È il 24 febbraio 1994 quando a Calogero Mannino, già ministro in cinque diversi governi ed esponente di spicco della Democrazia Cristiana, viene notificato il suo primo avviso di garanzia: la Procura di Palermo aveva aperto un’indagine nei suoi confronti per concorso esterno in associazione mafiosa, reato per il quale, un anno dopo, Mannino viene arrestato. È questo il momento a partir dal quale, per l’ex ministro, inizia una vera e propria odissea, che lo costringerà che durerà per venticinque anni, un quarto di secolo, fino a che non si sentirà dire, a settantanove anni, per la seconda volta, ciò che lui ha sempre sostenuto: era innocente.

Nel processo per concorso esterno, infatti, Mannino, dopo che era stato detenuto per nove mesi e costretto agli arresti domiciliari per ulteriori tredici, viene assolto in primo grado nel 2001 perché il fatto non sussiste, ma è poi condannato dalla Corte di Appello di Palermo nel 2003 a cinque anni e
quattro mesi. Due anni dopo, la Cassazione annulla la sentenza di condanna, con il procuratore generale della Corte, Francesco Jacoviello, che si esprime nel modo seguente“Nella sentenza di condanna di Mannino non c’è nulla. La sentenza torna ossessivamente sugli stessi concetti, ma non c’è nulla che si lasci apprezzare in termini rigorosi e tecnici, nulla che possa valere a sostanziare l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Questa sentenza costituisce un esempio negativo da mostrare agli uditori giudiziari, di come una sentenza non dovrebbe essere mai scritta”. Seguendo i dettami della Cassazione, la seconda sezione della Corte di Appello di Palermo assolve Mannino perché il fatto non sussiste. La procura generale di Palermo impugna nuovamente la sentenza, ricorrendo in Cassazione, che però, nel 2010, rigetta l’impugnazione, confermando l’assoluzione in via definitiva: Mannino era innocente. Dopo più di quindici anni da quel primo avviso di garanzia gli viene detto che può uscire dai labirinti della giustizia italiana che gli hanno portato via, mese dopo mese, più di quindici anni di vita. Niente più avvocati, niente più tribunali.

Passano due anni, il 24 luglio 2012, sempre la Procura di Palermo (nelle persone dei Pubblici Ministeri Antonio Ingroia, Vittorio Teresi, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia) chiede il rinvio a giudizio di dodici indagati; tra di essi figura anche Calogero
Mannino, che viene accusato del reato di cui all’art. 338 cp, ossia di violenza o minaccia verso un corpo politico dello Stato: è l’inizio del processo sulla cosiddetta “trattativa Stato-Mafia”, per lo svolgimento del quale l’ex ministro chiederà, a differenza degli altri soggetti coinvolti, il rito abbreviato. Secondo l’accusa, infatti, dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, alcuni organi “deviati” dello Stato, in particolare gli ufficiali del Ros Giuseppe De Donno (condannato a otto anni), Mario Mori e Antonio Subranni (condannati a dodici anni) avrebbero iniziato una trattativa con i corleonesi allo scopo di porre fine alla stagione stragista inaugurata da Cosa
nostra in seguito alla sentenza del maxi-processo, offrendo, tra le altre cose, la revoca del regime del 41bis per i condannati per mafia. Trattativa che, secondo la Procura di Palermo, sarebbe stata intrapresa su ordine dell’allora ministro Mannino.

E così per l’ex esponente Dc si aprono di nuovo, a settantatré anni, le porte dei tribunali: altre scale da salire, altre parcelle da pagare, e altri anni da passare esposto alla gogna mediatica che un processo con una risonanza del genere, in Italia, purtroppo, ontologicamente implica.
Come detto, il cinque volte ministro democristiano opta per il rito abbreviato e nel 2015 il gup di Palermo Marina Petruzzella lo assolve per “non aver commesso il fatto”. La Procura impugna la sentenza, ma il 22 luglio 2019 la Corte d’Appello di Palermo, nonostante nel
frattempo siano arrivate le condanne in primo grado degli altri imputati per il reato di cui all’art. 338 cp, conferma l’assoluzione: Mannino era, di nuovo, innocente.

