In attesa della pronuncia della Corte costituzionale sull’ammissibilità del referendum sulla Giustizia proposto dal Partito Radicale e dalla Lega, intervistiamo Carmelo Palma, fondatore di Italia Europea. Proprio Italia Europea e Comitato Ventotene, infatti, hanno di recente dato vita al “Comitato garantista per il Sì” con l’obiettivo di sostenere i sei quesiti referendari al vaglio della Consulta.


Italia Europea, insieme al Comitato Ventotene, ha costituito il Comitato Garantista per il sì, con l’obiettivo di promuovere le ragioni del sì al referendum sulla giustizia. Quali sono le ragioni che vi hanno spinto a formare il comitato? E quali obiettivi vi ponete al di là del sostegno al referendum?

Il primo obiettivo è difendere il contenuto dei referendum dalle illazioni e dalle speculazioni interpretative. Rileva ovviamente, sul piano del gioco politico, che a sostenere questi referendum di fattura e storia radicale e a renderli concretamente possibili sia stata la Lega. Ma non è questo sostegno a qualificarli, né a dare il senso delle conseguenze che la loro approvazione comporterebbe. Chiunque può fare, anche molto ragionevolmente, il processo alle intenzioni di Salvini, chiedendosi cosa speri di guadagnarci. Dal punto di vista oggettivo, però, è sicuro che l’approvazione dei referendum comporterebbe una radicale inversione di tendenza rispetto alle politiche sulla giustizia penale. Veniamo da anni in cui – anche a causa della Lega, ma non solo della Lega, come sulla prescrizione – le uniche riforme ammissibili erano nella direzione opposta a quella di una civilizzazione e costituzionalizzazione del diritto penale. Questi referendum avviano, anche se certo non completano, una possibile inversione di tendenza. 

Il fatto che in Cassazione siano state depositate le delibere di 5 Consigli Regionali anziché le 500.000 firme dei cittadini, che pure sono state raccolte l’estate scorsa, può incidere negativamente sulla forza intrinseca dei referendum?

Siamo perfettamente consapevoli e l’abbiamo scritto a chiare lettere lanciando la nostra iniziativa che la presentazione delle proposte da parte dei Consigli regionali rischia di rendere i referendum più deboli politicamente e meno riconoscibili nel loro significato civile. Né ci sfugge che la Lega non sia stata certo l’interprete più coerente dei principi della civiltà giuridica in materia penale, anche se accuse analoghe e ugualmente meritate potrebbero farsi verso i principali partiti italiani, dal PD a FdI. Ma questo è un problema oggi decisamente meno rilevante del muro di gomma che ci aspettiamo che i referendum incontreranno. Profezia facile: tutti i referendum ammessi dalla Corte, a meno che non vi sia una “mattanza” oggi non ipotizzabile sulla base dei precedenti, dovranno combattere contro una strategia astensionista. Non contro il no, ma contro il non voto, per vanificarli.

La crisi di credibilità che ha investito la magistratura necessita di una riforma radicale. I quesiti che riguardano la magistratura (CSM, equa valutazione magistrati, responsabilità diretta, separazione delle funzioni) saranno sufficienti? 

Non sono sufficienti, ma sono necessari. Di sicuro non sarà questo Parlamento ad avviare quell’inversione di tendenza necessaria per avvicinare obiettivi di riforma oggi inimmaginabili, nell’orgia di punitivismo e panpenalismo che affligge e intossica la vita istituzionale e la cultura civile dell’Italia. E non è affatto detto che possa esserlo il prossimo, visto che qualunque maggioranza sarebbe condizionata dall’uso dei delitti e delle pene come strumenti di consenso. Alcune proposte referendarie sono più “concludenti” come quella sulla responsabilità civile diretta. Altre conseguono per via traversa un risultato non perfetto, ma utile, come quella che impedisce il passaggio da funzioni requirenti e giudicanti. Altre ancora, come quella sul CSM, avviano appena la riflessione. Ma bisogna prendere atto che il referendum abrogativo, per la natura stessa dello strumento, non si presta sempre, su tutti i temi, a riforme complete.

Il quinto quesito referendario riguarda l’abrogazione di uno dei casi in cui può essere disposta dal giudice una misura cautelare, ossia la reiterazione di reati della stessa specie. Sono giustificate le critiche di coloro che paventano il rischio di lasciare in libertà persone pericolose per la pubblica sicurezza?

Oggi, anche per i crimini che non comportano o non determinano uso di violenza, la custodia cautelare è diventata un facile strumento d’indagine. A un accusato di corruzione o concussione lo si sbatte dentro, dicendo che potrebbe reiterare il reato, così è più facile che confessi o faccia chiamate di correo. Ma la custodia cautelare non serve a questo, bensì a proteggere, come misura estrema, il corretto funzionamento della giustizia (in caso di pericolo di fuga o di inquinamento delle prove da parte dell’accusato o imputato) e il verificarsi di eventi irreparabili. Quindi deve servire a prevenire danni alla vita e alla libertà delle nuove possibili vittime, non a fare vincere i processi alla pubblica accusa. Quindi escludere la custodia cautelare per la reiterazione di reati che non comportano violenza personale diretta (o reati ancora più gravi contro la sicurezza pubblica) non è solo ragionevole, ma doveroso. Anche perché la custodia cautelare è comunque una pena afflittiva irrogata nei confronti di innocenti, non ancora condannati. Peraltro, è evidente che oggi nella logica del giustizialismo italiano – che vale nei bar, come in Parlamento – l’accusa è già una condanna e dunque la carcerazione preventiva è una pena, per così dire, “logica”. Siamo agli antipodi dello Stato di diritto. E dobbiamo tornare nelle coordinate dello Stato diritto.

Infine, perché è giusto abrogare il decreto Severino?

La legge Severino sulla incandidabilità e decadenza dei condannati è stata un precursore di quel populismo penale che dal 2013 in poi ha dilagato, a destra, come a sinistra, malgrado il nome che la designa sia quello di un avvocato rispettabile, ma non incolpevole rispetto a questa deriva. Non è vero che prima in Italia i condannati per gravi reati fossero coperti da chissà quale immunità, basti pensare al caso Previti. Il decreto Severino ha semplicemente anticipato la decadenza per i casi di condanna non definitiva e previsto la decadenza anche per condanne minori, sulla base del principio non solo sbagliato, ma falso, che la moralizzazione della politica potesse realizzarsi con gli strumenti del diritto penale.