Per affermare la distinzione tra reato e peccato è necessario maneggiare ed analizzare opportunamente il principio di laicità in materia penale. Il risultato è la divisione del diritto dalla morale, come, con altre parole, scriveva Beccaria. I vizi soggettivi e i peccati dell’individuo devono restare fuori dal diritto penale, rientrando gli stessi negli affari della Chiesa. Il giudice non deve farsi pastore di anime, ma ha il dovere di valutare il danno materialmente cagionato dal reato.

1. Fra autonomia e mondanità dello Stato

A poche settimane dalle considerazioni di Papa Francesco che lasciano ben sperare in merito ad un’apertura della Chiesa verso le unioni civili e dalle macabre decapitazioni di matrice terroristica in Francia e in Austria, risulta interessante riflettere in merito ad un tema, antichissimo almeno quanto l’Antigone sofoclea, che torna attuale a cadenza serrata: della distinzione fra diritto e morale. Il primo, dotato di cogenza e imperatività, uguale per tutti; la seconda, caratterizzata da un elevatissimo grado di relatività e plasmata su considerazioni strettamente personali dell’individuo. L’interrogativo da cui prende le mosse la presente analisi è il seguente: può il diritto (o, ancor più nello specifico, il diritto penale) curarsi di tutelare determinate concezioni ideologiche afferenti alle più intime sfere dell’etica e della morale? Nel nostro ordinamento impera il principio di laicità in materia penale. Esso, più che principio autonomo, si atteggia quale autentico carattere dello Stato, foggiato a sua volta su ulteriori sottoprincipi e corollari; canone ermeneutico di grande utilità, volto ad orientare il giudice nei casi di dubbia interpretazione e il legislatore nell’esercizio del suo jus puniendi. Con “principio di laicità” del diritto penale ci si riferisce, rispettivamente, a due caratteristiche in particolare. In primo luogo, all’autonomia del diritto penale rispetto alle contaminazioni ideologiche di matrice morale e religiosa, che lo stesso invece ben facilmente potrebbe subire. Inteso, poi, nella sua seconda accezione, esso attiene all’interesse dello Stato a preservare valori terreni, attuali, per certi versi mondani. Del resto, il diritto penale si occupa di fatti concreti: non può essere preordinato al perseguimento di una giustizia assoluta, intesa quasi come espiazione dei peccati della società, ma si giustifica piuttosto in quanto teso alla tutela di beni giuridici tangibili, percettibili. Preliminarmente, risulta importante, ai nostri fini, considerare che l’arma del diritto penale può essere impiegata in extrema ratio [1], perciò solo in occasione di una lesione o messa in pericolo di un bene giuridico, interesse o valore che l’ordinamento ritiene meritevole di difesa e protezione penale. Non si configura alcun reato, non si celebra alcun processo senza un conseguente danno alla società. Tale affermazione, sebbene carica di valenza liberale [2], rischia, però, di risolversi in una mera tautologia, in mancanza di una decisa e ben delineata definizione del concetto di “bene giuridico”; con la conseguenza che, se la risposta sarà “la violazione di una norma”, allora si perderebbe repentinamente il tanto apprezzato contenuto liberale. A conferire sollievo provvede certamente la teoria avallata dal luminare Franco Bricola [3], divenuta mos Italicum in seno alla cultura del garantismo. Egli sostenne che il concetto di “bene giuridico” dovesse essere ormeggiato alla Costituzione [4], come si farebbe ancorando una barca alla boa, a sua volta assicurata al fondale marino. La Carta dei valori non solo funge da schermo contro un diritto penale ipertrofico e artificiale, ma diviene fondamento stesso del diritto penale, condizione di validità di esso, sì da forgiare il “volto costituzionale” del reato [5].  Sulla base di tale considerazione possiamo, pertanto, affermare che il nostro ordinamento abbraccia una concezione di legalità mista: non già soltanto formale (per cui il reato è solo quel fatto previsto come tale da una fattispecie legale incriminatrice), ma anche quel fatto idoneo a offendere un bene, un interesse, un valore di rilevo costituzionale.

