Come ogni anno da ormai tre lustri, l’Osservatorio di Antigone ha pubblicato il suo rapporto. Quello in questione, il XVI Rapporto, è probabilmente il più ricco della sua storia: nell’arco del 2019 ben 98 istituti sono stati visitati. In più, risulta di particolare interesse per l’immagine che restituisce del sistema penitenziario, e più in generale di quello giudiziario, durante tutta l’evoluzione della pandemia nel nostro Paese.
1. Panoramica generale
In questi mesi di quarantena forzata, non è stato raro leggere metafore e paragoni per descrivere quella che tutti noi abbiamo vissuto come una situazione “da carcerati”. Eppure, poco è stato scritto sull’effettiva situazione dentro i penitenziari, se non per i casi di cronaca relativi alle rivolte consumatesi durante il mese di marzo. Tutti ci siamo preoccupati di mantenere le distanze, pochi invece di quanto fosse difficile farlo in ambienti sovraffollati già prima dello scoppio dell’emergenza sanitaria: a fine febbraio i detenuti erano 61.230, a fronte di una capienza regolamentare (già calcolata generosamente, trascurando le indisponibilità) di 50.931 posti. Ciò vuol dire che, ufficialmente, negli istituti penitenziari erano presenti il 20% di detenuti in più rispetto alla capienza massima. Il dato di cui sopra è ovviamente una media, ed in 25 dei 98 istituti visitati da Antigone non era rispettato il criterio di 3mq per detenuto. In 45 istituti, invece, è stata riscontrata la presenza di celle senza acqua calda, ed in ben 52 c’erano celle senza doccia, portando quindi i detenuti ad utilizzare docce comuni, le quali costituiscono ovviamente un vettore di contagio. La mappa italiana del sovraffollamento era inoltre caratterizzata da una certa eterogeneità quando disaggregata per regioni: al fianco di aree sature ma complessivamente vicine alla capienza regolamentare come la Sardegna (85%), la Sicilia (101,5%) e la Calabria (101,6%), figuravano regioni con tassi ben più elevati della media, quali Molise (175,9%), Puglia (153,5%), Lombardia (140,7%), Veneto (135,8%) ed Emilia-Romagna (130,3%). È preoccupante notare come fra queste compaiano alcune delle regioni più colpite dal virus, dove quindi il rischio di contaminazione degli ambienti penitenziari era particolarmente elevato. Quelli italiani del 2019 sono numeri elevati se messi in relazione con la media europea, pari al 96%, soprattutto in confronto con quelli di alcuni paesi europei riconosciuti per le loro best practices in campo penitenziario. In Italia, il tasso d’ incarcerazione ogni 100 mila abitanti era uguale a 99.6, maggiore di quello di paesi come Finlandia (49,8), Paesi Bassi (56,4), Svezia (59,7), Danimarca (68,9) e Germania (76,7), ma inferiore a quello dei nostri cugini francesi (104,5), spagnoli (125,7) e portoghesi (125,2), e ben distante dai paesi dell’ex blocco sovietico, come Repubblica Ceca (202,6 che le vale il titolo di leader europeo), Polonia (190,1) e Ungheria (169,5). L’età media della popolazione penitenziaria era tra le più vecchie in Europa, con una percentuale di ultracinquantenni pari al 25% (seconda solo alla Bulgaria, 35%), mentre la media europea era uguale al 16%. Il nostro paese non brilla neanche per la durata della pena: i detenuti con una pena residua inferiore ad un anno erano solo il 4,4%, contro una media europea dell’8,5%. Un’attenzione particolare merita il dato relativo al numero di detenuti per violazione della normativa sulle droghe: in Italia costituiscono il 32% della popolazione carceraria, a fronte di una media europea del 18%. Tutto ciò a riprova del fatto che il problema nazionale è dato da una combinazione di diversi fattori, infrastrutturali ma anche giudiziari, con problemi intrinsechi e strutturali: dal 2015 la popolazione carceraria è in costante aumento, nonostante, come riportato nel rapporto, il numero di reati denunciati sia calato di quasi 300.000 unità nel periodo 2015-2018.
