Pubblichiamo una riflessione di Ettore Grenci, avvocato penalista, già Segretario della Camera Penale di Bologna “Franco Bricola” e componente dell’Osservatorio Corte Costituzionale dell’Unione Camere Penali Italiane. Oggetto dello scritto sono le forme di repressione del dissenso e l’abuso della legislazione antiterrorismo.
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“Ma perché si scelgono proprio gli anarchici? […] Innanzitutto gli anarchici rappresentano la parte più debole dello schieramento di sinistra, perché priva di protezione, senza amici, di fatto isolata politicamente. Inoltre sono pressoché privi di organizzazione, e seguaci di una teoria politica articolata in varie tendenze, alcune delle quali sono spesso indefinibili o mal definite: due caratteristiche che permettono ogni tentativo di infiltrazione e di provocazione al loro interno.” (E.M. Di Giovanni, Marco Ligini e altri, La strage di Stato, Avvenimenti, Roma 1993, p.22)
1. Il dissenso e la protesta nella morsa del terrorismo mediatico
Mi occupo da anni, nel mio ruolo di avvocato, di processi a carico di quelli che, storicamente, vengono definiti “nemici dello Stato”, coloro che provengono dell’area politica di quei movimenti e gruppi spesso definiti, con semplicistica e banalizzante approssimazione, “anarco-insurrezionalisti”. Non è questa la sede per un’analisi approfondita delle varie sfaccettature che si possono riscontrare nella variegata area del movimento libertario italiano ed internazionale. Ma certamente l’ostentazione di un linguaggio mediatico che tende ad incardinare fenomeni complessi esclusivamente nell’alveo della criminalità – in quanto troppo spesso bollati come produttivi solo di bieca ed irrazionale violenza – può essere il punto di partenza per analizzare le ragioni che accompagnano, anche storicamente, il processo di criminalizzazione degli anarchici come “nemici dello Stato”. In realtà, come si è potuto constatare nell’ultimo decennio, tale processo si è realizzato anche a prescindere dalla specifica area politica di riferimento, per colpire tutti quei fenomeni di aperta e rivendicata opposizione a determinate scelte governative, locali o nazionali, che non risultano catalogabili nelle “riconosciute” organizzazioni, associazioni o partiti, e che si pongono quale obiettivo il rifiuto di tali scelte senza aperture a compromessi. Si pensi ai variegati movimenti che in questi anni sono nati e cresciuti attorno a tematiche connesse alla tutela dei diritti dei migranti o alla lotta contro lo sfruttamento del territorio (in primis, il movimento c.d. “NO TAV”), che, accanto alla forza comunicativa data dalla partecipazione di una vasta fascia di cittadini, hanno posto in essere azioni dimostrative di resistenza attiva, di c.d. “sabotaggio”, talvolta integranti fattispecie penali (manifestazioni non autorizzate, occupazioni di strade ed autostrade, piccoli danneggiamenti, etc.). In questi casi, non è possibile individuare un’unitaria e condivisa matrice ideologica o politica. Tuttavia, in quella logica di semplificazione mediatica di cui si accennava in premessa, si è realizzata una vera e propria criminalizzazione di tali movimenti. Da un lato, attraverso un costante sovradimensionamento sul piano penale della effettiva portata delle loro azioni. Dall’altro, con l’accostamento alle c.d. “frange estreme”, che nel linguaggio giornalistico assumono ora il nome di “anarco-insurrezionalisti”, ora quello, ancora più d’effetto, di “Black Block”. È inevitabile che l’effetto (ricercato?) dell’amplificazione dell’immagine “brutta, sporca e cattiva” di questi ultimi sia poi quello di massificare il giudizio negativo rispetto alla globalità del fenomeno (ben più complesso e articolato), che in questo modo si riduce invece a mera manifestazione di violenza (quasi da hooligans). Così, si ottiene più di un risultato. Innanzitutto, quello di sminuire, ma anche delegittimare, le ragioni politiche che accompagnano i movimenti, attribuendo etichette di comodo in cui far confluire una moltitudine di soggetti e di idee spesso frutto di percorsi, pratiche e sensibilità politiche del tutto diverse, che come tali non appaiono catalogabili secondo schemi precostituiti (e forse proprio per questa ragione, additati come maggiormente “pericolosi”, perché non classificabili, e dunque poco controllabili). L’altro risultato, invece, è quello di esasperare il clima nazionale – e più spesso quello di alcune città-chiave della vita pubblica italiana – sollecitando una risposta “law and order”, ricorrendo frequentemente al refrain dello “stato di emergenza” che autorizzi e legittimi tale risposta.