2. Una condizione necessaria: il libero arbitrio

Occorre, però, compiere un leggero passo indietro. L’intera costruzione del principio di laicità è basata su un presupposto tacito: l’idea secondo la quale i cittadini non sono più lungamente considerati sudditi, ma si atteggiano quali soggetti capaci di autodeterminarsi, liberamente, attraverso il compimento di scelte non vincolate o influenzate. Uno Stato che riserva ai suoi cittadini un simile trattamento è lontano da logiche e concezioni paternalistiche, in quanto non ritiene di doverli proteggere, tra le altre cose, anche nei confronti di loro stessi. Il libero arbitrio dei soggetti costituisce, del resto, fondamento posto alla base del pensiero del maestro Francesco Carrara. A monte, viene affermata la discrezionalità e l’arbitrarietà del soggetto rispetto alle scelte di vita e di condotta da tenere, del delinquere o del non delinquere. Al contrario, sulla scorta del positivismo che tentò di importare i paradigmi della scienza a tutti i rami del sapere, si iniziò a ritenere che la scelta criminale non fosse una scelta libera, ma fortemente condizionata da fattori fisici e, dunque, antropologici. Secondo Cesare Lombroso, la propensione al crimine può derivare da una situazione innata − rilevabile, ad esempio, dal tipo di forma di cranio umano −, tale da scemare grandemente il potere volitivo dell’individuo. Alla stregua di questa concezione, la condotta criminale prescinderebbe da libertà e coscienza soggettiva, essendo un qualcosa di naturale, addebitabile piuttosto alle sue fattezze fisiche. Pertanto, i due modelli di diritto penale appena considerati si situano agli antipodi: il primo guarda al fatto, ritenendo che si debba punire un soggetto per quello che fa, per la condotta che pone in essere; il secondo guarda all’autore e ritiene punibile un soggetto per quello che è. Bisogna punire un soggetto perché ha commesso un furto, appropriandosi indebitamente di un bene altrui, o perché appare incline al furto? Quanto più ci si allontana dal fatto e ci si avvicina al suo autore, tanto più si amplia la discrezionalità di chi deve valutare. Quanto più ci si allontana da dati oggettivi, tanto più diventa fragile e volatile la stessa certezza del diritto. Sin da subito, appare confortante ammettere che il nostro codice compie una scelta molto chiara a favore del modello oggettivistico di diritto penale e, nonostante la forte influenza esercitata dal positivismo (v. le misure di prevenzione, dette anche ante delictum), restano salde le idee di Beccaria e Carrara che si batterono per una netta contrapposizione fra diritto penale e morale. L’antitesi è netta: i vizi soggettivi e i peccati dell’individuo devono restare fuori dal diritto penale, rientrando gli stessi negli affari di Chiesa. Il giudice non deve farsi pastore di anime, ma ha il dovere di valutare il danno materialmente cagionato. Si è lontani dal punitur perché peccatum est. La morale è soggettiva, ognuno ha la propria; abbracciare il diritto penale del soggetto, contaminato da idee moralistiche, equivarrebbe ad ammettere la supremazia di determinate ideologie al posto di altre. L’affermazione del principio di laicità rende il diritto penale libero da questi orientamenti, indipendente, autonomo, neutro.

