È del 5 febbraio l’articolo di Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera che riporta un dato preoccupante sui processi svoltisi nel 2019, ossia l’assoluzione dell’imputato (escluse le prescrizioni e le sentenze che prosciolgono su alcune imputazioni e condannano su altre) nel 35-40% dei casi in primo grado, nei processi dinanzi al giudice monocratico (competente per la maggior parte dei reati). Un’evidenza, questa, che impone delle riflessioni sui criteri dell’obbligatorietà dell’azione penale.  Ai sensi dell’art. 112 Cost. “il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”. Con questo articolo si sancisce uno dei principi-cardine del sistema processualpenalistico. La disposizione è icastica e richiede un considerevole sforzo esegetico per definire due nodi che si collocano su piani distinti ma complementari: la titolarità e il contenuto dell’obbligo di agire [1]. Gli artt. 50, comma 1 c.p.p. e 231 disp. att. sanciscono il monopolio dell’azione penale in capo al pubblico ministero nel sistema codicistico, escludendo quindi l’azione penale privata (della persona offesa) e l’azione penale popolare. Nulla impedisce che nella legislazione speciale l’azione sia affidata anche ad altri soggetti, come parrebbe accadere dinanzi al giudice di pace ex art. 21 d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, che, per i reati procedibili a querela, ammette la citazione a giudizio della persona alla quale il reato è attribuito su ricorso della persona offesa. Occorre sottolineare, però, che non si tratta di una vera e propria azione penale privata – la cui previsione comunque non sarebbe stata in contrasto con l’art. 112 Cost., una volta assicurata la possibilità per il pubblico ministero di attivarsi egualmente [2] –, perché con la presentazione del ricorso viene solo avviato un iter procedimentale accelerato [3].

Visto il profondo legame tra l’obbligo di esercitare l’azione e la figura del pubblico ministero, pare utile un excursus sul principale titolare dell’azione. Secondo gli artt. 73 e 74 della legge sull’ordinamento giudiziario, il pubblico ministero veglia sull’osservanza delle leggi, promuove la repressione dei reati e inizia ed esercita l’azione penale. A livello strutturale, possiamo individuare due archetipi: un modello di accusa “accentrato”, teso a determinare una burocratizzazione delle funzioni, massimamente espresso nell’assetto napoleonico; un modello di accusa “diffuso”, che per antonomasia coincide con l’accusa popolare, tipica della Rivoluzione francese. Con la Legge Rattazzi del 1859, l’Italia, ispirandosi al modello napoleonico, ha adottato un modello che si potrebbe definire piramidale, al cui vertice spiccavano il Ministro della giustizia e il Procuratore generale presso la Corte di Cassazione; al gradino inferiore, invece, i Procuratori generali presso le Corti di Appello e infine i Procuratori della Repubblica. Secondo l’art. 69 ord. giud. abr., il pubblico ministero era sotto la “direzione” del Ministro della Giustizia che poteva nominare, dimettere e trasferire i pubblici ministeri, espressione del potere esecutivo. L’assetto era gerarchico e ogni notizia di reato appresa al livello più basso della piramide doveva essere comunicata fino al Procuratore generale, che poteva esercitare l’avocazione in modo totalmente discrezionale. Si noti bene che l’ufficio della pubblica accusa costituiva un potere che operava “non solo innanzi, ma sopra e dentro la magistratura” [4], e ciò trovava spiegazione nella necessità di impedire il diffondersi di orientamenti giudiziari che neutralizzassero l’indirizzo politico dei governi. Con la Legge Togliatti del 1946, invece, è stata eliminata la dipendenza esterna dell’esecutivo, estendendo alla magistratura inquirente la garanzia dell’inamovibilità e cambiando la parola “direzione” dell’art. 69 ord. giud. in “vigilanza”. Se, da una parte, veniva amputato (in senso figurato) il vertice della piramide, ovverosia il Ministro della giustizia, dall’altra resistevano gli altri “vertici”, quei Procuratori generali privi, però, di un’investitura politica. Si trattava dunque di un assetto napoleonico ma incoerente, perché era mancante la figura del Ministro; né già poteva dirsi un sistema diffuso, perché non c’era alcun collegamento diretto con la sovranità popolare. Dopo due anni entrava in vigore la Costituzione, che però è ambigua rispetto alla figura del pubblico ministero. Vi sono disposizioni come l’art. 108, comma 2 Cost., che riconosce l’indipendenza dei pubblici ministeri presso le giurisdizioni speciali, da cui si potrebbe dedurre l’indipendenza generalizzata per la magistratura inquirente. Al contempo, ulteriori disposizioni permettono interpretazioni antitetiche, come ad esempio l’art. 107 Cost., che stabilisce l’indipendenza della magistratura, salvo poi prevedere al comma 4 che “il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario”, come ad indicare che nei precedenti commi il riferimento alla “magistratura” riguardi esclusivamente il giudice. Discordanti, per l’appunto, sono le posizioni in dottrina: secondo un primo orientamento, la Costituzione imporrebbe solo l’indipendenza esterna, cioè dall’esecutivo [5], e non l’indipendenza interna, divenendo possibile una gerarchia negli uffici della Procura; diversamente, si è sostenuta anche l’indipendenza interna; infine, si è affermato che la Carta non escluderebbe la dipendenza dal Ministro della giustizia [6]. Nonostante queste diverse interpretazioni, il sistema si è orientato nel prevedere l’indipendenza dal potere esecutivo attraverso l’equiparazione della magistratura requirente con quella giudicante, mentre rispetto al rapporto col titolare dell’ufficio parrebbero possibili sia l’indipendenza realizzatasi con la “personalizzazione delle funzioni” nel Codice dell’88, sia un rapporto sovraordinato come quello proposto nella Riforma Castelli del 2006 [7].

