*crediti foto in calce
C’è un luogo, il carcere minorile di Napoli, e ci sono delle ragazze e dei ragazzi che pagano pegno allo Stato con la loro giovinezza. Le loro storie, singolari ed accurate, si svolgono in un tempo presente, a noi vicino, che ogni tanto si allontana e ci trasporta nel “prima”: prima del carcere, prima della privazione della libertà. Scorci alla “Orange is the new black”, amatissima serie americana che conduce lo spettatore nei personali percorsi delle detenute di un carcere femminile. A Napoli, però, tutto cambia. Non siamo negli Stati Uniti di un oltreoceano lontano, ma siamo sin troppo vicini alle onde del Mar Tirreno centrale che di isola in isola avvolge e separa. Questo lo scenario della serie tv targata Rai “Mare fuori”, venuta preziosamente alla luce grazie alla sua aggiunta nel catalogo di Netflix. Le scene del telefilm sono state girate presso la base navale della Marina Militare di Napoli, in un’ambientazione ispirata a quella dell’Istituto Penale per i Minorenni di Nisida, collocato alla cima di un isolotto distante dal contesto urbano della soleggiata città di Napoli. Il paesaggio che circonda le grigie mura è talmente bello da mozzar ogni fiato, tanto da voler realizzare strutture turistiche di sostituzione all’Istituto penale per minorenni (IPM). Per ora, gli unici visitatori restano i detenuti, nella maggioranza tra i 17 e i 21 anni d’età per periodi di detenzione che vanno da uno a due anni[1]. La quotidianità delle giornate trascorse nell’Istituto è come appare, contornata da obblighi anche nel piacere: almeno un’ora al giorno di lezioni scolastiche e due momenti in cui praticare sport e attività all’aperto. Lo svago è imposto tanto quanto le attività educative e lavorative, in un alternarsi di piacere e fatica che quasi si confondono.
Nella serie tv, i personaggi indossano la veste di figlie e figli di boss della camorra, di zingare e zingari, di ragazze e ragazzi borghesi. Le realtà sono variegate e lo sono anche le storie che conducono i singoli protagonisti tra le verdi sbarre dell’IPM; la rappresentazione di ogni personalità è accurata, permette di riflettere sui diversi motivi che conducono i soggetti a delinquere: alcuni di loro sembrano non avere altra scelta. Carmine, Ciro ed Edoardo non hanno mai avuto prospettive diverse per il loro futuro; figli di boss della Camorra, sin da piccoli sapevano di dover far fronte a determinate aspettative che gli imponevano il rispetto di due principi: violenza verso l’altro ed onore per la propria famiglia, quella dei “Di Salvo” (per Carmine) e dei “Ricci” (per Ciro ed Edoardo). Accumunati dal contesto e dalle imposizioni malavitose da parte dei genitori, differenziati da sogni e ambizioni personali, i loro personaggi conducono ad un grande interrogativo: si è destinati a morire nel contesto in cui si nasce? Se nella maggior parte dei casi la risposta appare tristemente affermativa, lievi speranze sono personificate da personaggi come quello di Carmine, disposto a mettere in pericolo la propria vita per distaccarsi dai circoli di violenza ed imporsi finalmente come artefice del proprio futuro. Tale percorso conduce ad una riflessione sulla realtà del sistema penitenziario italiano: storie di emancipazione come questa sono rese possibili oppure osteggiate da parte delle istituzioni? La struttura delle carceri italiane sembra disattendere ogni aspettativa di rieducazione; anzi, di “educazione”, come forse sarebbe più corretto rilevare nel caso dei minori, poiché molte sono le storie di crescita senza punti di riferimento da cui assimilare basici principi educativi. Ciò che sappiamo, però, è che il luogo di detenzione diviene quasi una scuola criminale, i cui alunni esperti finisco per condurre, tramite ciò che hanno imparato, ad un incremento del fenomeno della delinquenza. Nemmeno lo stigma sociale, solito a marchiare chiunque abbia trascorso un periodo di restrizione, aiuta il soggetto ad affrancarsi dalla realtà criminale in cui è nato, ostruendo