3. Il Discrimen tra reato e peccato

Non tutto ciò che è moralmente riprovevole o, più semplicemente, opinabile, viene punito dal nostro ordinamento. Si pensi, al fine di una migliore comprensione, al trattamento differenziato che l’ordinamento giuridico riserva alla condotta di diffusione di materiale pedopornografico rispetto al caso in cui tale diffusione abbia ad oggetto soggetti adulti consenzienti. Mentre la seconda situazione non rientra in alcuna delle fattispecie incriminatrici contemplate dal codice penale, la circolazione di pornografia minorile rinviene la sua disposizione all’art. 600-ter c.p., il quale, al primo periodo del terzo comma, sancisce che chiunque con qualsiasi mezzo, anche per via telematica, distribuisce, divulga, diffonde o pubblicizza materiale sessuale ritraente minori di anni diciotto, soggiace alla pena della reclusione da uno a cinque anni, più multa. Pertanto, è particolarmente rilevante scorgere qual è la differenza fra le due ipotesi, al fine di comprendere la ragione sottesa alla diversa reazione dell’ordinamento in ordine a fatti fra loro alquanto similari, che differiscono solo rispetto al “soggetto” pornografico. È necessario indagare, in primo luogo, se sia effettivamente possibile ravvisare un bene giuridico sotteso ad entrambe le condotte; in secondo luogo, quale sia il bene giuridico tutelato; infine, se esso sia stato leso o messo in pericolo da una data condotta dell’agente. Questa modalità di procedere sarà particolarmente utile al fine di valutare se il diritto penale applichi con rigore il principio di laicità. A ben vedere, nella considerata ipotesi di diffusione di materiale pornografico, i soggetti si caratterizzano per essere persone mature e capaci di autodeterminarsi, di scegliere liberamente del proprio corpo e della propria eticità, sebbene, per taluni, quella condotta possa essere avvertita come riprovevole e moralmente inaccettabile. All’opposto, nel secondo caso, trattandosi di circolazione di materiale che ritrae soggetti minori, la diffusione dello stesso ben potrebbe essere idoneo a scalfire o anche solo mettere a repentaglio l’integrità psicofisica del bambino. E ancora, a titolo esemplificativo, si pensi al fatto che il nostro ordinamento punisce chi realizza una falsa testimonianza. Ipotizziamo il caso in cui, in sede di processo, si scopra che le dichiarazioni del soggetto erano vere, pur avendo, questi, intenzione di dire il falso. Puniamo comunque quel soggetto? Si punisce un fatto perché è moralmente riprovevole, perché è eticamente inaccettabile o perché costituisce lesione o messa in pericolo di un bene giuridico?  Il diritto penale punisce fatti, non idee o non già atteggiamenti interiori, in ossequio al principio di materialità e offensività del reato. La condotta moralmente riprovevole non è sufficiente a giustificare l’impiego dello strumento penale, in quanto il diritto entra in gioco solo in virtù dell’estrinsecarsi di un comportamento idoneo a ledere o mettere in pericolo il bene giuridico tutelato da una determinata fattispecie legale che costituisce reato ai sensi della legge penale. E’ qui che è possibile scorgere il discrimen tra reato e peccato o immoralità.

4. Valorizzazione del pluralismo e protezione delle minoranze

A massimizzare la laicità, mediante un’eccessiva chiusura dello Stato in ordine alle esigenze di protezione del singolo, si corre il rischio che il medesimo approdi ad un autentico “ateismo” ideologico. La non curanza delle posizioni soggettive sottese, contemplativa di una cieca omologazione di tutti gli individui dinanzi alla legge, rischia di tramutare lo Stato laico in uno Stato confessionale, che rigetta ogni qualsivoglia forma di espressione, al pari di quello che tanto si intende ripudiare. Si pensi all’atteggiamento di rigetto di taluni paesi occidentali, come la Francia o il Belgio (a laicità “forte”), che vietano l’utilizzo di simboli religiosi vistosi, come il velo islamico, e che spesso adottano una presunzione assoluta di subordinazione della scelta della donna, imponendole, pertanto, l’obbligo di privarsene. A seguito di tali considerazioni, il principio di laicità dovrebbe allora affiancare, insieme al connotato dell’autonomia dello Stato, il diritto alla differenza. A considerare altrimenti, si avrebbe una tirannia della mondanità sulla libera manifestazione del pensiero, la quale si estrinseca anche nella manifestazione del proprio credo religioso, fintanto che essa non sia lesiva dei diritti individuali altrui. Non fraintendiamoci: il bilanciamento dei vari interessi in gioco è operazione di delicatissima portata, specie quando a essere coinvolti sono i sentimenti religiosi. Ma ciò che rileva, ai nostri fini, è la tensione dello Stato a valorizzare le diversità, dandogli spazio (nel limite del possibile) mediante l’esaltazione di tutti i colori. Il pluralismo, ovverosia la tutela del maggior numero di interessi possibile, si rivela, pertanto, come un obiettivo necessario. Laicità come protezione dei più deboli, come diritto delle minoranze, dei credenti e dei non credenti, al fine di pervenire ad una seria applicazione del principio di uguaglianza sostanziale, mediante la rimozione di ostacoli che, senza spazio al dubbio, comportano uno sforzo ciclopico a carico delle autorità. È quando si perde il diritto alla diversità che si perde il diritto alla consapevolezza di sé. 