2. L’emergenzialismo come metodo di governo. La giustificazione permanente dell’erosione delle garanzie nella produzione penale in materia di terrorismo
In Italia, dagli anni Settanta in avanti, il metodo di governo è consistito interamente in un avvicendarsi di emergenze, che, di fatto, hanno ormai assunto una “cronicità” tale da divenire l’ordinario sistema di produzione legislativa. L’emergenza per antonomasia è quella rappresentata dalla lotta al “terrorismo”, che nasce come contro-movimento rispetto alle lotte iniziate con l’Autunno Caldo. Anche in quel frangente storico, a fare le spese di tale emergenza sono state le avanguardie dei lavoratori in lotta, inopinatamente buttate nel calderone delle “forze eversive”, con il risultato di confinare il conflitto sociale alla sfera del penale e del giudiziario. Oggi, le dinamiche che portano alla repressione delle lotte provenienti dai movimenti sociali non appaiono significativamente mutate, soprattutto per quanto concerne le modalità con le quali si giunge a tale risultato: la costruzione mediatica di un’immagine negativa degli stessi quale “nemico sociale”, a cui segue l’inquisizione giudiziaria, spesso con lo strumentario penale creato per ben altri fenomeni (in primis, per la repressione di quello terroristico). Ed invero, non può sembrare nuovo constatare che il “circo mediatico”, creando spesso la narrazione della “emergenza”, si trasforma quasi sempre in un “circo mediatico-giudiziario” (la vicenda nota come “Mafia Capitale” ne è un fulgido esempio). Ciò si verifica con maggiore evidenza laddove tali dinamiche si possano alimentare del sinistro “revival” dell’equazione “violenza=terrorismo”, riscontrabile con maggiore frequenza allorché il terreno d’indagine sia quello delle azioni e delle lotte di movimenti e gruppi ricondotti all’area anarchica. Giovanni Fiandaca considera il “terrorismo” come “concetto generico, di matrice socio-logico-politica, permanentemente esposto al rischio di subire manipolazioni interpretative” (Fiandaca, Tesauro 2005, p. 119). Dietro a questa definizione, si palesa tutta la delicatezza del tema di fondo: proprio perché tale concetto (come quello quasi “gemello” di eversione) è di per sé “generico” − mentre il diritto penale deve ispirarsi a criteri di tassatività e di proporzionalità −, lo strumentario sanzionatorio offerto dal legislatore per la repressione dei fenomeni collegati a finalità eversive o terroristiche andrebbe maneggiato con estrema cura e cautela, al fine di evitare di esporsi a quel “rischio di manipolazioni interpretative” da cui mette in guardia il Professore. A delimitare l’ambito applicativo della “finalità terroristica ed eversiva”, dopo un lungo periodo in cui la definizione di tali concetti era lasciata alla “giurisprudenza creativa” dei giudici di merito e di legittimità, è intervenuto il legislatore nel 2005, introducendo nel nostro ordinamento penale l’art. 270-sexies c.p.