l’effettività di reinserimento nella società. Prendendo atto dello stato delle cose, bisognerebbe allora chiedersi se non dovrebbe essere lo Stato, già al di fuori e prima del circuito penale, ad incrementare i percorsi educativi tramite interventi innanzitutto sociali e culturali. A tal proposito, è necessario ricordare come il ricorso alla detenzione in IPM deve rappresentare l’extrema ratio, la strada ultima da percorrere solo nell’eventualità in cui non si riescano ad attuare percorsi alternativi più idonei alla risocializzazione del minore. D’altronde, è anche per questa ragione che, sul piano processuale, è dettata una disciplina differente: lo scopo è quello di bilanciare la violenza del processo penale e della detenzione con la fragilità emotiva e il bisogno educativo del soggetto minore. Tornando alla cinepresa, un’altra dicotomia centrale nella serie è rappresentata dal rapporto tra Chiattillo (Filippo) e Naditza: lui pianista e figlio di due facoltosi milanesi, lei zingara e in carcere “per scelta”. È un malinteso quello accaduto a Filippo quando, trovandosi in vacanza a Napoli con gli amici, cade nel delitto per errore. La sua storia, di sbagli e di difficile adattamento al carcere e alla cultura napoletana, mette in evidenza che chiunque può essere “O’ Chiattillo”, “il signorino”, colui che nell’ambiente criminale risulta un pesce fuor d’acqua. E se gli altri ragazzi conoscono perfettamente le regole non scritte del carcere, Filippo no. Naditza, invece, sembra proprio essere a suo agio: entra in carcere per l’ennesima volta a seguito di un furto eseguito con arguzia e furbizia. Lei, infatti, si fa cogliere in stato di flagranza di proposito: così, almeno ha un tetto sulla testa, un pasto caldo, delle amiche e un luogo che la tenga al sicuro dal pressante padre che vuole farla sposare per soldi. Eppure, anche due situazioni completamente opposte, come quelle di Filippo e Naditza, hanno in comune l’unità di misura: il tempo. Ed è dall’utilizzo di quest’ultimo che emerge con chiarezza il classismo del sistema penitenziario: il tempo del pianista benestante e della zingara non hanno lo stesso valore, e questo il sistema lo sa bene. Nella pena detentiva il metro di misura è prima il tempo e poi il denaro, perché nel tempo di carcerazione non c’è rendita e, di qui, la differenza tra chi può vivere facendo a meno di questa rendita e chi invece no. Ma a prescindere dalla classe sociale, la privazione di tempo e la mancanza di guadagno diventano ancor più pregnanti nella giovane età, in una fase dello sviluppo che impone un’attenzione educativa necessaria al tempo presente ma destinata al tempo restante. Inoltre, indipendentemente dall’età anagrafica, la struttura del tempo nel carcere risulta profondamente sfasata rispetto a quella della società esterna. In carcere il significato del tempo è «afflizione come retribuzione della colpa e del male compiuto»[2], un tempo percepito sempre come abbondante e insufficiente: si ha molto tempo per sé stessi, eppure questo sembra mancare proprio perché la propria dimensione risulta statica e snaturata, senza un reale spazio del privato. Nella fisionomia della serie c’è poi l’occhio che sorveglia, quello degli educatori e delle guardie, anche loro con storie personali e di rimpianti di gioventù (tra chi è sempre stato al servizio altrui nei Centri Sociali e chi deciderà solo successivamente di scostarsi dall’ambiente criminale per prestare il proprio servizio al bene delle giovani comunità). Tutti inglobati dalla passione per il proprio mestiere, partendo dalla Direttrice e passando per il comandante e gli educatori. Vite intere dedicate ai ragazzi, talvolta per un tornaconto personale e altre volte per puro affetto. Un sentimento che spesso non viene ricambiato e porta ad interrogarsi su quale approccio sia il più efficace, il più semplice. Ma nulla è semplice quando si ha a che fare con le altrui esistenze e con la delicatezza di un ambiente che racchiude con sé tutti i problemi di chi vi abita.
