questo, in senso tecnico non può parlarsi di vuoto normativo: pur nella sua inerzia, il Parlamento rinnova il vigore delle norme del codice penale, quantunque erose dal nuovo orientamento giurisprudenziale.
Di tutti i personaggi finora citati a margine del processo Trentini, ne è stato omesso uno. Il presidente di Scienza e vita, Alberto Gambino, ha commentato lapidario: “Suggerisco a chi plaude alla decisione di avere l’onestà di riconoscere che quando un’autodenuncia finisce con l’assoluzione, evidentemente si è tentato di strumentalizzare un caso pietoso”.
Alcune parole meglio di altre, in realtà, potrebbero suggerire chi stia strumentalizzando chi.
“Dove portano le altre strade se non comunque alla fine della vita? E a chi giova la mia sofferenza, a chi serve che si soffra fino a morire? Chi può arrogarsi il diritto? Io, la mia vita, la mia morte. Io, decidere di me”
Piera Franchini, malata terminale, aiutata dall’Associazione Luca Coscioni al suicidio assistito in Svizzera nel 2013.
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