Nel corso di un’intervista pubblicata in questi giorni su La Stampa, il dott. Piercamillo Davigo ‒ attento a svolgere il compito di ricamare, risposta dopo risposta, tutti i motivi per cui è stato riconosciuto come nume tutelare di una certa idea di giustizia, che non è la nostra ‒ è stato incalzato sulla vicenda di Alfredo Cospito. Riportiamo di seguito il passaggio fondamentale dell’intervista:

Intervistatore, Andrea Malaguti: Conosce anche la vicenda dell’anarchico Alfredo Cospito?
Davigo: «Certo».
I: Si sta lasciando morire in carcere.
D: «In Gran Bretagna i combattenti dell’Ira che hanno fatto lo sciopero della fame sono morti»»,
I: È disumano.
D: «Non è questione di umanità, ma di credere nei valori delle nostre leggi».
I: Sembra disumano anche credendoci.
D: «Uno Stato non può lasciarsi ricattare se crede nei suoi valori»


*Lorenzo Zilletti, avvocato penalista, Responsabile Centro Studi “Aldo Marongiu” dell’Unione delle Camere Penali Italiane, socio di Extrema Ratio associazione.

«Configurare come sfida o ricatto l’atteggiamento di chi fa del corpo l’estremo strumento di protesta e di affermazione della propria identità significa tradire la nostra Costituzione che pone in cima ai valori, alla cui tutela è preposto lo Stato, la vita umana e la dignità della persona: per la sua stessa legittimazione e credibilità, non per concessione a chi lo avversa. Sta qui – come i fatti di questi giorni mostrano nel mondo – la differenza tra gli Stati democratici e i regimi autoritari». Queste le parole che ci hanno indotto a sottoscrivere l’appello per la revoca del regime di detenzione speciale ex 41 bis ad Alfredo Cospito, in sciopero della fame dal 20 ottobre scorso.

La distanza siderale che separa il nostro modo di pensare il mondo, la società, la legge, da quella di Cospito e la ferma esecrazione per le azioni che lo hanno portato in carcere, a prescindere dalla loro qualificazione giuridica, non ci fanno rinnegare i pilastri su cui si fonda la Carta costituzionale. E neppure dimenticare quanto, con lucidità impareggiabile, un ventennio orsono fu osservato dal magistrato Alessandro Margara al riguardo del carcere “duro”:

«Nonostante quanto si sostiene, il 41 bis non ha contribuito che eccezionalmente a convincere i detenuti a collaborare con la giustizia: credo che sia stata la legislazione premiale molto ampia a farli decidere; la carota era sufficientemente appetibile, anche senza il bastone […]. Il carcere, come persuasore della collaborazione, non mi pare cosa di cui vantarsi. Penso che il carcere dovrebbe essere neutrale rispetto alle scelte processuali di chi è affidato alla sua custodia. È […] un nodo critico fondamentale pensare il carcere come il luogo dove si incapacita un uomo (per pericoloso che possa essere, negandogli che possa mantenere relazioni di vita) e supporre, poi, che altri uomini possano ritrovare in esso occasioni di riabilitazione. […] Si dà un’efficacia miracolosa al carcere se si pensa che lì si battano la mafia e le altre aggregazioni criminali, che possono soccombere solo se sono battute sul territorio di cui si sono impadronite: battute da uno Stato credibile, che si fa reale carico delle proprie responsabilità istituzionali e sociali». Ecco perché siamo orgogliosi di non condividere i valori di Piercamillo Davigo.