Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con sentenza depositata lo scorso 19 febbraio, hanno posto fine all’annoso dibattito su quale sia la corretta modalità di calcolo dello spazio all’interno della cella. In seguito al riconoscimento, da parte della Corte di Strasburgo, del parametro dei tre metri quadrati come soglia minima al di sotto della quale si configura un trattamento inumano e degradante (quindi in violazione dell’art. 3 CEDU), in Italia era infatti emerso un acceso contrasto interpretativo su come questo spazio dovesse essere materialmente calcolato. Da un lato vi era chi, rifugiandosi in un eccessivo formalismo, riteneva che i 3 mq dovessero essere calcolati “in astratto”, senza cioè attribuire alcuna rilevanza alla presenza dei mobili: se, dividendo la planimetria della cella per il numero dei detenuti, si fosse ottenuto un risultato uguale o superiore ai 3 mq, la dignità della persona sarebbe stata salva. È questa l’interpretazione adottata dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che, nella circolare del 18 aprile 2014, raccomandava alle direzioni degli istituti penitenziari di “indicare la superficie risultante dalle planimetrie dell’Istituto, senza operare alcuna detrazione dovuta alla ovvia presenza dei mobili”. A questa lettura si opponeva chi, interpretando in chiave funzionale la nozione di spazio disponibile, intendeva i 3 mq come spazio “vivibile”, “calpestabile”. In altre parole, se il senso di individuare una soglia minima di spazio è quello di consentire al detenuto di vivere in un ambiente compatibile con la sua dignità, allora il calcolo dovrà necessariamente essere effettuato, in concreto, detraendo la porzione della cella occupata dai mobili che impediscono al detenuto di “muoversi normalmente”. Questo secondo orientamento – inaugurato dalle pronunce della Corte di Strasburgo Ananyev c. Russia e Mursic c. Crozia – era stato accolto dalla Corte di Cassazione che, con la sentenza Sciuto del 2016, aveva stabilito che “per spazio minimo individuale in cella collettiva va intesa la superficie della camera detentiva fruibile dal singolo detenuto ed idonea al movimento, il che comporta la necessità di detrarre dalla complessiva superficie dello spazio destinato ai servizi igienici e quello occupato dagli arredi fissi ma anche quello occupato dal letto”. Nonostante la sua indubbia chiarezza, neanche questa pronuncia del Supremo Collegio è tuttavia riuscita a sedare le dispute interpretative interne alla magistratura di sorveglianza.
Un contrasto specifico riguardava la superficie occupata dal letto. Chi riteneva che dovesse essere detratta la sola area occupata dal letto “a castello” si scontrava con chi, invece, non faceva distinzioni tra la struttura “singola” o “incastellata” della branda. Per i primi, il diverso e infelice destino riservato al letto “a terra” trovava giustificazione nell’idea che se il letto a castello, a causa delle sue dimensioni e del suo ingombro, non poteva essere utilizzato dal detenuto che per sdraiarsi, al contrario il letto singolo poteva essere facilmente spostato o utilizzato per svolgervi le normali azioni della vita quotidiana (quali ad esempio sedersi, consumare i pasti, leggere, studiare ecc.). Tale contrasto interpretativo è apparso così insanabile da esigere un intervento chiarificatore da parte delle Sezioni Unite della Cassazione. La Prima Sezione penale, con ordinanza adottata all’udienza del 21 febbraio 2020, ha infatti chiesto alle Sezioni Unite di spiegare una volta per tutte se “lo spazio minimo disponibile di tre metri quadrati per ogni detenuto” debba essere computato detraendo “gli arredi tutti senza distinzione ovvero solo quelli tendenzialmente fissi e, in particolare, se tra questi ultimi debba essere detratto il solo letto a castello ovvero anche quello singolo”. Ebbene la Suprema Corte, dopo aver confermato che nella valutazione dello spazio minimo si deve avere riguardo alla “superficie che assicura il normale movimento”, ha poi precisato che gli arredi da detrarre sono solo quelli “tendenzialmente fissi al suolo, tra cui il letto a castello” e non anche quelli facilmente spostabili, tra cui rientra il letto singolo: “per i detenuti all’interno di una cella, mentre il tavolino, le sedie, i letti singoli possono essere spostati da un punto all’altro della camera (sono quindi “mobili”), non altrettanto può dirsi per gli armadi o i letti a castello, sia a causa della loro pesantezza o del loro ancoraggio al suolo o alle pareti, che dalla difficoltà di trasporto al di fuori della” (§16 Considerato in diritto).
Dunque, lo spazio occupato dagli arredi grossi e pesanti deve essere detratto dal calcolo dei 3 mq, mentre tutti gli arredi che possono essere facilmente spostati da un punto all’altro della cella, proprio in quanto “mobili”, sono ininfluenti. Ora, anche ammesso che tavolini, sgabelli e letti singoli possano in astratto essere “facilmente spostati da un punto all’altro della cella”, viene da chiedersi dove potrebbero essere in concreto allocati per recuperare un po’ di spazio, posto che la cella rimane comunque una superficie di una manciata di metri quadrati. In altre parole, a cosa rileva la “mobilità” degli arredi in un luogo in cui non esiste spazio di manovra? Ma, al di là di ciò, forse il problema risiede a monte. Non sarebbero emersi tutti questi dubbi sulle modalità di calcolo dello spazio se solo ci fossimo ricordati che il fine ultimo della questione è la tutela della dignità dell’uomo. Forse non si sarebbe arrivati a delegare la questione alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione se i giudici, nella scelta dell’interpretazione corretta, si fossero lasciati guidare dalla volontà di estendere il più possibile la tutela dei diritti umani in carcere. Così facendo, sarebbero stati sicuramente orientati verso l’interpretazione più favorevole ai detenuti: niente di lontano da ciò che ci chiede la nostra Costituzione laddove, al comma 3 dell’art. 27, stabilisce che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
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