È iniziata quando aveva cinquantacinque anni, finisce quando ne ha settantanove. Venticinque anni di processo. Nove mesi di carcere, tredici di domiciliari. Zero condanne definitive, due assoluzioni. Bastano i numeri per raccontare come questo “Stato incivile”, per citare l’ottimo Mattia Feltri, ha distrutto la vita di Calogero Mannino, che dal 1994 non ha fatto altro che difendersi da accuse ingiuste. “Mi hanno sequestrato la vita” ha dichiarato l’ex politico della Dc: “ Difendersi è un lavoro che ti occupa la vita intera. Adesso spero sia finita qui. Ho il diritto di concludere nella pace”

Kafka parlava del processo “che a poco a poco si trasforma in sentenza”. Nel caso di Mannino il processo è stato la sentenza. Perché venticinque anni di processo per crimini mafiosi nell’opinione pubblica hanno un effetto peggiore di una condanna. Perché venticinque anni di processo, che finiscano in condanna o in assoluzione, pongono definitivamente fine alla tua vita. Lo stesso Mannino ha ammesso che, paradossalmente, è andata meglio a Totò Cuffaro, che se l’è “cavata” con cinque anni di processo e cinque di carcere. “Io invece” dice l’ex ministro “sono rimasto impigliato nella trappola per più di venticinque anni. E senza una
condanna. Ho espiato una pena inflitta non da un collegio giudicante, ma da una procura che non accettava le assoluzioni e che voleva a tutti i costi che io soccombessi; o che morissi prima dell’assoluzione: così bene o male sarebbe rimasto in piedi il sospetto e loro avrebbero comunque salvato la faccia”.

Ma la incivile (scusate, non trovo aggettivo più adatto) vicenda che ha riguardato Calogero Mannino avrà rilevanti ripercussioni anche sulla ricostruzione dei fatti che compongono il quadro della presunta trattativa che ha avuto luogo, secondo quanto prospettato dalla
Procura di Palermo, a partire dal 1992, tra lo Stato e i vertici mafiosi, impersonati da Totò Riina, Bernardo Provenzano e Antonino Cinà. Questi, tramite Vito Ciancimino, avrebbero presentato alle istituzioni una serie di richieste finalizzate ad ottenere benefici di varia natura,
la cui soddisfazione avrebbe posto fine alla politica stragista iniziata con l’omicidio di Salvo Lima. Gli ufficiali del Ros Mori, Subranni e De Donno avrebbero dunque contattato uomini collegati a Cosa nostra per intavolare questa trattativa, su incarico in primis di Calogero
Mannino, all’epoca Ministro per gli interventi straordinari per il Mezzogiorno. Tralasciando, in questa sede, gli aspetti giuridicamente discussi di tale processo, è doveroso porre l’attenzione sul fatto che una tale ricostruzione dei fatti, confermata dalla Corte d’Assise di Palermo, rischia di essere sgretolata dalla confermata assoluzione in appello dell’ex ministro.

Per non  parlare del fatto che l’assoluzione in primo grado era addirittura precedente alla sentenza della Corte d’Assise, che si pone quindi in netto contrasto con quanto affermato dal gup di Palermo Petruzzella, sintomo di una giustizia sempre più “schizofrenica” come giustamente fa notare Ermes Antonucci de Il Foglio. Schizofrenia ben espressa nelle parole dell’ex generale
dei carabinieri Mario Mori che, dopo l’assoluzione di Mannino, si è giustamente posto un interrogativo: “Adesso i pm dovranno trovare il politico innominato che ci avrebbe ordinato di contattare il capomafia Totò Riina. Se non è Mannino, chi?”. Da un lato, infatti, abbiamo una sentenza che dice che Mannino ha dato l’input alla trattativa, e su ciò si basano le conseguenti condanne, dall’altro una sentenza confermata in appello che dice che Mannino “non ha commesso il fatto”. Vedremo se la sentenza della Corte d’Assise e le relative ricostruzioni verranno confermate o meno in secondo grado, ma nel frattempo l’impianto scricchiola e la
giustizia italiana ci lascia, ancora una volta, sconcertati.