Nell’ottica del legislatore europeo, la diffusione di materiale video può avvenire solo quando sia “strettamente necessario” per garantire l’efficienza delle indagini e non per finalità differenti, come quelle prettamente mediatiche, auto-celebrative o di sensibilizzazione dell’opinione pubblica. Per questo, lo scopo della Direttiva (UE) 2016/343 è quello di scongiurare la veicolazione di messaggi potenzialmente in contrasto con la presunzione di innocenza, provenienti, in particolar modo, dalle “dichiarazioni in pubblico rilasciate da autorità pubbliche” idonee ad incidere sul diritto di ogni cittadino a non essere “presentato” all’opinione pubblica come colpevole anzitempo. Nonostante ciò, il precedente governo non ha esercitato la delega, trascurando l’impronta “colpevolista” che caratterizza, in modo sempre più allarmante, la comunicazione predisposta dagli organi inquirenti sulle vicende processuali.

Di recente ha fatto discutere la presentazione alla Camera dei deputati di alcuni emendamenti alla legge di delegazione europea 2019-2020, finalizzati al recepimento della Direttiva (UE) 2016/343 sulla “presunzione di innocenza”. La proposta, come affermato dai deputati Enrico Costa e Riccardo Magi, rispettivamente di Azione e +Europa, è scaturita da “un importante atto del Parlamento Europeo che, tra l’altro, stabilisce che “gli Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata, le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino la persona come colpevole” [1]. Nonostante la direttiva fosse annoverata tra i 28 provvedimenti europei da recepire con legge (in particolare, con legge di delegazione europea 2016-2017), il precedente governo non aveva esercitato la delega, forse sul presupposto – come sostenuto, del resto, anche da alcuni studiosi – che l’ordinamento italiano appresti già un’adeguata tutela alla garanzia costituzionale in questione. Tuttavia, una simile impostazione – ad avviso della scrivente – finisce per trascurare la discrasia (che di fatto sussiste) tra i principi affermati nella direttiva e l’impronta “colpevolista” che caratterizza in modo sempre più allarmante la comunicazione predisposta dagli organi inquirenti sulle vicende processuali. Da questo punto di vista, infatti, lo scopo della direttiva è quello di scongiurare la veicolazione di messaggi potenzialmente in contrasto con la presunzione di innocenza, provenienti, in particolar modo, dalle “dichiarazioni in pubblico rilasciate da autorità pubbliche” idonee ad incidere sul diritto di ogni cittadino a non essere “presentato” all’opinione pubblica come colpevole anzitempo (e cioè, si intende, ancor prima che la sua responsabilità penale sia stata accertata dai competenti organi giurisdizionali). Com’è tristemente noto, il trial by media è un fenomeno che non riguarda soltanto il nostro Paese, dal momento che studi comparatistici evidenziano criticità simili anche in altri contesti (si pensi ai c.d. judicios paralelos in Spagna). In Italia, nondimeno, lo scenario che si presenta quotidianamente ai nostri occhi è quello di una giustizia penale amministrata attraverso prassi giudiziarie che, direttamente o indirettamente, contribuiscono a deformare l’immagine del “giusto processo”. Inoltre, l’informazione giudiziaria tende sempre di più a svalutare il processo vero e proprio (in particolare, il dibattimento), enfatizzando eccessivamente le fasi iniziali dello stesso. Come messo in luce da uno studio dell’Unione Camere Penali Italiane [2], invero, per gran parte degli operatori dell’informazione e dell’opinione pubblica, il processo penale si risolverebbe nelle fasi delle indagini preliminari e degli arresti, caratterizzate da frequenti “fughe” di notizie e dalla contestuale pubblicazione sui media di stralci di intercettazioni dirette a dimostrare la colpevolezza dell’indagato. Pertanto, non stupisce più se in un simile contesto (culturale), dove lo scarto tra verità “mediatica” e “processuale” è aggravato dai tempi irragionevoli della giustizia, l’accertamento che si concluda con una pronuncia assolutoria venga percepito dall’opinione pubblica come un’ingiustizia o, addirittura, come un inutile dispiego di tempo e di denaro pubblico. Come si suol dire in questi casi: “tanto clamore per nulla”!