Ma chi è il “minore”? Dal 2014, a seguito della legge n. 117, il limite massimo per la permanenza nel circolo penale minorile per i soggetti che abbiano commesso reati da minorenni è stato innalzato da 21 a 25 anni. Ad ogni modo, il report dell’Associazione Antigone mostra come le carceri per minori sono in condizioni migliori rispetto a quelle per gli adulti e che sono giustamente informate al principio secondo cui “educare è meglio che punire”. La prova di tale efficacia è data dal fatto che la legislazione in vigore dal 1988 (Codice del processo minorile, D.p.r. n. 488), nella parte in cui prevede una procedura prevalentemente finalizzata all’inclusione sociale piuttosto che alla repressione penale, ha favorito un progressivo calo del numero dei reati degli infra-diciottenni. E tra le modalità che accompagnano l’espiazione della pena, figura la musica. In particolare, il “rap”, canale privilegiato per la denuncia sociale, occupa un ruolo centrale nell’intrattenimento terapeutico dei giovani detenuti, come evidenziato anche all’interno della serie “Mare fuori”, ove si utilizzano strumenti artistici come la poesia e la melodia per sfogare paure ed incomprensioni di una vita passata che si ripercuotono ferocemente nel rinchiuso presente. I ragazzi sono arrabbiati, impauriti, ma anche vogliosi di riscattarsi ed esprimere la loro complessità e, con la collaborazione degli educatori, possono mettere in versi il loro malessere e raggiungere il pubblico travalicando i confini delle mura di cinta[3]. La stessa sigla della serie tv risuona come eterna rassicurazione: “Nun te preoccupà guagliò, c sta o mar for, c sta o mar for, c sta o mar for”. Non preoccuparti ragazzo che, comunque vada, c’è il mare fuori (che resta lì, come a rassicurarti nei momenti più difficili, a differenza del movimento interno imprevedibile). Il testo della canzone prosegue: “So cresciut miezz a vie, o sacc chell che m’aspett, nu guaglion ro sistema, mo vo sistema tutt cos, miezz a vie e megl a ten e fierr o a vennr e ros”. Sono cresciuto in mezzo la strada, so quello che mi aspetta, un ragazzo del sistema ora vuole sistemare tutto quanto, ma in mezzo la strada è meglio avere una pistola che vendere le rose. Se non è forse ancora possibile abbandonare uno degli interrogativi iniziali (“se nasci in un ambiente malavitoso, sei destinato a morirci?”), dobbiamo al contrario tenere saldamente a mente alcuni punti d’appoggio indiscutibili, lambiti a partire dalla serie televisiva, per la necessaria e complementare riflessione successiva: cosa possono fare la società civile e lo Stato ‒ debole dei suoi doverosi limiti rispetto all’individuo, forte dei suoi naturali e discrezionali strumenti ‒ affinché non accada?
Alcuni numeri:
Dal rapporto “Ragazzi Dentro” dell’associazione Antigone, è possibile ricavare alcune preziose informazioni sull’attuale sistema carcerario minorile. Il dato degli Istituti Penali per i minorenni è il seguente: 316 minori e giovani adulti distribuiti disomogeneamente in 17 istituti. Da nord a sud troviamo le strutture di: Torino, Milano, Treviso, Pontremoli, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Benevento, Potenza, Bari, Catanzaro, Palermo, Catania, Acireale, Caltanissetta, Cagliari. Unico istituto esclusivamente femminile è quello di Pontremoli, in provincia di Massa e Carrara, mentre le sezioni femminili sono presenti nell’IPM di Roma a Casal del Marmo e di Napoli a Nisida. La pena detentiva è molto più utilizzata nel sud e nelle isole, mentre al centro e al nord sono più diffusi i percorsi alternativi al carcere.
[1] Istituto Penale per i minorenni di Nisida: https://www.ragazzidentro.it/istituto/nisida/
[2] “Tempo sociale e tempo del carcere”: http://www.antoniocasella.eu/archica/mosconi_tempo.pdf
[3] Si pensa che lo stesso cantante “Liberato”, a cui il personaggio “Cardiotrap” si ispira, abbia cominciato a fare musica all’interno delle mura del carcere di Nisida, una teoria che rimane tale dato il mistero che avvolge la figura del cantautore partenopeo.
*foto dell’articolo “Mare fuori, l’attore di Carmine svela: ‘La recitazione mi ha salvato la vita’”, su: www.lanostratv.it/2021/12/mare-fuori-lattore-di-carmine-svela-la-recitazione-mi-ha-salvato-la-vita/
Commenti recenti