3. L’introduzione dell’art. 270-sexies e la pericolosa anticipazione dell’intervento penale ante delictum
Con la legge 14 gennaio 2003 n. 7, in vigore dal 28.1.2003, l’Italia ratificava la Convenzione internazionale per la repressione del finanziamento del terrorismo, adottata a New York dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con la risoluzione n. 54/109 del 8.12.1999. In questo modo, tra le altre cose, si prevedeva che “commette un reato ai sensi della Convenzione chiunque con qualsiasi mezzo, direttamente o indirettamente, illegalmente ed intenzionalmente, fornisce o raccoglie fondi con l’intento di utilizzarli o sapendo che sono destinati ad essere utilizzati, integralmente o parzialmente, al fine di compiere […] qualsiasi atto diretto a causare la morte o gravi lesioni fisiche ad un civile o a qualsiasi altra persona che non ha parte attiva in situazioni di conflitto armato, quando la finalità di tale atto, per la sua natura o contesto, è di intimidire una popolazione, o di obbligare un governo o un’organizzazione internazionale a compiere o ad astenersi dal compiere qualcosa”. Si è così introdotto un doppio requisito di verifica, costituito, da una parte, dalla necessità di utilizzare un mezzo violento diretto a cagionare gravi danni fisici alle persone, e, dall’altra, dalla finalità di tale atto, che deve essere teso, per la sua natura (quindi per la sua oggettiva portata offensiva), ad intimidire una popolazione o ad obbligare le istituzioni a compiere o ad astenersi dal compiere un atto di loro competenza. Sulla scorta di queste indicazioni, la Decisione Quadro sopra citata invitava gli Stati membri dell’UE ad adottare una disciplina dei reati terroristici che avesse un minimo comune denominatore e che delineasse il reato terroristico a partire dalla definizione ivi datane. Così, lo Stato italiano – in ottemperanza a tale invito – approvava il D.L. 27.7.2005 n. 144, convertito nella legge 31.7.2005 n. 155, che all’art. 15 comma 1 introduceva l’art. 270-sexies c.p., che espressamente prevede: “Sono considerate con finalità di terrorismo le condotte che, per la loro natura o contesto, possono arrecare grave danno ad un Paese o ad un’organizzazione internazionale e sono compiute allo scopo di intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto o destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un’organizzazione internazionale, nonché le altre condotte definite terroristiche o commesse con finalità di terrorismo da convenzioni o altre norme di diritto internazionale vincolanti per l’Italia”. L’introduzione nell’ordinamento dell’art. 270-sexies c.p., con la sua precisa definizione contenutistica, avrebbe dovuto segnare evidentemente un punto di arrivo e di cesura, uno spartiacque tra prima e dopo il 2005, diventando il necessario punto di partenza e di riferimento della interpretazione giurisprudenziale della complessiva normativa attinente ai reati connotati da tale finalità – fra i quali ricade senza dubbio anche l’associazione con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico di cui all’art. 270-bis c.p. –, sovente utilizzata dalle procure per perseguire proprio le formazioni anarchiche. Come si potrà comprendere, si tratta di reati che comportano una forte anticipazione dell’intervento penale, e come tali possono trovare giustificazione e legittimazione costituzionale solo se si mantengono entro il perimetro del principio di necessaria materialità e offensività. Tuttavia (da qui il precedente uso del condizionale), la pur chiara portata descrittiva della norma introdotta nel 2005, frutto di uno sforzo di “tassativizzazione” del concetto di “terrorismo” o di “finalità terroristica o eversiva”, non ha costituto un sicuro argine alla tentazione di utilizzare queste fattispecie penali per criminalizzare e perseguire gruppi o movimenti politici “antagonisti”, che adottano pratiche di lotta anche attraverso azioni penalmente rilevanti ma rimangono comunque ben distanti da quelle condotte idonee a creare “grave danno al Paese” ovvero a “intimidire la popolazione”.