Ora, se è vero che il nostro codice di procedura penale contiene già disposizioni volte ad evitare la pubblicazione arbitraria di atti processuali sui media, a tutela della “verginità cognitiva” dell’organo giudicante (sebbene, com’è risaputo, gli artt. 114 e 329 c.p.p. rimangano costantemente disapplicati per volere delle stesse procure e non producano alcun effetto deterrente), è anche vero che mancano delle regole dirette a scongiurare che il medesimo pregiudizio venga a prodursi – prima ancora che per effetto dell’intermediazione dei giornalisti – per le condotte poste in essere dagli organi inquirenti, responsabili della conduzione di momenti essenziali del procedimento penale. Ancorché alcune norme vietino al magistrato della pubblica accusa di “rilasciare dichiarazioni ed interviste in violazione dei criteri di equilibrio e di misura” [3], oppure impongano al Procuratore della Repubblica di mantenere personalmente (o tramite un suo delegato) i rapporti con gli organi di informazione, attribuendo le informazioni a questi fornite in modo impersonale all’Ufficio [4], non esiste attualmente una disciplina della prassi delle conferenze stampa degli inquirenti. Questo vuoto normativo suscita ancor più preoccupazione se si considera che proprio le conferenze stampa, organizzate quasi sempre durante la fase delle indagini preliminari, rappresentano il luogo privilegiato per la divulgazione pre-processuale di materiale multimediale diretto (com’è evidente) a propagandare l’ipotesi accusatoria. Il riferimento è anzitutto ai video montati e divulgati dalle Forze di Polizia – ribattezzati dagli avvocati dell’UCPI “trailer giudiziari” [5] – che, nell’informare sulle vicende processuali, rappresentano il prodotto della discesa in campo, accanto all’informazione operata dai cronisti e dai mass media, della comunicazione degli investigatori. Nel senso che si dirà, pertanto, non stupisce se i promotori della sopracitata proposta di recepimento della direttiva (UE) 2016/343 abbiano richiesto, tra le altre cose, di “prevedere che, fino alla conclusione delle indagini preliminari, non vengano diffusi dall’autorità giudiziaria, a fini di comunicazione, filmati contenenti riprese di atti di indagine preliminare (intercettazioni, perquisizioni, esecuzione di misure cautelari), né audio di intercettazioni non ancora vagliate nell’apposita udienza stralcio”. Ma perché i filmati investigativi rappresentano una “minaccia” per la presunzione di innocenza? E perché la prassi della loro divulgazione in Italia si pone in contrasto con la direttiva in discorso? Vale la pena rammentare, in primo luogo, che questi filmati vengono predisposti e diffusi da organi ufficiali – e agenti appartenenti ai diversi corpi di polizia dello Stato, nelle funzioni di polizia giudiziaria – che, nelle dinamiche del processo penale, non svolgono attività di accertamento in senso stretto ma, per espressa previsione dell’art. 55 c.p.p., devono “anche di propria iniziativa, prendere notizia dei reati, impedire che vengano portati a conseguenze ulteriori, ricercarne gli autori, compiere gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale”. Questa funzione viene svolta sotto la direzione del pubblico ministero (art. 56 c.p.p.), che, in virtù dell’art. 109 Cost., dispone direttamente della polizia giudiziaria. Chi svolge le predette funzioni, oltre a dipendere funzionalmente dal pubblico ministero e organicamente dal potere esecutivo, ha il compito di ricercare tutti gli elementi probatori che possano suffragare un’ipotesi accusatoria. Si tratta pertanto – è d’obbligo ricordarlo – di una mera prospettiva, cioè di una teoria unilaterale formatasi in assenza di contraddittorio, che dovrà essere adeguatamente accertata dagli organi competenti. Eppure, attraverso l’apposizione del logo istituzionale del corpo di appartenenza, questi video – che mostrano altresì auto della polizia in corsa, militari incappucciati che irrompono nelle abitazioni o sequenze di riprese che sintetizzano in maniera accattivante l’attività investigativa – attribuiscono al materiale riprodotto una sorta di “garanzia” di attendibilità persino maggiore rispetto a quella di qualsiasi altro materiale proveniente direttamente dagli operatori dell’informazione. A ben vedere, ancorché il tenore e il contenuto dei filmati riprodotti sembrino talvolta non lasciare spazio ad interpretazioni alternative dei fatti (si pensi ai filmati che riproducono episodi di violenza su persone più deboli e che suscitano immediata