Torniamo ora all’analisi del contenuto dell’obbligo. Il canone secondo cui l’azione penale è obbligatoria va inteso nel senso di precludere il suo contrario, ossia il cd. “principio di opportunità”, mentre è pacifico che vi possa essere un minimo di selezione nelle notizie di reato da portare a processo, altrimenti si configurerebbe un assetto antieconomico [8]. Tale selezione presuppone una discrezionalità non “politica”, ma “tecnica”. Affinché ciò avvenga, sarebbero necessarie due condizioni: la prima è che l’alternativa tra azione e archiviazione sia speculare, cioè che non ci sia una zona grigia, ed in questo senso sarebbero necessari criteri predeterminati e tassativi; la seconda condizione è il controllo ex post dell’organo giurisdizionale, e ciò avviene chiaramente con la richiesta di archiviazione ex art. 409 c.p.p. e ss., mentre per l’esercizio dell’azione il controllo si può configurare con l’udienza preliminare (dove prevista), che ha lo scopo di filtrare le azioni azzardate e ingiuste. Si aggiunga che da quando il rito abbreviato, con la legge Carotti del 1999, è divenuto di fatto un “diritto potestativo” dell’imputato, non richiedendosi più il consenso del pubblico ministero e il vaglio nel merito da parte del giudice (sulla possibilità di decidere allo “stato degli atti”), per autorevole dottrina [9] non si dovrebbe più richiamare il criterio “in dubio pro actione”, enunciato nella sentenza della Corte Cost., 15 febbraio 1991, n. 88, ma l’opposto “in dubio pro reo”, posto che la causa, qualora fosse richiesto l’abbreviato, potrebbe concludersi direttamente in udienza preliminare, senza le garanzie di uno sviluppo dell’accertamento in dibattimento. Vi sono vari aspetti problematici: 

  • per le cd. “pseudo notizie di reato”, “ossia le informative concernenti fatti che ictu oculi non si riferiscano a fatti reali” [10], inquadrabili in una fattispecie incriminatrice, le Sezioni Unite non ritengono che la “cestinazione”, ossia la destinazione informale all’archivio, sia un provvedimento abnorme [11]. Così, però, non è effettuato alcun controllo sull’operato del pubblico ministero. 
  • Affinché in udienza preliminare avvenga un vaglio effettivo sulla richiesta di rinvio a giudizio, è necessario che l’imputazione sia espressa in forma “chiara e precisa” come indicato dall’art. 417 c.p.p.; solo così la difesa può contestarne nel merito la fondatezza. Dunque, appare criticabile l’orientamento delle Sezioni Unite Battistella del 2007, che hanno ritenuto abnorme la restituzione degli atti in seguito alla dichiarazione di nullità, nella situazione in cui non era stata indicata la fattispecie violata. In questo caso, il Gup, per le Sez. Un., dovrà redarguire il PM, e solo laddove questo non modifichi la sua richiesta potrà restituire gli atti.  
  • Nel rito monocratico, quello a cui si riferiscono i dati riportati nell’articolo di Luigi Ferrarella, è possibile la citazione diretta, senza udienza preliminare, sul presupposto (non del tutto persuasivo) per cui per l’imputato è in gioco un addebito non grave e una pena non particolarmente seria. In questo caso, però, si sacrifica il controllo giurisdizionale sulla fondatezza dell’azione, lasciando il pubblico ministero completamente libero. Tale scelta comporta il rischio di compromettere l’economia processuale, svolgendo più dibattimenti di quanti sarebbero effettivamente necessari, come dimostra l’alto numero di assoluzioni riportato nell’articolo; d’altra parte si lede la difesa, che perde la possibilità di evitare la fase del giudizio [12].  