5. Confini labili

Sono svariati i temi avvertiti come eticamente “caldi”, che tutt’oggi tendono a mettere in crisi il principio di laicità del diritto penale. Si pensi all’offesa contro il sentimento religioso o morale altrui, posto a fondamento dell’ex reato di bestemmia introdotto dal codice Rocco, poi depenalizzato; al conflitto tra libertà religiosa e diritti individuali (come il rifiuto dei genitori Testimoni di Geova a prestare il consenso alle emotrasfusioni in favore dei figli minori); ancora, ai contesti caratterizzati da fortissime concezioni etiche quali l’aborto, l’eutanasia, la maternità surrogata. Proprio con riferimento a quest’ultima, appare interessante segnalare un disegno di legge volto a criminalizzare la pratica di gestazione per altri, anche qualora la stessa sia condotta all’estero. È in queste coordinate concettuali che i confini del principio di laicità si fanno più tenui e il rischio che il diritto penale sia esposto a contaminazioni ideologiche è molto elevato. Il diritto penale, pertanto, deve essere il portato di un’equa ponderazione dei vari interessi in gioco. Ma cosa accade se l’ago della bilancia risulta propendere verso un’unica direzione? Il risultato sarebbe un diritto tiranno, a svilimento degli altri. Perciò, la prima soluzione, rectius, un primo passo volto a ricercare una soluzione potrebbe rinvenirsi nel confronto dialogico fra le eterogenee parti coinvolte. Del resto, una cieca chiusura e convinzione circa la supremazia delle proprie posizioni e idee ostruisce alla crescita e alla progressione di un Paese. Un secondo ingrediente può essere dato dalla curiosità, la quale è strettamente connaturata alla sete di conoscenza individuale perché è solo ciò che ignoriamo a incutere timore. Le complicazioni, pertanto, non solo risiedono nella possibilità di approdare a “compromessi”, ma si tesaurizzano nella garanzia che gli stessi siano equamente raggiunti; specie qualora collimino con scelte individualissime, moralmente insindacabili. Un dato, però, è certo: nei contesti in cui il relativismo è acutizzato, il diritto penale non costituisce lo strumento più opportuno per la cura degli stessi. Il principio di laicità è il diritto alla coscienza individuale.


[1] Il diritto penale, per la sua natura dichiaratamente afflittiva, subentra solo qualora il fine perseguito dall’ordinamento non sia astrattamente raggiungibile mediante l’ausilio di altre misure. 
[2] L’affermazione è già carica di significato e ci dice cosa non può essere considerato bene giuridico. Un semplice pensiero non configura lesione o messa in pericolo di un bene giuridico. È per tale via che il principio di offensività ben si lega al principio di materialità, il quale sancisce che un reato, per essere considerato tale, deve estrinsecarsi in un fatto esterno, materiale; in un “fatto commesso”, in virtù dell’art. 25 della Costituzione. 
[3] F. BRICOLA, La teoria generale del reato, estr. da Novissimo digesto italiano, XIX, Torino, 1973.
[4] La Corte Costituzionale, nella celebre pronuncia n. 364 del 1988, ha affermato che l’utilizzo del diritto penale è giustificato solo dalla necessità di tutelare «valori almeno di rilievo costituzionale».
[5] M. DONINI, L’eredità di Bricola e il costituzionalismo penale come metodo. Radici nazionali e sviluppi sovranazionali, in Dir. Pen. Cont., fasc. 2/2012, 53 ss.