indignazione), i video investigativi condizionano emotivamente cittadini e giudici, infondendo nell’opinione pubblica l’idea errata che la colpevolezza dell’indagato sia stata legalmente accertata. Ma così non è: anche nei casi in cui dalle immagini di un filmato, o dal tenore delle intercettazioni riportate, sembra evincersi in modo inequivocabile la responsabilità dei soggetti coinvolti, non spetta alle autorità inquirenti (e men che meno agli organi di polizia) stabilire quale sia il confine – già di per sé labile – tra quanto ipotizzato e quanto accertato a seguito delle investigazioni. In secondo luogo, questi filmati contengono (e non sarebbe possibile diversamente) solo pochi secondi o minuti di conversazioni intercettate e ritenute di interesse investigativo, e non a caso appartengono ad un compendio probatorio molto più vasto e corposo. Peraltro, esse sono riportate nella versione inizialmente trascritta dagli organi di polizia, senza l’apposita perizia del tribunale. Ciò significa che chi provvede materialmente al montaggio dei video investigativi (o chi ne impartisce le direttive) ha il potere discrezionale di selezionare quei segmenti del materiale raccolto ritenuti di maggiore rilevanza; se però questa rilevanza – in assenza di precise regole dettate dal legislatore – debba corrispondere a parametri di interesse investigativo o di interesse mediatico, non è ancora dato saperlo [6]. L’impressione, tuttavia, è che fra l’attività di informazione e la tutela dei diritti delle persone indagate si frapponga, in maniera sempre più evidente, il perseguimento di alcune finalità legittimate dall’esterno (e cioè dall’opinione pubblica), che inducono gli organi investigativi a ricorrere ad un linguaggio sempre più mediaticamente “appetibile”.

Queste moderne modalità comunicative, come denunciato dall’UCPI [7], di fatto “contribuiscono a gettare una luce allarmante sul fenomeno di inquinamento del corretto percorso processuale previsto dalle leggi, dai codici e dalle direttive sovranazionali”. Emblematica, come si ricorderà, la confessione del comandante dei Ris nel processo contro Massimo Bossetti, al tempo indagato per l’omicidio di Yara Gambirasio, il quale confessò che il filmato del noto furgone bianco fu “confezionato per esigenze comunicative” di concerto con la stessa procura. Non bisogna poi dimenticare che detti filmati investigativi vengono spesso divulgati, in conferenza stampa o attraverso le pagine social istituzionali dei singoli corpi di polizia (ormai prescindendo dall’intermediazione della stampa), prima ancora che ai soggetti indagati sia stata data la possibilità di conoscere le accuse che li riguardano, ad esempio prima della convalida della misura cautelare o precautelare, con la conseguente impossibilità per questi di potersi “difendere” di fronte all’opinione pubblica (oltreché agli stessi amici e familiari). In tal senso, la diffusione di questi video comporta a volte la violazione delle norme del codice di procedura penale. L’art. 329 c.p.p., infatti, dispone che gli atti di indagine sono coperti dal segreto istruttorio “fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e comunque non oltre la chiusura delle indagini preliminari”; per espressa previsione dell’art. 114 c.p.p., gli atti segreti non possono essere pubblicati neppure per riassunto, mentre ne può essere divulgato il contenuto (in sintesi) se non sono più coperti da segreto. Ne consegue che quando tali video vengono diffusi prima della notificazione all’indagato di un atto d’indagine, o quando si riportano brani integrali di conversazioni o comunicazioni telefoniche, si verifica un’indebita divulgazione che, paradossalmente, dovrebbe poi essere oggetto di un’autonoma valutazione da parte delle stesse procure che hanno avallato tali condotte, con buona pace delle più elementari garanzie procedurali. Venendo adesso ai principi espressi nella direttiva (UE) 2016/343 sulla presunzione di innocenza, l’art. 4 § 3 della stessa ammette che “l’obbligo (..) di non presentare gli indagati o gli imputati come colpevoli non impedisce alle autorità pubbliche di divulgare informazioni sui procedimenti penali, qualora ciò sia strettamente necessario per motivi connessi all’indagine penale o per l’interesse pubblico”. Il considerandum 18 precisa poi che per “motivi connessi all’indagine” debba intendersi, ad esempio, il “caso in cui venga diffuso materiale video e si inviti il pubblico a collaborare nell’individuazione del presunto autore del reato”, e ribadisce