4. Usi e abusi della legislazione antiterrorismo nella prassi
Le cronache giudiziarie ci consegnano diversi casi in cui l’aggravante della finalità terroristica, ovvero l’utilizzo del reato di associazione terroristica ex art. 270-bis c.p., sono stati stati contestati nell’ambito di indagini condotte nei confronti di formazioni la cui “catalogazione ideologica” viene spesso ricondotta (in modo del tutto approssimativo) al c.d. “anarchismo insurrezionale”. Da questo punto di vista, è certamente curioso riscontrare come spesso vi siano non pochi punti di contatto tra la narrazione mediatica e quella giudiziaria (in particolare negli atti investigativi), dove il ricorso ad un linguaggio semplificatorio pare essere talvolta strumentale a investire di maggiore gravità il fatto, e ciò anche attraverso l’apposizione di una connotazione di particolare negatività del suo autore. Questo accade soprattutto quando ad essere oggetto di indagine e repressione sono le espressioni del dissenso politico e sociale “radicale”, dove è più facile si annidi il rischio di passare dal “diritto penale del fatto” al “diritto penale dell’autore”. Nelle recenti cronache giudiziarie si possono segnalare non pochi casi dell’uso improprio (e dell’abuso) dello strumentario penale “antiterrorismo”. In questi ultimi, si riscontra quale minimo comune denominatore il sovradimensionamento di elementi esterni al fatto, quali appunto la caratterizzazione ideologica dell’indagato, la sua vicinanza con determinati ambienti politici, ovvero il contesto generale in cui i fatti sarebbero stati realizzati. È quanto sicuramente accaduto in un noto caso giudiziario torinese, che vedeva quattro ragazzi accusati di aver danneggiato un generatore all’interno del cantiere della linea TAV a Chiomonte, in Val di Susa. La Procura aveva da subito qualificato il fatto come “atto di terrorismo”, chiedendo ed ottenendo la custodia cautelare in carcere per tutti e quattro gli indagati; tesi accusatoria, che ha resistito alle censure difensive sia davanti al GIP che davanti al Tribunale della Libertà, per poi trovare una sonora bocciatura della Corte di Cassazione. Questa, infatti, ha richiamato i giudici di merito al rispetto del principio di offensività, che deve sovraintendere all’applicazione di ogni fattispecie penale, segnalando, in particolare, come fosse evidente una “sproporzione di scala tra i modesti danni materiali provocati e il macroevento di rischio cui la legge condiziona la nozione di terrorismo“. Nonostante tale netta presa di posizione, la Procura ha perseverato nel proprio teorema, istruendo il processo di primo grado con la medesima qualificazione del fatto come azione “terroristica”. I PM così concludevano nella propria requisitoria al processo di primo grado: “L’assalto nella notte tra il 13 e il 14 maggio si colloca nell’antagonismo estremo, un atto di guerra contro il nostro Stato, per condannare le sue scelte di politica economica o condizionarlo nelle sue scelte future“. Alla fine di un lungo e articolato processo, è stata emessa la sentenza assolutoria dal reato di terrorismo (la condanna ha riguardato il danneggiamento e l’uso di una bottiglia incendiaria), ma intanto i quattro ragazzi avevano subito una carcerazione preventiva in regime di Alta Sicurezza per circa due anni. Si diceva prima del linguaggio, e della sua importanza nella costruzione accusatoria del “nemico” da perseguire e punire. Si noti il ricorso a parole d’effetto (atto di guerra), tipicamente mediatiche, evocanti improbabili scenari catastrofici per la sicurezza della collettività. Anche il riferimento all’appartenenza all’“antagonismo estremo”, vero leitmotiv dell’indagine e del processo, è particolarmente significativo di quella concezione del diritto penale dell’autore a cui prima si accennava, che ha consentito di trasformare un fatto di reato comune addirittura in un “atto di guerra”. Ancora più di recente, due inchieste giudiziarie di Roma e di Bologna, condotte dal ROS dei Carabinieri, hanno portato all’emissione di ordinanze di custodia in carcere per diverse persone, accusate di aver organizzato e partecipato ad associazioni terroristiche ai sensi dell’art. 270-bis c.p.