  • L’udienza preliminare è poi assente laddove si configuri una “evidenza probatoria” per cui il PM può/deve dare luogo ai riti alternativi acceleratori. Criticabile l’assetto del rito immediato cd. cautelare previsto dall’art. 453, comma 1 bis c.p.p., possibile in presenza di varie condizioni, tra cui il fatto che l’ordinanza cautelare non sia stata revocata o annullata. Però, se tale ordinanza venisse annullata o revocata dopo l’instaurazione del rito, non sarebbe più possibile tornare al rito ordinario, e così il soggetto perderebbe due garanzie: il 415 bis c.p.p. e l’udienza preliminare.  

Nonostante il richiamo alla “discrezionalità tecnica”, è indubbio l’alto rischio che nelle scelte del PM vi siano forme occulte di “discrezionalità incontrollata” [13]. Cerchiamo quindi di ripercorrere per sommi capi l’evoluzione dell’obbligatorietà dell’azione penale. Nel periodo fascista, il Codice Rocco all’articolo 1 stabiliva che l’azione penale doveva essere esercitata per ogni reato. Tuttavia, l’obbligatorietà dell’azione era sostanzialmente vanificata dalla totale dipendenza della magistratura requirente al potere esecutivo e dall’assenza di controlli giurisdizionali sull’archiviazione, dato che i controlli erano di tipo gerarchico. Dunque, il Ministro aveva il potere direttivo, potendo obbligare il PM a promuovere l’azione ovvero ordinandogli di non procedere in presenza di gravi motivi di ordine politico. L’azione penale era subordinata alle politiche criminali del regime. Nella Costituzione, l’obbligatorietà dell’azione è stata riconfermata quasi all’unanimità, in quanto “principio che si adegua ad un ordine democratico nell’ambito di uno stato di diritto” [14]. Il problema era il rapporto del PM con l’esecutivo, visto quanto accaduto nel periodo fascista. Secondo Calamandrei era indispensabile, per l’effettività del principio, l’indipendenza dal Ministro e l’inamovibilità; di diverso avviso Leone e Uberti, che non ritenevano imposta l’esclusione dell’esecutivo. La giurisprudenza costituzionale, negli anni, ha conferito al principio una funzione di garanzia. Ad oggi, ha natura strumentale rispetto ai principi di eguaglianza [15] e di legalità [16], per cui si potrebbe sostenere che permettere al pubblico ministero di non agire per valutazioni di natura politica, in presenza di un fatto che il legislatore qualifica come reato, gli permetterebbe di aggirare l’articolo 25 della Costituzione. Rispetto a quanto detto precedentemente, vi sono molte voci critiche riguardo al principio di obbligatorietà dell’azione penale, divisibili in due gruppi [17]. Il primo, detto dei “giuristi pragmatici”, ritiene impossibile una reale applicazione del principio e considera il PM costretto ad effettuare una selezione dei fascicoli da seguire. Di conseguenza, parte dei reati sono destinati alla prescrizione o all’archiviazione per mancata acquisizione di elementi utili all’esercizio dell’azione penale; ciò parrebbe essere confermato dall’alto numero di prescrizioni dichiarate dai Gip. Il secondo gruppo, invece, si rifà a motivazioni politiche rispetto al mancato binomio tra obbligatorietà dell’azione e responsabilità del pubblico ministero nel sistema democratico, ovvero richiama analisi comparatistiche. Le soluzioni proposte a questa situazione sono molteplici, in primis la necessità di una “depenalizzazione”. È indubbio che l’ipertrofia delle norme penali nell’ordinamento è una delle ragioni per cui il principio viene sostanzialmente disapplicato. Comunque, bisogna tenere presente che il sovraccarico della giustizia penale deriva dalla ricorrente commissione di reati insopprimibili, perciò la depenalizzazione da sola non sarebbe sufficiente a ridare coerenza al sistema. In questo senso, si sono richiamati i “criteri di priorità”, ovverosia le indicazioni che impediscono che sia lo stesso magistrato a selezionare le notizie di reato. Vladimiro Zagrebelsky sostiene che non ci sia un contrasto con il 112 Cost., perché l’eventuale mancato esercizio dell’azione penale per i reati considerati “non prioritari” non deriverebbe da valutazioni di opportunità, ma da un limite concreto della capacità di smaltimento del lavoro [18]. Posto che siano ammissibili tali criteri, il problema è capire quale sia l’organo deputato a formularli: se le singole procure, come avvenuto con la nota “circolare Zagrebelsky” del 1990, o se il Parlamento attraverso lo strumento della legge, permettendo tra l’altro un controllo della Corte Costituzionale sulla loro ragionevolezza (in questo senso, la “Bicamerale d’Alema” del 1997). Parrebbe esclusa l’ipotesi dell’esecutivo per l’orientamento interpretativo maggioritario in dottrina delle previsioni costituzionali (vedi supra). Con il Codice Vassallidel 1988 si è optato per la “personalizzazione delle funzioni”. In questo modo, si è rotta la cd. gerarchia interna degli uffici, ovverosia la dipendenza del PM dal Procuratore. La ratio era rendere completamente liberi i PM, così che questi nel loro agire avrebbero spontaneamente riprodotto le opinioni della società. Verso tale direzione, si registra la forte limitazione del potere di avocazione del Procuratore generale a casi tassativamente previsti dalla legge, come ad es. nell’art. 412 c.p.p., dove il PM non esercita alcuna scelta tra archiviazione ed esercizio dell’azione nei termini stabiliti. La personalizzazione delle funzioni causava, però, un deficit di coordinamento tra i vari pubblici ministeri, necessario soprattutto per particolari fattispecie di reato. Sul punto è intervenuto il legislatore con l’istituzione della Procura distrettuale e nazionale antimafia agli inizi degli anni ‘90. Altro persistente problema riguarda le scelte effettuate dai PM, né chiare né trasparenti. In questo senso, la riforma Castelli [19] cerca di ricreare la gerarchia interna agli uffici tramite verticalizzazione. Torna quindi in auge lo schema della “circolare Zagrebelsky”. Permangono però problemi rispetto al principio di legalità, dato che ogni procuratore può stabilire linee diverse dagli altri procuratori. 


[1] C. Cesari, Il pubblico ministero e l’obbligatorietà dell’azione, in A. Camon-C. Cesari-M. Daniele-M.L. DI Bitonto-D. Negri-P.P. Paulesu,Fondamenti di procedura penale, Milano, 2019, 113 ss.  
[2] Corte Cost., 28 luglio 1979, n. 84  
[3] G. Conso-V. Grevi-M. Bargis, Compendio di procedura penale, 9°, Milano, 2018, 1230 s.  
[4] G. Carcano, il pubblico ministero, Stabilimento Redaelli della Società Chiusi Rechiedei, 1868, 7 ss, come citato in M.L DI Bitonto, I soggetti, in A. Camon-C. Cesari-M. Daniele-M.L. DI Bitonto-D. Negri-P.P. Paulesu, Op. cit, 184.  
[5] A. Pizzorusso, voce Organi giudiziari, in Enc. Dir., vol XXXI, 1981, 100 ss, come citato in M.L DI Bitonto, Op. cit, 185.  
[6] F. Cordero, Procedura penale, 9° ed., 2012, 212; G.Ubertis Azione penale e sovranità popolare, in Riv. It. dir. proc. pen.,1975, 1202, come citato in M.L DI Bitonto, Op. cit, 185 
[7] D.lgs. n. 106/2006  
[8] C. Cesari, Il pubblico ministero e l’obbligatorietà dell’azione, in A. Camon-C. Cesari-M. Daniele-M.L. DI Bitonto-D. Negri-P.P. Paulesu, Op. cit, 115.  
[9] F. Caprioli, Indagini preliminari e udienza preliminare, in Compendio di procedura penale, a cura di G. Conso-V. Grevi-M. Bargis, 7° ed., Milano, 2014, 645.  
[10] In “Fondamenti di Procedura penale” di A. Camon-C. Cesari-M. Daniele-M.L. DI Bitonto-D. Negri-P.P. Paulesu. 
[11] Cass., Sez. un., 22 novembre 2000, p.m. in caso Buonarroti, in Cass. pen., 2001, 1777; Cass., Sez. un., 11 luglio 2001, Chirico, ivi, 2002, 933.  
[12] C. Cesari, Azione ed inazione, in A. Camon-C. Cesari-M. Daniele-M.L. DI Bitonto-D. Negri-P.P. Paulesu, Op. cit., 448.  
[13] C. Cesari, Il pubblico ministero e l’obbligatorietà dell’azione, in A. Camon-C. Cesari-M. Daniele-M.L. DI Bitonto-D. Negri-P.P. Paulesu, Op. cit, 118.  
[14] Onorevole Giuseppe Bettiol durante i lavori dell’Assemblea Costituente durante la seduta antimeridiana del 27 novembre 1947.  
[15] Corte Cost., 26 luglio 1979, n. 84.  
[16] Corte Cost., 15 febbraio 1991, n. 88.  
[17] A. Spataro, Obbligatorietà̀ dell’azione penale, in L. Pepino (a cura di), Giustizia: la parola ai magistrati, Roma, 2010, 119.  
[18] V. Zagrebelsky, Stabilire le priorità nell’esercizio obbligatorio della azione penale in Il Pubblico ministero oggi, Milano, 1994, 35. 
[19] D.lgs. n. 106/2006