che il ricorso a tali ragioni dovrebbe essere limitato “a situazioni in cui ciò sia ragionevole e proporzionato, tenendo conto di tutti gli interessi”. In ogni caso, “le modalità e il contesto di divulgazione delle informazioni non dovrebbero dare l’impressione della colpevolezza dell’interessato prima che questa sia legalmente provata”. Nell’ottica del legislatore europeo, quindi, la diffusione di materiale video può avvenire solo quando sia “strettamente necessario” per garantire l’efficienza delle indagini e non per finalità differenti, come quelle prettamente mediatiche, perfino auto-celebrative o, come talora è stato ammesso [8], per esigenze di sensibilizzazione dell’opinione pubblica. Il processo penale, infatti, non è uno strumento che si presta a combattere fenomeni criminali per suscitare clamori o raccogliere consensi, ma un congegno delicato di regole e garanzie finalizzate all’accertamento della responsabilità dei singoli. È certamente nobile che, in funzione di prevenzione, gli organi giudiziari e di polizia si spendano attivamente per sensibilizzare l’opinione pubblica sui fenomeni criminali più allarmanti, ma ciò dovrebbe avvenire – come già accade, per esempio, nelle scuole o in altri contesti culturali – al di fuori delle dinamiche del procedimento penale, e comunque in contesti in cui tali attività non rischiano di sfociare in una indebita violazione della presunzione di innocenza delle persone indagate. In conclusione, sul presupposto che tale rischio possa annidarsi dietro una non corretta comunicazione istituzionale, l’auspicio è che il recepimento della direttiva in questione possa indurre il legislatore a disciplinare queste nuove e sofisticate forme comunicative: per invertire la rotta del percorso degenerativo subìto negli anni dall’informazione giudiziaria italiana, occorre, prima di ogni altra cosa, improntare l’attività informativa degli stessi investigatori a criteri di sobrietà e correttezza. È soprattutto su questa peculiare veicolazione di giudizi sociali di colpevolezza che bisogna lavorare, così da restituire dignità alla garanzia della presunzione di innocenza nella sua (ormai) riconosciuta dimensione extra-processuale.


[1] La direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016, in effetti, avrebbe dovuto essere attuata nell’ordinamento italiano entro e non oltre il 1° aprile 2018, termine fissato all’art. 14 per l’adeguamento degli Stati membri ai principi fissati dallo stesso testo europeo.
[2] I risultati dello studio, realizzato dagli avvocati penalisti dell’Osservatorio sull’Informazione giudiziaria dell’Unione Camere Penali Italiane (UCPI), guidato dall’Avv. Renato Borzone, sono riportati all’interno del libro AA.VV., L’Informazione giudiziaria in Italia – Libro bianco sui rapporti tra mezzi di comunicazione e processo penale, Pisa, Pacini Giuridica, 2016.
[3] Art. 2, comma 2, lett. bb) del d.lgs. n. 109/2006.
[4] V. le disposizioni di cui al d.lgs. n. 106/2006.
[5] A tal proposito, si consiglia la visione del video-documentario realizzato dagli avvocati penalisti dell’Osservatorio sull’Informazione giudiziaria dell’UCPI, visibile al seguente link: https://www.youtube.com/watch?v=sR98hnjgbpU.
[6] La problematica in questione è stata sollevata dall’Unione delle Camere Penali Italiane che, esercitando il diritto di accesso alla documentazione amministrativa previsto dalla L. 241/90, ha formalmente richiesto ai Ministeri della Difesa, degli Interni e dell’Economia di conoscere quale sia la disciplina dei c.d. “trailers giudiziari”, sia pure senza ottenere significative risposte. V. Il misterioso caso dei ‘trailers’ giudiziari. C’è il segreto di Stato?, in www.camerepenali.it, 13 dicembre 2017. 
[7] L. Granozio-F. Romeo, Gli “highlights” processuali. Comunicazione giudiziaria, magistratura, stampa: una sintesi dell’evoluzione dagli anni ’70 ai giorni nostri, in AA.VV., L’Informazione giudiziaria in Italia, cit., p. 165.
[8] A titolo esemplificativo, qualche anno fa, il Procuratore della Repubblica di Bari, nel corso di una conferenza stampa indetta per spiegare i dettagli di un’indagine su un presunto giro di tangenti al Teatro Petruzzelli, aveva affermato di aver voluto autorizzare la diffusione delle sequenze video che riprendevano alcuni degli indagati mentre ricevevano le buste di denaro «perché sono riprese molto efficaci e spero possano avere un valore deterrente». V. Tangenti al Petruzzelli, il procuratore di Bari: “Il video serva da lezione”, in «La Repubblica», 13 gennaio 2016.