2. Il Carcere durante il COVID
Ovviamente, con tali numeri è impossibile pensare a misure di distanziamento sociale, e lo scoppio dell’emergenza sanitaria ha portato ad affrontare in fretta e con approssimazione un problema ignorato per anni, se non decenni, nonostante le numerose segnalazioni. Dalla fine di febbraio 2020 al giorno 15 maggio, il totale dei detenuti nei penitenziari nazionali è calato di 8.551 unità, portando la popolazione penitenziaria a 52.679 persone rispetto ad una capienza regolamentare in tempi normali (non di pandemia) che ricordiamo essere di 50.931 unità. Il calo più significativo è avvenuto tra il 19 marzo al 16 aprile – principalmente a seguito delle misure previste dal decreto cosiddetto “Cura Italia”-, durante il quale sono stati scarcerati 4.421 detenuti, ritmo rallentato a seguito dell’attenzione e delle critiche che tali misure hanno trovato presso l’opinione pubblica. Questo decremento è ovviamente dovuto non soltanto all’aumento del flusso in uscita, ma anche al blocco di quello in entrata: durante il lockdown, i reati sono drasticamente calati (come facilmente immaginabile), e soprattutto il fermo dei tribunali ha evitato che nuovi detenuti andassero ad ingrossare le fila della popolazione penitenziaria. Tuttavia, per quanto concerne le sopracitate misure, l’applicazione non è stata omogenea in tutto il Paese, con cali più significativi in Emilia-Romagna (-21%), in Lombardia (-15,9%) e ancor più tanto in Veneto (-10,7%) quanto in Piemonte (-8%), nonostante quest’ultime siano state tra le regioni più colpite dal virus. Proprio l’adozione di queste soluzioni ha probabilmente evitato lo scoppio di una bomba epidemiologica2 negli istituti: nel rapporto vengono conteggiati 119 infetti tra i detenuti e 162 tra il personale; dati che, da una parte, mostrano come l’isolamento del sistema penitenziario abbia agito quale un fattore protettivo, e dall’altra fotografano una distribuzione estremamente eterogenea dei contagi, con 67 e 29 casi rispettivamente riscontrati solo a Torino e Verona. Questo, a riprova di come ambienti sovraffollati e caratterizzati da bassa igiene accelerino la diffusione di un virus estremamente trasmissibile come il COVID-19.
3. Prospettive Post-COVID
È importante che i progressi compiuti sotto la spinta esogena della pandemia non vengano vanificati, né tantomeno ridotti. Bisogna ricordare che, nonostante l’allentamento delle misure di distanziamento, il virus non è sparito ed evitare focolai in situazioni potenzialmente drammatiche come quelle delle carceri è prioritario. E’ altresì doveroso ricordare che quella relativa al coronavirus non è l’unica questione igienicosanitaria da tenere in conto quando si parla del sistema penitenziario. Il principio guida del rispetto della dignità umana si manifesta anche attraverso la disponibilità di spazi sufficienti a condurre le proprie attività quotidiane. Come segnalato precedentemente, è importante controllare il flusso in entrata oltre a quello in uscita e, ferma restando la necessità di un aggiornamento strutturale delle leggi attuali, questo fine potrebbe essere raggiunto anche a normativa vigente, come viene segnalato dalla stessa associazione Antigone. Dal 2015, infatti, la legge 47/2015 ha reso centrale l’uso dei braccialetti elettronici (almeno nella teoria) come misura alternativa alla custodia cautelare, invertendo l’onere motivazionale e disponendo che le procedure di controllo elettronico siano sempre applicate, salvo che le stesse siano ritenute non necessarie o insufficienti. Dunque, come scritto nel rapporto stesso, “il braccialetto elettronico diviene la norma, il carcere l’extrema ratio”. Nonostante la norma, lo strumento elettronico continua ad essere pesantemente sottoutilizzato. Al momento i braccialetti attualmente in uso sono all’incirca 2000, e l’Italia continua ad essere tra i paesi dell’Unione Europea con il più alto tasso di detenuti in custodia cautelare, e la percentuale di detenuti non definitivi è pari al 32,6% rispetto ad una media europea pari al 22%. L’incoraggiamento e la disponibilità di questo strumento potrebbero essere preziosi al fine di mitigare la situazione di perenne sovraffollamento delle carceri, oltre ad evitare l’abuso dello strumento della custodia cautelare, come avvenuto negli ultimi anni. Un’altra priorità sarà valutare propriamente gli effetti del virus nel breve e nel medio-lungo termine, il che richiederà una maggiore attenzione nella raccolta e nell’ elaborazione dei dati relativi al sistema penitenziario, alla qualità della vita ed alle opportunità di riscatto che esso offre ai detenuti. È importante monitorare la situazione non solo per quanto concerne le condizioni sanitarie, ma anche in considerazione della possibile riacutizzazione delle tensioni interne ai penitenziari, come l’ aumento di violenze collegate3 e gli effetti che le misure di distanziamento hanno avuto, hanno ed avranno sulla salute psichica dei detenuti. L’emergenza epidemiologica, sebbene ora meno grave, non è ancora terminata, ed il rischio di una seconda ondata è presente4: è fondamentale predisporre piani preventivi e protocolli di crisi, imparando dalla gestione della prima fase dell’emergenza. Il XVII Rapporto Antigone ci dirà se e come il sistema penitenziario sarà stato in grado di fronteggiare quest’ emergenza.
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