5. Una nuova forma di “diritto penale del nemico”
In questi casi, l’area colpita è quella anarchica, in particolare sul fronte delle “campagne di lotta” sulle carceri. Nessun attentato contro persone o cose, nessun’azione violenta tesa ad “intimidire la popolazione” o “recare grave danno al Paese”. Certamente un attivismo determinato e fuori dagli schemi del “politically correct”, con prese di posizione anche aspre e radicali, talvolta segnate da denunce per reati di non particolare allarme sociale, tipicamente connessi ad azioni pubbliche di gruppi non solo appartenenti all’area anarchica. Ma tale caratterizzazione ideologica gioca un ruolo fondamentale nelle ricostruzioni inquisitorie che danno la linfa alle informative di reato e ai provvedimenti giudiziari conseguenti: l’anarchico è dichiaratamente anti-sistema, non lascia e non accetta spazi per alcun tipo di delega o di compromesso, e come tale è impermeabile a qualsiasi dialogo o apertura con le istituzioni; portatore di un’idea di superamento dello Stato che è da considerarsi eversiva di per sé, e dunque perseguibile a prescindere. Così, quando a commettere un’azione delittuosa è un anarchico, quell’azione ha in sé la caratterizzazione eversiva; e quando l’anarchico agisce in gruppo, questo gruppo non potrà che essere un’associazione con finalità eversiva. Ne deriva un’idea molto simile a quel concetto di “diritto penale del nemico” teorizzato da Günther Jakobs, dove avviene lo stravolgimento della predominanza della tutela giuridica dell’individuo in quanto tale, qualora la vita dello Stato sia messa in pericolo da soggetti non considerati come cittadini, ma regrediti alla condizione di “nemici”. E non è certo un mistero che negli ultimi due secoli, per qualsiasi ordinamento, sia esso democratico o autoritario, gli anarchici sono i “nemici” per antonomasia, i “sospettati” per eccellenza (basti ricordare, per tutte, la drammatica vicenda giudiziaria di Pietro Valpreda).
6. I criteri, finora inascoltati, indicati dalla Cassazione
Tuttavia, esiste un “giudice a Berlino”. Proprio al fine di non trasformare il diritto penale in un “diritto penale del nemico”, un ruolo particolarmente importante e attivo nel delimitare il rischio delle “manipolazioni interpretative” da cui mette in guardia Giovanni Fiandaca, allorché si verta in contesti di “dissenso sociale”, è quello assunto dalla Corte di Cassazione. Non è un caso che nella sopra richiamata vicenda giudiziaria torinese sia stata proprio questa a dare la prima bocciatura alle tesi della Procura della Repubblica (invero, obliterate dal GIP e dal Tribunale del Riesame). E da ultimo, sempre la Cassazione qualche giorno fa è nuovamente intervenuta per annullare l’ordinanza custodiale emessa nella citata indagine romana su tutte le contestazioni qualificate dalla Procura (e anche in quel caso dal GIP) come di matrice terroristica o eversiva. Dovrebbero essere ormai acquisiti quei principi che la Cassazione, da tempo, segnala quali criteri per discernere ciò che è manifestazione del pensiero e ciò che è violenza eversiva o terroristica, alcuni dei quali vale la pena di ricordare nell’iconica conclusione del presente lavoro: “La semplice idea eversiva, non accompagnata da propositi concreti ed attuali di violenza, non vale a realizzare il reato, ricevendo tutela proprio dall’assetto costituzionale dello Stato che essa mira a travolgere” (in Cass., Sez. I, 11.5.2000, n. 3486) e “l’anticipazione della repressione penale finirebbe per sanzionare la semplice adesione ad un’astratta ideologia che, pur aberrante per l’esaltazione della indiscriminata violenza e per la diffusione del terrore, non è accompagnata dalla possibilità di attuazione del programma; si finirebbe così per reprimere idee, piuttosto che fatti” (in Cass. Sez. II, n. 25452/2017 Beniamino ed altri).
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